Il profumo del tempo

L’arte di indugiare sulle cose

Byung-Chul Han
Vita e Pensiero, Milano 2017, pp. 136, € 15,00
Scheda di: 
Fascicolo: ottobre 2018

Il fulcro della riflessione sviluppata dal filosofo coreano Byung-Chul Han, da tempo residente in Germania, nel suo Il profumo del tempo. L’arte di indugiare sulle cose consiste nell’individuare l’origine della “crisi temporale” che caratterizza la nostra cultura nel progressivo smarrimento di nessi e relazioni tra l’esperienza umana e le cose del mondo. L’accelerazione vorticosa di ritmi, eventi e informazioni che si susseguono e accavallano sempre più rapidamente, additata dai più come causa del generale disorientamento odierno, è invece valutata dall’A. come effetto secondario, conseguenza di un ben più profondo terremoto epocale.

Non ci manca il tempo, quanto la capacità di viverlo nella sua densità, consistenza, spessore. Il tempo scorre, sfugge, “non basta mai” solo quando non si è capaci di scorgere in ciò che accade un tessuto connettivo, un prima e un dopo articolati, organizzati e organicamente coesi. Non c’è pace per chi si affretta da un attimo all’altro, costantemente ricattato dall’imperativo dell’urgenza, nell’ansia di raggiungere una nuova meta che sembra sempre più appetibile, importante, vitale della precedente. È la logica del rimpiazzo, della sostituzione seriale, che dimentica la storia e uccide il tempo, nella misura in cui l’attimo si atomizza, immemore del prima e del dopo. Un tempo senza memoria e attesa è dunque un tempo morto e mortifero, come Cronos che divorava i suoi figli nel mito antico. L’uomo contemporaneo è per l’A. variamente ostacolato nella sua capacità di accogliere le dimensioni del passato e del futuro nella loro profondità e autenticità. Il passato è perlopiù valutato come vecchio, sterile, superato: soffermarsi sul già vissuto impedirebbe la proiezione verso nuove fantastiche e progressive realizzazioni del desiderio, ancorando il soggetto a ciò che non è più, limitando le sue possibilità d’essere. Eppure, a ben vedere, nell’epoca della glorificazione del progresso, dell’andare avanti e oltre a ogni costo, il risultato è il medesimo anche per quanto riguarda il rapporto con il futuro. Quest’ultimo, considerato unilateralmente come proiezione e anticipazione di mete già decise e programmate a tavolino, perde la sua carica di pericolosità e rischio (ogni imprevisto è già messo nel conto), ma in questo modo smarrisce anche la sua più grande ricchezza: il fascino dell’invisibile, dell’innumerabile e dell’incalcolabile, la benedizione dell’imprevisto-inaspettato, che dis-orienta per meglio orientare, ricollocare, liberare dagli angusti obiettivi nei quali costringiamo i nostri (a noi stessi sconosciuti) desideri.

L’A. denuncia in questo senso la riduzione dell’individuo della post-modernità, che da viaggiatore-pellegrino assume sempre più le fattezze grottesche di un frenetico e infine annoiato turista. A farne le spese è la ricchezza di senso che ci attende lungo il cammino, specie negli intervalli, nei tempi (apparentemente) morti, negli spazi intermedi tra “qui” e “là”, tra l’oggi e il domani: «Se ci si orienta esclusivamente sulla meta, l’intervallo spaziale che separa dal punto di arrivo è soltanto un impedimento che occorre superare il più rapidamente possibile […]. Se l’intervallo spazio-temporale viene percepito soltanto secondo la negatività della perdita e del ritardo, gli sforzi si concentreranno nel farlo scomparire completamente» (pp. 46-47).

L’“epoca dell’affanno” si caratterizza per la diffusa incapacità di “stare sul posto”, quando questo ha perduto la sua carica d’immediata attrattiva, complice la smania (sempre più compulsiva e non di rado patologica) di scoprire cosa ci attende più avanti. Questa “mentalità da zapping” è considerata dall’A. una vera e propria malattia dell’anima, il cui effetto è micidiale. Si tratta dell’incapacità di accorgersi del bello che ci circonda, di indugiare sul reale che c’è, ma che ha bisogno di uno sguardo che gli renda gloria, e che non si svela all’occhio distratto o affannato, che si proietta verso l’immagine successiva. Il “multitasking seriale dello sguardo”, l’ossessione per la prossima immagine permette di “vedere” tanto, senza però “guardare” mai nulla. E dunque, tutto passa e non lascia traccia. Il senso, il vero, il bello si scoprono lentamente: senza indugiare non è possibile lasciarsi prendere da ciò che si sottrae all’attività della ratio calcolante (è costante nel testo il riferimento a Martin Heidegger e alle sue riflessioni sulla tecnica planetaria): «La temporalità del bello è allora altra rispetto alla “sfilata cinematografica delle cose”. Per questo l’epoca dell’affanno, nella sua sequenza “cinematografica” di presenti puntuali, non ha accesso al bello o al vero. Solo nell’indugiare contemplativo, anzi in una moderazione ascetica, le cose svelano la loro bellezza, il profumo della loro essenza» (p. 57).

