Il treno va a Mosca

Federico Ferrone e Michele Manzolini
Fondazione Culturale San Fedele – Kiné – Vezfilm, Italia-Regno Unito 2013, Durata: 70’, Distribuzione: Istituto Luce-Cinecittà, in sala da aprile 2014.
Scheda di: 
Fascicolo: gennaio 2014
Un treno attraversa una galleria, il buio si confonde con i contorni sbiaditi del vecchio filmato in otto millimetri in cui è stato girato. Questa immagine, dominata dal nero impastato dei filmati di famiglia, riecheggia nella memoria dello spettatore all’uscita da Il treno va a Mosca di Federico Ferrone e Michele Manzolini. Il viaggio evocato dal titolo della pellicola, in concorso alla 31esima edizione del Torino Film Festival, è quello di tre cineamatori romagnoli che negli anni ’50, su invito della FGCI, hanno partecipato al Festival mondiale della gioventù socialista nella capitale sovietica. Il loro percorso umano, lo stupore del loro viaggio, l’incanto e lo smarrimento per un mondo che a loro si mostra per la prima volta, saranno il cuore pulsante del film.

Nell’anno che sembra seguire la scoperta del cinema documentario da parte del pubblico italiano – si pensi alla vittoria di Sacro GRA alla Mostra di Venezia o a quella di TIR al Festival di Roma – il film di Ferrone e Manzolini schiva totalmente l’idea del documentario tradizionale, inteso come ripresa dal vero, per avvicinarsi al mondo dei found footage (film realizzati parzialmente o interamente con un girato preesistente). Infatti è composto principalmente da immagini già girate dai tre cineamatori Sauro Ravaglia, Enzo Pasi e Luigi Pattuelli, ed è il frutto di un lungo lavoro di montaggio: i due cineasti di oggi danno forma narrativa a centinaia di ore di riprese filmate tra il 1947 e il 1961, mostrando una concezione del cinema come opera di recupero, capace di riportare alla vita, attraverso il montaggio, sequenze già realizzate.
Il film si apre con gli “anni felici” del dopoguerra, con la Romagna contadina che, tra mitologie leniniste e ingenuità popolare, guarda a Est con la speranza in un avvenire migliore. «Per noi c’era solo una realtà, quella del socialismo e dell’Unione Sovietica», dice la voce di Sauro allo spettatore; le immagini scorrono mostrando la Festa dell’Unità a Bologna, i discorsi di Pietro Ingrao e Palmiro Togliatti, le parate e le fiaccolate organizzate dal Partito Comunista. La voce narrante e le immagini restituiscono un’esperienza quasi tattile dell’impegno politico, della fiducia concreta in un avvenire migliore, fatta di lavoro quotidiano e attività di svago. In una lunga sequenza molto onirica, alcune luminarie che si accendono e le lontane fiaccole nella notte evocano l’idea di una galassia sconfinata alla cui periferia risiedono i tre cineamatori.
È da Alfonsine, piccolo borgo della provincia di Ravenna, che nel 1957 parte il viaggio in treno verso Mosca, patria di un’utopia reale, terra promessa del socialismo. Nel percorso che conduce i tre ragazzi in pellegrinaggio alla tomba di Lenin e Stalin, e a vagare per le strade e i locali di un mondo da loro distante, il loro sguardo cambia: «Anche nell’Unione Sovietica c’era la povertà», arriva a constatare Sauro, voce narrante di tutto il film e unico protagonista del viaggio ancora in vita. Questa osservazione, per lo spettatore di oggi scontata, nello sguardo che il film restituisce assume il significato di uno shock culturale, momento di crisi per un sistema di valori consolidato e indubitabile. La realtà sovietica vista da vicino colpisce i tre cineamatori con la forza di uno schiaffo. L’osservazione che Stalin fosse un “omino” di bassa statura, che gli operai nelle industrie lavorassero svogliatamente o che ci fossero baracche e miseria, diventa così il punto di rottura di un sogno, il crollo di una intera visione del mondo. Il ritorno in Italia ha quindi il sapore amaro della disillusione. Racconta Sauro: «Tutti volevano vedere Mosca, ma nessuno voleva sentir parlare di povertà. Al ritorno siamo stati interrogati dalla polizia. Ci hanno chiesto: ma perché non siete rimasti là?». L’utopia è collassata nella realtà.

La pellicola, con una sapiente alternanza di immagini documento e momenti onirici, ricostruisce il clima in cui un’intera generazione ha vissuto l’utopia politica, non solo come progetto ideale, ma come realtà concreta, a portata di mano, con precisi confini geografici in cui entrare con un passaporto e da cui uscire, come in questo caso, con profonda amarezza. Proprio nella rappresentazione del disincanto del protagonista lo sguardo di Ferrone e Manzolini si fa più acuto, abbandonando ogni velleità di esibire un “documento storico” per restituire invece, sotto forma di immagini, l’interiorità di Sauro e dei suoi compagni di viaggio. La disillusione non diventa un motivo per ritrattare gli ideali con cui Sauro è cresciuto, ma un momento di passaggio e di maturazione, che lo porta con slancio a intraprendere un altro viaggio. A questo punto il film ha un preciso stacco: abbandonate la Russia e Alfonsine, Sauro parte per l’Algeria. La rottura di un sogno si trasforma in uno stimolo a continuare a viaggiare, come Sauro – ce lo conferma lui stesso in una delle rare riprese nel presente – ha fatto per tutta la vita.
Il film compie quindi uno dei salti più ambiziosi: dalla politica al cinema, dalla delusione per l’utopia estinta all’urgenza di filmare la realtà per conoscerla e comprenderla. Sauro diventa così testimone del proprio tempo e, come tale, spettatore attivo della grande storia. Non a caso il film si chiude con le sequenze del funerale di Togliatti; a restituire il senso di un’attesa ormai svanita, di un impegno politico che ormai ha mutato il suo asse. Proprio per queste ragioni il senso di profonda empatia che si avverte nella voce del protagonista si profila come il peso di un invito a guardare in faccia le proprie paure e le proprie illusioni.
Il treno va a Mosca
restituisce con forza allo spettatore l’idea che il cinema, anche nella forma residuale del filmato di famiglia, sia luogo di rivelazione di una verità, non necessariamente documentale, ma interiore, spazio di una vera e propria rivelazione. In questo senso la traiettoria di Sauro non è solo una parabola eccezionale nella militanza politica, dall’utopia al suo crollo, ma è il racconto di una crescita personale nel mezzo cinematografico, che nelle sue parole diventa un modo per aprire gli occhi sul mondo: per questo motivo il film è stato prodotto dalla Fondazione Culturale San Fedele nell’ambito di un concorso per giovani registi chiamato «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (cfr riquadro alla p. precedente). Ne Il treno va a Mosca lo sguardo sul cinema si trasforma da opera individuale riferibile a un unico regista a opera collettiva transgenerazionale: intorno alle immagini filmate da Sauro Ravaglia, Enzo Pasi e Luigi Pattuelli, si alternano le scelte di regia di Federico Ferrone e Michele Manzolini, e le precise decisioni artistiche della montatrice Sara Fgaier e del musicista Francesco Serra, a cui si deve l’effetto onirico di molte sequenze. Attraverso questa dimensione plurale, nel passaggio degli oltre cinquant’anni tra lo sviluppo delle prime bobine e il montaggio finale del film, lo scenario si apre in un orizzonte più vasto, che dall’ideale politico giunge ad abbracciare un senso della storia che non è solo di Sauro Ravaglia nell’Italia degli anni ’50, ma è proprio di ogni uomo, in ogni tempo.
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