Affronta una sfida impegnativa Salvatore Natoli nel suo ultimo lavoro, Il rischio di fidarsi. Non è difficile riconoscere che il tema della fiducia oggi è uno dei più insidiosi campi di battaglia ove un filosofo possa avventurarsi, popolato da intellettuali, opinion leader e gente comune che si misurano quotidianamente a colpi di frasi fatte e rabbiose reazioni da social fighters. Assistiamo a uno scontro implacabile tra logiche securitarie e sfiduciate – alziamo muri, chiudiamo frontiere, schediamo lo straniero – e speculari, utopiche aperture prive di realismo – abbracciamoci tutti, accogliamo il diverso, vogliamoci bene. La fiducia, come la libertà, è un bene scarso, saccheggiato da politici corrotti, squali del business, venditori d’ogni sorta esperti di tecniche di persuasione più o meno occulte. Il linguaggio degli affetti è stato prontamente fagocitato e asservito alle logiche del marketing.
Lo scrittore Carofiglio parlava, in un fortunato saggio, di «manomissione delle parole». Fiducia, come libertà, bellezza, verità, svuotate della loro carica umanizzante e del loro peso specifico, evaporano; banalizzate, riescono con difficoltà a centrare il reale cui mirano. È dunque difficile parlare di fiducia in tali condizioni. E dunque: fidarsi o non fidarsi? Perché accordare fiducia, quali ragioni spingono qualcuno a consegnarsi nelle mani di un altro? Uno dei pregi del testo è di tener costantemente presenti tali questioni essenziali, che costituiscono il fil rouge su cui si dipana lo sforzo riflessivo dell’A.
Nei primi tre capitoli l’attenzione si concentra sulla dimensione individuale della fiducia. Secondo l’A., fidarsi è anzitutto un fatto naturale, un dato antropologico costitutivo, strutturante il modo d’essere del soggetto umano, fin dal suo venire al mondo: «Ci fidiamo perché radicati in una certezza originaria. […] Vi è stato “un” qualcuno che ha avuto cura di noi senza che glielo chiedessimo» (p. 8). Si nasce nel legame, l’uomo è legame, condizione data prima ancora che scelta. Se l’adulto accorda fiducia attraverso dinamismi complessi, determinati da ricordi, esperienze, attitudini e calcoli, il bambino è predisposto a un atto incondizionato di fiducia, con cui s’introduce al mondo, di cui guadagna certezza. Non fidarsi è dunque una possibilità seconda.
Lungi da facili buonismi o slanci sentimentali, l’A. ribadisce come fidarsi costituisca sempre e comunque un rischio: non c’è assicurazione totale, certezza assoluta che possa mettere al sicuro da delusioni, tradimenti, disinganni. Fidarsi è meglio, ma non è una panacea universale, piuttosto la strada sulla quale ogni uomo è fin da subito posto. Interessante l’accento sul primato della sfera etica, più originaria di quella del vero, quando si tratta di fiducia: questa si genera in primis nel mondo degli affetti, e il bambino riconosce immediatamente ciò che lo fa star bene, chi compie nei suoi confronti atti di bontà, mentre si forma in seguito la nozione di vero e falso. La fiducia è allora un prendere per buono prima che per vero. Tale la genesi dell’autorità: autorevole è chi, avendomi rassicurato delle proprie buone intenzioni, è degno della fiducia che gli accordo.
In questo percorso il dubbio viene dopo la certezza… eppure, puntualmente arriva. Difficile, oggi, pensare a un riuscito rapporto tra verità, testimonianza e fiducia: adulto è considerato chi si mostra in grado di giungere da solo alla verità, senza ricorrere all’altrui mediazione. La fiducia da accordare ad altri sarebbe uno stato imperfetto, sebbene necessario, da superare in età adulta. Natoli affronta tale snodo mostrando come, dopo la crisi del dubbio, sussista ancora fiducia, sebbene non più ingenua, immediata; il dubbio non esclude la certezza, predispone piuttosto alla selezione, ovvero ad accordare fiducia mediatamente, in relazione a caratteristiche e condizioni che l’altro deve dar prova di possedere, affinché io possa con ragioni adeguate affidarmi a lui. La fiducia è così un rischio necessario.
Alla scuola di Benveniste, Natoli analizza l’etimo kred (da cui “credere”, fidarsi), evidenziando la genesi magico-sacrale del termine, connesso a valori come devozione, beneficio, legame personale. La nozione connota sia i rapporti con gli dèi sia quelli interumani; relazioni giocate – è inevitabile – su rapporti di forza; eppure, la logica di costi e benefici, do ut des e business dei sentimenti, non è l’unico scenario possibile. Pur evidenziando come tra persuasione e fiducia possano sempre celarsi seduzione e inganno, l’A. rileva altresì come l’atto di fiducia possa essere accordato in modo previo, a perdere, a chi non ha ancora dato prova d’affidabilità, dando credito, anticipando un bene possibile. È un investimento azzardato sulla possibilità d’innescare nell’altro un dinamismo nuovo: innaffiare un germoglio che non sappiamo in anticipo se, quando e come potrà sbocciare. Tale modalità della fiducia, un “ce la puoi fare” proferito in forma di speranza e promessa, non può nascere come improvvisazione occasionale: occorre una virtus stabile, una consistenza previa dell’agente.
Altro tema trattato è l’amicizia, di cui è evidenziata l’intima connessione con la fiducia: parlare dell’una è parlare dell’altra. Affinché si dia amicizia perfetta, è necessario escludere ogni dubbio o riserva sul fatto che l’amico vuole e sempre vorrà il mio bene, in vista di null’altro, se non il bene stesso. Senza virtù non c’è amicizia; dove albergano male e vizio c’è complicità, legame opportunistico tra estranei, lo stare accidentalmente insieme in vista dell’utile. Qui si spartisce un bottino, si divide ma non si condivide, un’alleanza senza virtù che spesso sfocia in pericolo sociale. Bisogna però anche correggere il tiro rispetto a un antico ma resistente luogo comune che connette vera amicizia e disinteresse. Per Natoli disinteresse evoca l’indifferenza, ma l’amico è in realtà interessato al bene dell’altro. Non diversa sarebbe la genesi dell’amicizia pubblica: anche qui è più che mai necessaria la virtù, senza la quale non può esserci giustizia, tutt’al più, legalità (si pensi alla dilagante ossessione per una legalità sempre più tendente a legalismo accusatorio di tutto e tutti).
Nel quarto e quinto capitolo l’A. riflette sul rilievo sociale e pubblico della fiducia. Nonostante tradimenti, promesse disattese, infedeltà, l’uomo continua a fidarsi: una necessità vincolante, fondata sulla sua non-autosufficienza. In ogni società è necessario attivare dispositivi che promuovano, supportino e tutelino la reciproca fiducia tra i suoi membri: è il ruolo del diritto, delle istituzioni, dello Stato. Correggendo Aristotele con Hobbes e viceversa, l’A. esprime una preferenza per le teorie che ritengono compatibili le dinamiche cooperative con quelle autoconservativo-individualiste. Speranza d’un bene possibile e paura di esser traditi, apertura e difesa, titubanza e disponibilità: nell’intrico di tali atteggiamenti procede l’A., sviluppando un’articolata riflessione circa l’aspettativa, considerata come stato affettivo e cognitivo relativo alla fiducia. È proprio perché l’incontro con l’altro avviene in condizioni d’incertezza che s’attiva la domanda: concedo fiducia o m’accosto con riserva? Che cosa succederà?
Natoli sottolinea l’importanza sociale della fiducia accordata dai cittadini alle istituzioni. Ognuno è a un tempo fruitore e responsabile dei servizi, e di tale duplice identità l’A. sottolinea la tendenza a concepirsi come soggetti lesi di diritti da reclamare, più che responsabili della cosa pubblica. Bisogna dunque vigilare e scegliere, ancora una volta, la via della fiducia. Così l’A. passa all’analisi di fisiologia e patologie della politica. Per quanto riguarda queste ultime, la corruzione si colloca un passo oltre inefficienza e incompetenza. In essa si rilevano i reciproci nessi onestà-disonestà; la viziosa circolarità che spesso s’attiva tra crimine organizzato, pubblica amministrazione, ceto politico. La corruzione, presente a ogni livello del sociale, concorre a esasperare i cittadini e a far precipitare la fiducia nei rappresentanti.
Interessante il breve affondo sui media e la sorte dell’informazione in un contesto dove più che la notizia conta l’effetto rumore, la viralità sul web di quanto fonti sempre meno attendibili v’immettono, spesso come un virus maligno, senza alcun senso di responsabilità o dignità deontologica. Ne scaturiscono sospetto e allarme, che tuttavia possono e devono spingere a una sana e critica vigilanza, praticando quella che viene definita «pazienza democratica» (p. 137).
Nel sesto capitolo è a tema il legame tra fede e fiducia, che si declina nella prospettiva della salvezza futura promessa dalle tradizioni religiose. Natoli insiste qui sull’etimo ebraico impiegato per designare la fede: ’emunah, rivelativo d’una fiducia incondizionata e totale circa la presenza e l’azione salvifica di Dio nella storia del suo popolo. Con il cristianesimo si radicalizza l’esperienza dell’evento salvifico, incarnato nella vicenda del Risorto: la filosofia lascia spazio all’esperienza del credente, che si gioca la vita puntando sulla parola di un Altro. L’A. propone una lettura del cristianesimo che privilegia – secondo quel primato del bene rispetto al vero già menzionato – l’esperienza concreta, vissuta, di chi modella la propria vita su Cristo e pone una domanda per questo tempo secolarizzato: che rilievo ha ancora presso i cristiani la promessa della salvezza futura, della risurrezione? Per l’A., la Chiesa sembra appiattita sul modello dell’“agenzia etica”, promotrice di una misericordia sempre più colorata di generico altruismo. Ai suoi occhi, la bilancia pende soprattutto dalla parte dei gesti di bontà, misericordia, carità vissuta.
Il testo non conclude con parole definitive su nessuna delle questioni sollevate; tuttavia non è poco, a nostro giudizio, l’aver avviato una riflessione su un tema oggi quanto mai vitale, e dalla cui profonda comprensione e concreta esperienza dipendono in buona parte le sorti di questo nostro mondo.
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