Tutti siamo rimasti scossi dalla foto recentemente pubblicata di Oscar Alberto Martinez e sua figlia Angie Valeria, 23 mesi, trovati morti abbracciati a faccia in giù nelle acque del Rio Bravo, annegati mentre tentavano di attraversare il confine tra il Messico e gli Stati Uniti.
Questa foto, che ha fatto il giro del mondo e ha commosso tanti, è stata subito accostata nei giornali, ma anche nella nostra memoria, a un’altra immagine: quella del corpo del piccolo siriano Alan Kurdi, naufragato nel mare Egeo, dopo essere scappato con la famiglia dalla guerra di Aleppo e Kobane. La foto che mostrava il cadavere di Alan Kurdi ritrovato su una spiaggia turca è stata diffusa dai media e dalla Rete in tutto il mondo, diventando virale e suscitando turbamento e commozione. Molti di noi ricordano la foto: Alan è sdraiato carponi sulla sabbia della spiaggia di Bodrum, bianco di carnagione e vestito all’occidentale, sembra quasi dormire. In un’altra foto, altrettanto commovente, un giovane poliziotto ne raccoglie il cadavere con delicatezza e forse piange mentre lo porta in braccio (si saprà poi che ha un figlio piccolo come Alan).
La pubblicazione della foto del cadavere del bimbo ha anche avuto delle ripercussioni sulla politica: dopo la sua diffusione alcuni leader, come Angela Merkel, hanno proposto una maggiore apertura ai migranti e perfino alcune campagne elettorali ne sono state influenzate, come in Norvegia o in Canada, Paese in cui la famiglia Kurdi stava tentando di andare per raggiungere un parente.
Infine, la foto di Alan è diventata presto un oggetto culturale, che è stato interpretato, raccontato, anche rielaborato: diversi artisti hanno celebrato l’immagine di quello sfortunato bimbo riverso sulla sabbia con sculture, murales, disegni.
A tre anni di distanza dalla morte di Alan, Fausto Colombo, professore ordinario di Teoria della comunicazione e dei media, ci spinge a riflettere sul motivo per cui proprio la foto di un bimbo morto su una spiaggia, tra le tante scattate in situazioni di guerra e migrazione, abbia avuto una tale diffusione, al punto di essere ancora presente nella memoria collettiva ed essersi trasformata in un simbolo delle migliaia di persone tragicamente scomparse in mare mentre cercavano di fuggire alla guerra. L’A. pone domande importanti che riguardano l’etica della comunicazione: in che modo la foto di Alan ci ha coinvolto, provocando una reazione non solo emozionale, ma anche morale («bisogna fare qualcosa»)? Quale strada scegliamo, di fronte a foto come quella di Alan, tra il cinismo e la compassione? Quando ci commuoviamo per Alan come possiamo ignorare il collegamento con la sorte di tanti altri esseri umani e non riflettere sulle politiche che escludono i migranti?
Per rispondere a queste domande Fausto Colombo ricostruisce prima di tutto la vicenda del “viaggio” delle immagini di Alan: dai primi tweet alla vasta diffusione delle foto tramite i media mainstream, dalla narrativizzazione (le foto come occasione per raccontare la storia del bambino) alle rielaborazioni fatte dagli artisti. Ci svela così la dinamica attraverso cui una piccola foto diventa un meme e un oggetto culturale. E il modo in cui essa ha colpito le coscienze e suscitato tante azioni di solidarietà, ad esempio quella di Marc Gasol, star della NBA, partito come volontario con l’Organizzazione non governativa spagnola Open Arms.
Dopo la diffusione delle immagini del piccolo siriano, c’è stato un desiderio di approfondire la vicenda del naufragio e di conoscere la storia della famiglia Kurdi, come indicano le ricerche fatte in tutto il mondo su Google (con un interessante slittamento dalla parola “migrante” a quella di “rifugiato”). Inoltre, si è manifestata un’esigenza di raccontare, di trasformare l’evento tragico in una storia: si è cercato di costruire un senso, un racconto che permettesse di esprimere il dolore e ricordare il bambino. Parallelamente, le immagini di Alan sono state trasformate in un simbolo: esse indicano la sofferenza delle popolazioni costrette a fuggire dalla guerra, il destino incerto e fatale di migliaia di bimbi migranti. In questo caso, le immagini sono state non solo condivise e commentate, ma anche rielaborate: si è rappresentato Alan come se fosse addormentato nel suo letto, o con le ali di un angelo, stimolando pietà e giudizio morale. Infine, diversi artisti hanno rappresentato il bambino o richiamato la foto nelle loro opere (ad esempio, Ai Weiwei si ritrae su una spiaggia nella stessa posa di Alan) mostrando che questo evento ci riguarda, parla di un fenomeno globale. Tutte queste rielaborazioni hanno trasformato la morte di Alan in un fatto pubblico e hanno contribuito alla costruzione di una memoria civile, espressa nel ricordo degli anniversari del suo naufragio, nelle notizie reperibili su Internet (come la voce di Wikipedia «Morte di Alan Kurdi») o nella scelta di dare il nome di Alan a una nave che soccorre i migranti.

Il lettore è anche invitato a seguire l’itinerario che ha compiuto l’A. come uomo e come sociologo: un viaggio fuori, verso la realtà, e dentro, verso il profondo di se stessi e delle proprie emozioni. L’immagine fotografica ha un legame con l’esperienza in divenire, con la memoria e soprattutto intrattiene una relazione molto stretta e ambigua con la morte, come sottolineano le riflessioni di alcuni autori citati (Walter Benjamin, Roland Barthes, Susan Sontag, Umberto Eco). La fotografia ha in sé un’ambiguità: oscilla tra il nascondere e lo svelare, tra la veridicità di ciò che è rappresentato e la possibilità di manipolazione, tra la ricerca della bellezza e l’orrore per le situazioni mostrate. Sicuramente, come dice Sontag, provoca un abbaglio cognitivo: pare che tutto sia lì, nell’evidenza del dato, invece solo la riflessione ci porta a conoscere. L’esempio più significativo è il fotogiornalismo di guerra: nelle immagini famose di vittime dei conflitti di cui il libro parla (come
The falling soldier di Robert Capa) è presente questa dialettica tra desiderio di testimonianza ed esibizione spettacolare del dolore, tra partecipazione e cinismo.

Infine, questo testo tratta due questioni cruciali, la rappresentazione del dolore da parte dei media e la raffigurazione della vittima infantile nelle fotografie umanitarie. Imago pietatis ci invita a interrogarci sul nostro ruolo di spettatori. Ogni foto, come ogni testo, attiva un senso che si compie soltanto con il contributo dello spettatore. Sta a noi che la guardiamo capire e fare qualcosa: che uso facciamo di queste immagini? Ci aiutano a dare significato al presente e al passato?
Di fronte alle foto di Alan posso girare pagina e tornare alla mia vita, addirittura mettendo in dubbio la loro veridicità (come è stato fatto per altre foto di bambini morti, pubblicate negli anni successivi); oppure posso aprire il mio cuore e la mia intelligenza e vedere in Alan uno sfortunato figlio, nipote e fratello nella famiglia umana che ci lega tutti in un’unica comunità di destino. Non possiamo evitare di scegliere: la nostra è una scelta morale e politica. Oltre all’etica del mostrare, che riguarda i fotografi e le testate giornalistiche, viene dunque chiamata in causa un’etica del vedere, che riguarda tutti noi.
Per questo motivo Fausto Colombo nell’ultima parte del libro ha il coraggio di suggerire una lettura meno cinica e più «tenera» (p. 60) della sequenza di foto che raffigurano Alan sulla spiaggia di Bodrum. Il gesto di compassione del poliziotto che raccoglie il corpo di Alan è paragonato alla raffigurazione di Simeone che prende in braccio il piccolo Gesù, in un quadro di Rembrandt.

Nella pietas del poliziotto posso riconoscermi e ritrovare la matrice delle mie azioni. Le immagini di Alan contengono la sfida dell’empatia, perché ci portano dall’intollerabilità di un bambino morto al gesto compassionevole di un poliziotto. Possiamo sentire quell’empatia o rifiutarla. «Possiamo tornare a guardare gli altri dietro il muro dei nostri stereotipi e dei nostri egoismi. Possiamo raccontarci che sono colpevoli del proprio dolore, che quest’ultimo non ci riguarda, che la nostra vita non deve esserne toccata. Ma se la porta dell’empatia si apre, non ci resta che tornare alla nostra umanità condivisa, al nostro essere in quanto umani una sola comunità di destino» (p. 115).