Il principio costituzionale di fraternità
Itinerario di ricerca a partire dalla Costituzione italiana
Filippo Pizzolato
Città Nuova, Roma 2012 pp. 196, € 18
Fin dalle scuole medie, intere generazioni di alunni intenti a studiare quella Rivoluzione francese che, una volta per tutte, cambiava la faccia dello Stato e delle relazioni fra i suoi membri trasformandoli in cittadini, hanno incespicato nel terzo termine della triade rivoluzionaria: «Liberté, Egalité, Fraternité». Sarà che il principio di fraternità è quello che, apparentemente, sembra attagliarsi meno alle istanze individualistiche che paiono caratterizzare questa nostra epoca. Sta di fatto che dal 1789 in poi diverse “Carte”, anche internazionali – tra cui la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948 –, hanno messo l’accento sulla necessità che le aggregazioni sociali fossero caratterizzate da uno spirito di fratellanza. Su questa tensione riflette con cura Filippo Pizzolato, docente di Istituzioni di Diritto pubblico e Dottrina dello Stato, nel suo ultimo libro. Il testo, diviso in due parti, parte con un «itinerario di ricerca» circa le forme con cui il principio di fraternità può trovare spazio all’interno degli ordinamenti giuridici moderni: se questi sembrano dedicare alla salvaguardia della libertà individuale la parte migliore delle loro energie, occorre capire come lo spirito di fraternità possa diventare un fatto pubblico senza scadere nella coercizione, violando così la natura liberale dello Stato; la seconda parte analizza invece l’ordinamento giuridico del nostro Paese mostrando, a partire dal dettato costituzionale, come il concetto di fraternità sia il bacino referenziale da cui quell’apparato di norme trae gran parte del proprio fondamento. Principio apparentemente illiberale, si diceva: come può un ordinamento “istituire” la fraternità fra i cittadini senza risultare violento nei confronti del loro libero sentire? Gli affetti sono affare privato e la fraternità, col suo immediato richiamo al sentimento di carità, sembra non fare eccezione. Ed è senz’altro così, fintanto che il presupposto teorico delle formazioni sociali rimane quella concezione antropologica d’ispirazione hobbesiana, che vede nell’uomo l’homini lupus. Nemmeno Thomas Hobbes (1588-1679) avrebbe escluso a priori la possibilità che tra soggetti, seppur bestiali come li immaginava, potessero instaurarsi relazione fraterne, ma, appunto, la qualità giuridi</p><p>ca di queste relazioni sarebbe stata nulla: nessuno Stato avrebbe mai potuto imporre a un suo membro l’obbligo al rapporto fraterno, nessuna sanzione avrebbe mai potuto colpire l’atteggiamento individualistico; unico compito del Gran Leviatano – il simbolo dello Stato raffigurato come composto da una pluralità di individui, con in mano la spada e il pastorale – è vigilare per impedire lo sconfinamento delle azioni individualistiche nelle “corsie” altrui. In quest’ottica, il principio di fraternità finisce con l’assumere un rilievo squisitamente morale, privato di qualunque accento etico, se con quest’ultimo termine si vuole indicare la radice e lo sfondo comunitari e condivisi dei comportamenti umani. Insomma, finché «la definizione di diritto viene fatta coincidere con quella di obbligo sanzionabile, al riconoscimento giuridico della fraternità si oppongono obiezioni difficilmente superabili» (p. 27). Emergono in maniera chiara una concezione del diritto che vede nello Stato un semplice aggregatore di individui e un concetto di uomo quale essere originariamente e autonomamente dotato di libertà, solo e ostile verso i suoi simili, rispetto al quale la vita in società si configura come un sacrificio necessario alla sopravvivenza, piuttosto che come la condizione imprescindibile per la piena realizzazione della libertà stessa. Finché lo sfondo antropologico rimane questo, lo Stato è «un patto stipulato tra “caini”, [che] non può tendere ad obiettivo migliore che quello di dividere gli individui, e perfino i fratelli, l’uno dall’altro» (p. 30) e la fraternità è confinata nello spazio angusto delle relazioni familiari. Ma è davvero questa l’idea di uomo sottesa alla nostra Carta costituzionale e a quelle dei cosiddetti “Paesi civili”? A seguire l’argomentazione di Pizzolato, parrebbe proprio di no. Non tanto perché non si riconosca la libertà dei singoli come un connotato imprescindibile dell’umano, ma piuttosto perché i singoli ordinamenti giuridici hanno il dovere di misurarsi con la dimensione fattuale di questa libertà e non con il suo semplice proclama teorico. Si scopre così che il principio personalistico, tra le anime della nostra Costituzione, «riconosce che nell’umanità riposa, come elemento strutturale, il bisogno di relazione e di cura» (p. 38), che l’intrinseca fragilità dell’individuo rende la sua tanto reclamata libertà un concetto vuoto, una libertà che non è libera di fare nulla fuori da quella formazione sociale che dell’individuo è origine e culla. A essere messo in crisi dall’impianto personalistico, quindi, è l’intero edificio sociale hobbesiano: riconoscere il primato della persona rispetto all’individuo significa identificare nella relazione un evento spontaneo, che preesiste rispetto alla legge e che non necessita di istituzionalizzarsi per istituirsi. «Il corpo sociale – scrive l’A. citando Zagrebelsky – “non è materia inerte senza aspettative, puro kaos, che riceve senza fiatare dal diritto il suo ordine”» (p. 50), ma realtà che spontaneamente crea una trama di relazioni, rispetto alle quali lo Stato si pone in rapporto “osmotico” e non creativo: il legame sociale non aspetta la legge, ma la legge è buona se sostiene, promuove e indirizza quel legame che la precede. Per questo «il compito del livello propriamente politico, anziché di pretendere un monopolio della sfera pubblica, diventa quello di integrare, coordinare e sostenere l’azione dei cittadini» (p. 59). Ecco, quindi, il cuneo che permette al principio di fraternità di trovare posto nel dominio giuridico. Se la libertà e la dignità individuali giungono a riconoscere il proprio debito nei confronti della formazione sociale, che sola può promuoverne il reale sviluppo, allora la solidarietà orizzontale, il rapporto di mutuo soccorso tra pari, smette di essere un fatto privato per diventare una forma di intervento pubblico. Il principio di sussidiarietà, benché da noi sia sta</p><p>to l’esito della crisi dello Stato-provvidenza travolto dalla domanda di cura, esprime in modo esemplare come il “dono” insito nel farsi carico della sofferenza del proprio pari sia a tutti gli effetti un dovere, «la proiezione necessaria di una libertà che si riconosca debitrice nei confronti del legame sociale» (p. 54). Nessuna libertà senza società, e nessun diritto senza dovere, perché «se una società strutturata secondo linee autoritarie ha assunto il linguaggio dei diritti come strumento di riconoscimento e protezione della parte debole (l’individuo), oggi, per tutelare la stessa parte, una società libertaria ha bisogno di riportare al centro il dovere, inteso come riconoscimento dell’altro da sé» (p. 42). Così, per garantire efficacia all’azione solidale, lo Stato non deve sopperirvi elargendo servizi, ma richiamando l’individuo al riconoscimento del suo debito nei confronti del tessuto sociale, fino a sanzionarlo qualora rifiuti di farsene carico. In questa prospettiva «lo Stato smette i panni di “padre” [che legifera e sanziona], per divenire piuttosto l’organizzazione (lo strumento) della fraternità fra i cittadini» (p. 123); il suo intervento “verticale” si integra con quello “orizzontale”, in cui lo scambio di cure e servizi tra cittadini fa a meno della mediazione dello Stato. Quest’ultimo regola quindi il proprio intervento nell’ottica della “finalizzazione” complessiva delle formazioni sociali protagoniste di quello scambio, concedendo loro il rivestimento giuridico necessario a correggere la perenne revocabilità delle condotte spontanee, per disciplinare e rendere affidabile quella rete solidale di cui lo Stato si serve per erogare i propri servizi. Un intervento che si limiterà a lambire queste relazioni, nell’intento di «conferire un carattere di doverosità alla solidarietà ivi scambiata, senza però la pretesa di penetrare troppo in profondità nelle relative e talora intime sfere di autonomia» (p. 71), dal momento che l’ordinamento non può fare a meno di questi luoghi ed è quindi suo interesse tutelarne la libertà e garantire loro le condizioni materiali per l’espletamento dei rispettivi compiti, fintanto che questi sono consapevolmente ed efficacemente assunti (come nel caso della famiglia, in seno alla quale lo Stato è chiamato a intervenire qualora venga meno la cura della prole). Resta tuttavia da capire se l’intervento dello Stato in processi di cui vede la spontaneità e in cui riconosce la propria condizione di esistenza abbia un valore risolutivo o piuttosto “pedagogico”: lo spirito solidaristico di queste formazioni sociali, infatti, è un evento che, proprio perché spontaneo, sfugge a ogni possibilità di essere programmato, e difficilmente si può pensare che basti una legge ben fatta e un intervento istituzionale attento per sradicare la tentazione individualista. Più che nelle leggi, l’alleato dell’azione legislativa va forse cercato nel tempo e nella lenta opera di educazione civile. Certo è che, in questa prospettiva, la fraternità come principio guida delle relazioni fra cittadini diventa un principio etico vincolante per tutti. Un cambiamento che è un progetto piuttosto che una realtà: la tensione fraterna infatti non percepisce il confine nazionale se non come stadio di un processo che ha di mira vincoli più larghi, che abbracciano l’umanità intera e non si accontentano di quelle forme intermedie – e per certi versi pericolose – in cui il “fratello” si definisce solo per opposizione al “non fratello”. Così, se lo spirito di fraternità traccia le linee dell’azione dello Stato, quest’ultima diventa indispensabile per moderare “l’esuberanza” dei rapporti fraterni e garantire che la libertà e la dignità che ne sono il frutto non siano per pochi a scapito di molti. «La legge si innesta pertanto sull’azione sociale per accompagnare funzioni a questa precluse e per garantire un ordine che dia risorse effettive di libertà ed eguali possibilità di svolgimento della personalità» (p. 59).
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