Il prigioniero coreano

Kim Ki-duk
Tucker Films, Corea del Sud 2016, drammatico, 114 minuti
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La penisola coreana – da tempo divisa tra due Paesi retti da sistemi profondamente diversi – è da alcuni mesi tornata al centro dell’attenzione internazionale e siamo costantemente informati su come evolve la situazione. Conosciamo meno, invece, la vita quotidiana di quanti abitano questo piccolo angolo dell’Asia. Una finestra su questo mondo è stata aperta dal regista sudcoreano Kim Ki-duk con il film Il prigioniero coreano, presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nel 2016, ma uscito nelle sale italiane solo quest’anno.

Non si tratta di un film politico, ma di un’ulteriore occasione per «indagare l’umano, in tutte le sue forme», tema centrale per il regista sudcoreano, come ha dichiarato in occasione della pubblicazione monografica per Castoro Cinema del 2006. La macchina da presa del regista entra, silenziosamente, nel cuore di un uomo, che cerca con tutte le sue forze di abitare il luogo che gli è dato, senza essere causa di conflitti. I primi minuti della pellicola propongono la semplicità della vita di Nam Chul-woo, un pescatore senza troppe pretese che vive in Corea del Nord a ridosso del confine: il vecchio orsacchiotto della figlia di sette anni da cucire per l’ennesima volta, il risveglio della moglie e i gesti abituali della colazione e delle coccole sensuali prima di uscire per il lavoro.

Poi, la scena cambia e l’immagine si concentra sulla quiete dell’acqua del fiume. Passato il solito posto di blocco militare, sale sulla sua piccola barca, ma la rete si imbriglia nell’elica del motore e la barca si spinge lentamente oltre le boe che segnano il confine tra le acque delle due Coree. Oltre il canneto in cui si incastra la piccola imbarcazione, i militari sudcoreani catturano il pescatore e lo conducono alla sede della polizia di Stato perché sospettano che sia una spia. Fino a quando la strada costeggia il muro di filo spinato tra i due Paesi, gli occhi di Nam Chul-woo sono aperti, ma quando arriva a Seul, il pescatore li chiude perché, come dirà in seguito, «l’uomo, ciò che ha visto lo ricorda sempre e lo racconta se lo obbligano».

Quanto accade dopo sembra seguire la prassi di un interrogatorio serrato con l’obiettivo di estorcere una confessione, pur di condannare il Paese avversario come “mandatario” di una spia. Nel girare queste scene, Kim Ki-duk dà rilievo alla rete tessuta dalla tortura psicologica più che da quella fisica. Il regista resta lontano dalla violenza cruda e cruenta presente in altri suoi film come Address Unknown (2001), The Coast Guard (2002) o One on One (2014), in cui gli eccessi nella rappresentazione non fanno altro che mostrare l’alienazione dell’uomo. Nel film, invece, si abbassano le tapparelle sulle scene in cui si scatena la violenza prima del poliziotto nei confronti del pescatore e poi quella reattiva di quest’ultimo, perché non è con la violenza nata dal desiderio di vendetta che Kim Ki-duk vuole colpire lo sguardo dello spettatore, come aveva fatto in Pietà (2012). Piuttosto, alcune scene de Il prigioniero coreano richiamano Ferro 3-La casa vuota (2003): è così nel momento in cui Nam Chul-woo prende la misura del suo essere prigioniero denudandosi e accovacciandosi come un neonato nella cella, sottraendosi alle strategie umane; o quando il suo silenzio è più orante di ogni altra parola che è costretto a pronunciare, al pari del silenzio di Tae-suk, protagonista muto di Ferro 3-La casa vuota. In questo orizzonte un barlume di speranza ci è consegnato dalla figura del giovane Jin-woo che ha il compito non solo di sorvegliare, ma anche di proteggere il prigioniero dai modi brutali del poliziotto dell’interrogatorio. Sarà proprio Jin-woo a dare e a conquistare la fiducia del pescatore quando questi non ripeterà altro che il suo desiderio è solo quello di tornare a casa, dalla sua famiglia, senza lasciarsi corrompere dai molteplici regali che riceve: dall’abbigliamento alle ultime tecnologie d’avanguardia.

La narrazione della dura vicenda di Nam Chul-woo permette al regista di misurare la condizione umana su tre categorie: amore, appartenenza e libertà. L’amore fedele verso la famiglia sostiene il desiderio del protagonista di ritornare a casa e lo ispira in diversi frangenti, come quando salva dalle grinfie di malfattori una giovane prostituta nei meandri di una Seul notturna e le consiglia di tornare a casa. O quando, costretto ad aprire gli occhi e catturato dal luccichio della ricchezza capitalistica, posa lo sguardo su un orsacchiotto che gattona e canta, e pensa a sua figlia. La mente e il cuore di Nam Chul-woo non sono usciti da casa, sono ancora nel tepore della coperta che nasconde il corpo di sua moglie, nello sguardo della figlia che gli chiede di aggiustare il vecchio orsacchiotto. E non lo nega, mai, neppure di fronte alle minacce o alle provocazioni: «che cosa direbbe mia moglie?».

Ma il giovane pescatore resta fedele anche al Paese nel quale è nato e cresciuto, dove lavora, riuscendo dopo dieci anni a farsi una barca per sfamare la sua famiglia. È fedele anche a quel regime che, se pure dittatoriale, gli permette di cantare a squarcia gola l’inno nazionale. In questo modo esprime l’appartenenza a un popolo, senza voler per questo giudicare gli altri.

La libertà, infine, è ciò che sta più a cuore al pescatore, ma anche al regista. Non si è liberi quando l’idolo del potere economico uccide l’anima dell’uomo. «In un Paese libero come il tuo, qual è la cosa più difficile?», chiede Nam Chul-woo alla prostituta che incontra e gli occhi della ragazza esprimono lo stesso sentimento che pervade tutto il mondo femminile di Kim Ki-duk, quell’han che dice la malinconia, la tristezza. Non si è liberi quando il business uccide l’economia e la merce di scambio diventa la pelle di un uomo come in Pietà, dove l’usuraio mutila le sue vittime, o l’intimità della donna come in The Isle, dove la protagonista conosce solo l’abuso dei suoi aguzzini. Libertà è anche l’ultima arma che i torturatori di Nam Chul-woo usano per corromperlo e convincerlo a restare come spia residente, perché «per volere la libertà, bisogna conoscerla»: il guadagno sarà una nuova casa, un’indennità e un lavoro.

Solo Jin-woo, il giovane ragazzo che lo protegge, ha capito che «Lui sceglierà sempre di tornare a casa». Lo stesso pensa la moglie che nella dichiarazione televisiva finale afferma: «Non è uomo da preferire un Paese capitalista così amaro e malato al suo Paese e alla sua famiglia: lui non ci tradirà mai». Ed è così. Nam Chul-woo non tradisce il suo Paese e neppure la famiglia. Sarà rilasciato per insufficienza di prove a suo carico e rimandato a casa. