Il terzo pilastro

La comunità dimenticata da Stato e mercati

Raghuram G. Rajan
Università Bocconi Editore, Milano 2019, pp. 532, € 29,50
Scheda di: 
Fascicolo: marzo 2020

Nei Paesi sviluppati, un segmento di lavoratori che tradizionalmente godevano di posizioni solide e sicure è oggi letteralmente preoccupato a morte. Tra il 2009 e il 2013, il numero di decessi di cittadini statunitensi è stato superiore di circa mezzo milione al consueto trend del tasso di mortalità. Questa anomalia si concentra soprattutto tra gli uomini bianchi e di mezza età, con un livello di istruzione medio. Stiamo parlando del classico Mr. Smith, impiegato di una filiale di banca in Atlanta, appassionato di pesca fluviale; oppure di Mr. Roberts, proprietario di una tipografia a Denver, il cui primo figlio ha appena iniziato l’università a Seattle. Per dare un’idea delle proporzioni del fenomeno è come se in quei quattro anni si fossero combattute contemporaneamente dieci guerre del Vietnam non in qualche zona remota del pianeta, ma negli Stati Uniti. E le cause principali di morte non sono pallottole o altri ordigni, bensì droghe, alcool e suicidi.

In un’epoca di apparente abbondanza, il gruppo sociale che incarnava la base del sogno americano pare aver perso ogni speranza di fronte all’andamento dell’economia. Tale fenomeno non si registra solo oltreoceano, ma in tutti i Paesi occidentali, anche se non con effetti così dirompenti. Generalmente si ritiene che la distruzione di posti di lavoro sia causata dalla concorrenza estera dovuta al commercio globale e dall’automazione introdotta nelle tradizionali occupazioni con l’utilizzo di macchinari sempre più avanzati. Minore attenzione si presta, invece, a un altro fattore, che in realtà costituisce la causa preminente: il progresso tecnologico in atto sta realizzando un cambio di paradigma sul modo di concepire la produzione di beni e servizi e la loro fruizione (si pensi, ad esempio, all’home banking).

In questo contesto, che vede crescere presso la popolazione l’ansia e la paura per l’avvenire, trovano terreno fertile le proposte politiche di stampo populistico, tanto di destra quanto di sinistra, che attaccano in modo miope e riduzionistico alcuni bersagli, come importazioni e immigrati. Queste vicende pongono un interrogativo di fondo: perché si registra una risposta politica inadeguata, di stampo identitario e populistico, di fronte ai cambiamenti impressi dallo sviluppo tecnologico? Con questo tema si è misurato l’economista indiano Raghuram Govind Rajan in questo poderoso volume, nel quale sostiene che la causa del crescente conflitto fra la dinamicità “centrifuga” generata dai mercati e le chiusure “centripete” che si registrano a livello politico va rintracciata nel tramonto della comunità.

Nella visione proposta da Rajan, le società occidentali si basano su tre pilastri: quello economico, quello statale-istituzionale e, infine, quello comunitario. Sui primi due non offre riflessioni particolarmente originali, poiché esaustivamente analizzati in passato; più spazio è invece dedicato al terzo pilastro, di cui cerca di dare una definizione. Le attività comunitarie implicano la prossimità, l’identità e una certa stabilità degli attori coinvolti, o almeno di una quota rilevante di essi. Questi provvedono ad autodeterminarsi e amministrarsi, valorizzando – in modo diretto e non filtrato da istituzioni centrali – gli input informativi e le istanze che scaturiscono dal corpo sociale. Secondo l’A., negli ultimi decenni gli equilibri tra questi tre pilastri non hanno funzionato al meglio. Da un lato, la “marea” dell’economia ha continuato inesorabile il suo moto, dall’altro gli Stati hanno eretto “dighe” (i muri!) sempre più alte per proteggersi, nel mezzo la “chiusa” della comunità – a causa di una serie di fattori economici e politici che hanno contribuito al suo sistematico indebolimento – non è riuscita a proporsi come un efficace strumento di armonizzazione sociale al passo con i tempi. L’economia e i mercati, per caratteristiche intrinseche, tendono a standardizzare e omologare la realtà (pensiamo ad esempio alla globalizzazione dei consumi) e generano vari gradi di insicurezza e precarietà (ad esempio nel mercato del lavoro). Queste tensioni – trovando il vuoto della dimensione comunitaria dal punto di vista identitario e relazionale – si propagano, amplificandosi fino a raggiungere la sfera politica. Tuttavia, non essendo quest’ultima una dimensione di prossimità, capace quindi di fornire una risposta specifica per le singole realtà, restituisce un riscontro generico e semplicistico, che intercetta istanze identitarie e di protezione ad ampio spettro, senza offrire una vera soluzione.

Come rivitalizzare la comunità al fine di renderla un adeguato filtro identitario-relazionale fra la liquida economia e l’ideologica politica? Secondo l’A. la via da percorrere consiste nel modello comunitario “localistico inclusivo”. La sua peculiarità risiede nella capacità di custodire e rilanciare, in modo sussidiario, istanze identitarie e relazionali di prossimità radicate nel locale, contemperandole con un gradiente di realistica apertura a nuovi membri (diversi per storia e tradizione) e sistematica flessibilità. Questo consentirebbe l’integrazione di agenti esterni alla comunità, dei quali le moderne società non possono fare a meno se vogliono essere capaci di futuro. È questo il caso, ad esempio, dei talenti globali indispensabili per le imprese più dinamiche e innovative oppure – in una prospettiva che tocca la vita di tante famiglie – l’esponenziale incremento del fabbisogno di personale di cura nelle nostre società demograficamente sempre più vecchie.

In quest’ottica, un paradigma di «nazionalismo civico inclusivo» (p. 377) appare come l’opzione più naturale da percorrersi. Si tratta di una forma di patriottismo costituzionale, in cui la fedeltà dei cittadini e dei nuovi membri si volge ai principi, alla giustizia e agli ideali racchiusi nella Costituzione. Secondo l’A., oltre all’adesione ai principi fondamentali, molte altre sono le modalità pratiche attraverso le quali un migrante può e deve innestarsi nella comunità locale, tra cui l’apprendimento della lingua locale o la conoscenza dei costumi più importanti, armonizzandoli con le proprie tradizioni d’origine. L’integrazione – non la sottomissione culturale – dovrebbe quindi essere l’orizzonte di tale operazione. Seguendo lo spirito sussidiario del localismo inclusivo, la definizione e l’attuazione di ogni azione volta al processo di integrazione dovrebbero essere lasciate in primis alle comunità locali. In questo modo si realizzerebbe spontaneamente l’adattamento di ogni intervento al contesto locale e alle specifiche esigenze identitarie espresse dalle differenti comunità. Solo questo tipo di configurazione comunitaria – questo ventre molle fra l’economico e il politico che ne sintetizza rispettivamente metodi (decentrati e pragmatici, basati su informazioni dirette) e istanze (pubbliche e identitarie) – sarà capace di armonizzare le tensioni generate dai mutamenti economici all’interno delle nostre società e al tempo stesso ci offrirà l’opportunità di beneficiare al meglio dei vantaggi creati dalle moderne dinamiche economiche. L’economia e la politica, lasciate sole, non riusciranno mai a sviluppare una sintesi condivisa e stabile, capace di ricomporre le differenti e confliggenti spinte da esse generate. 

È questa la tesi di fondo de Il terzo pilastro, un volume molto ricco e ben articolato, sebbene a volte appesantito dall’accumularsi di dettagli e considerazioni, ma in cui il lettore può facilmente organizzare propri percorsi di lettura. Per ognuno dei tre pilastri, il libro offre una esaustiva storia e analisi. Nella parte finale sono inseriti anche alcuni spunti che possono essere ispirativi per gli amministratori locali (capp. 10 e 11). Va sottolineato che la prospettiva di Rajan è molto legata al contesto statunitense e per questo alcune considerazioni, enfatizzate come innovatrici, possono suonare a volte naïf per il lettore europeo, già avvezzo a queste tematiche. L’idea del localismo inclusivo è infatti molto vicina alla tradizione mediterranea, dove la comunità si articola attorno alla Chiesa, all’associazionismo civile, al Terzo settore. Queste realtà, in uno spirito sussidiario, si sostituiscono allo Stato per offrire servizi a misura di persona, intercettando le esigenze relazionali delle differenti comunità. È il caso, ad esempio, dei circoli ACLI, che operano come costruttori di comunità intervenendo su temi legati all’economia e all’immigrazione.

L’elemento di maggiore interesse del volume è che a svolgere questo tipo di riflessione centrata sulla comunità non sia un economista qualsiasi: Raghuram Rajan insegna nell’ortodossa e liberale Università di Chicago, e in precedenza è stato capo economista del Fondo monetario internazionale e Governatore della Banca centrale indiana (ruolo che è stato costretto ad abbandonare per non essersi piegato a influenze politiche inopportune). Le sue affermazioni sul ruolo fondamentale della comunità all’interno delle nostre società occidentali sono un segnale estremamente incoraggiante rispetto alla maturazione della consapevolezza sociale degli economisti. 

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