La crisi temporale per l’A. è, in primis, crisi del senso dell’essere. Senza un significato, una direzione, un orientamento verso qualcosa di più ampio, durevole e consistente del godimento immediato e già pianificato, del fabbricabile e del riproducibile, il tempo non “profuma” più, si riduce a un movimento meccanico, freddo e amorfo, di fronte al quale l’essere umano, che per sua natura rifugge l’insignificante e l’insensato come il peggiore tra i mali, non può far altro che sperimentare smarrimento, angoscia e solitudine. Questa crisi è anche una “crisi della trascendenza”, ma non nel senso (continuamente denunciato, trito e ritrito e in fondo banale) di una crisi della religione, dei “valori” astrattamente intesi; si tratta piuttosto di una difficoltà sempre più diffusa nel percepire e intendere, e dunque esperire, il nesso costitutivo che lega il mio essere qui e ora con la storia che mi precede, con le mie radici e le possibilità a venire. Una trascendenza, dunque, “terra terra”: incapacità di considerare ciò che supera, che trascende, appunto, il qui e adesso e che, proprio in forza di tale superamento, è in grado di abbracciare e ricomprendere il “qui” in un orizzonte meno angusto. L’“adesso” privo di radici e di rilancio verso un al di là dell’istante ha il fiato corto e vita breve. A ciò si collega una crisi della narrazione, che caratterizza il tempo della morte di Dio e della cosiddetta fine della storia (i riferimenti dell’A. sono per questo tema Baudrillard e Lyotard). Una crisi dunque d’identità, atrofia della capacità tipicamente umana di fare un passo indietro per soffermarsi, almeno un attimo, a osservare l’intero, che si distende lungo un arco ben più ampio del segmento puntiforme dell’hic et nunc.

È necessario tuttavia non ingannarsi intorno a un punto che l’A. non si stanca mai di rilevare: non è il tempo in se stesso a essere follemente accelerato, frammentato, privo di consistenza. Tali caratteristiche sono viceversa frutto della modalità distorta e parziale con cui ci rapportiamo alle cose, agli altri, al mondo nella sua complessità. È dunque necessario riorientare lo sguardo, cambiare prospettiva: siamo “poveri di tempo” perché “poveri di mondo”, non il contrario. È la qualità del nostro esistere che genera la qualità (buona o cattiva) del nostro vivere la temporalità nelle sue diverse dimensioni. Che il tempo profumi o che svanisca senza lasciare traccia è allora qualcosa di soggettivo, che interpella la libertà di ognuno. A questo riguardo l’A. cita un’opera di Hsieh Chin, che scrive versi pacificanti sul fumo che sale dal sigillo di profumo dell’orologio a incenso, anticamente utilizzato in Cina per scandire il passaggio del tempo. Il poeta descrive con serenità contemplativa un pomeriggio profumato che volge al termine: l’irrevocabilità del tempo che passa, con la scomparsa di ciò che è stato e non sarà più, non offre tuttavia spunto per rammaricarsi della perdita, e il sentimento generato non è angoscia ma gratitudine, tranquillità, senso di pienezza e densità, durata, radicamento. Qualcosa rimane, riposa, traccia un solco e significa al di là del suo stesso svanire.

Che cosa è dunque in grado di trattenere l’intrattenibile, di arrestare l’inarrestabile? Byung-Chul Han argomenta con la sicurezza di chi ha fatto, almeno un po’, esperienza di ciò che illustra: è la capacità di non lasciarsi attrarre dalle sirene della progressione a ogni costo. Bisogna “dimorare nell’attimo”, lasciando che il nostro spirito, attraverso il senso dell’olfatto (l’A. si sofferma sulla Recherche proustiana) si lasci pervadere dalla densità dell’adesso. Allora questa presenza del mondo, accolta ed esperita, scioglie i vincoli di una “cattiva temporalità” e sprigiona una fragranza carica di mistero; il mondo smette di fluttuare andando alla deriva, gli istanti si raccolgono, coagulandosi intorno a un centro di gravità, ed è di nuovo possibile abitare presso le cose: «Senza l’essere, l’uomo è privo di fermo e protezione. Soltanto un fermo contiene il tempo, creando solidità. Senza fermo il tempo viene infatti travolto, si rompe l’argine temporale ed esso continua incessantemente a precipitare» (p. 84).

Carpe diem, dunque, ma in un senso ben diverso da quello miope e delirante dell’accumulo indiscriminato di “momenti memorabili” di un banale edonismo: per afferrare davvero il tempo si deve essere disposti a lasciarsi afferrare da ciò che in esso si cela, per prendere il tempo è necessario lasciarsi prendere “nel tempo”. Ma questa presa sorprendente non può essere improvvisata. Senza quiete contemplativa, senza indugiare con coraggio sul “presente del presente” non è possibile accedere a un’esperienza così semplice eppure ormai così rara: una vita “realizzata” non perché “riuscita”. Una vita in pace sa che non c’è fretta. Bisogna non cedere alla pressione di una vita activa (l’A. critica, pur valorizzandole, le riflessioni di Hannah Arendt) che confonde l’attività con l’attivismo, il fare frenetico con l’agire sensato. È dunque necessario imboccare percorsi alternativi, secondari, indiretti e mediati, rifiutare, per quanto possibile, il diktat della progressione disgregante. Riguadagnare così la sana lentezza della vita contemplativa. E ricordare sempre, forti della saggezza e dello sguardo sereno di Byung-Chul Han, che «senza la quiete l’uomo non è in grado di vedere ciò che è acquietato» (p. 126).


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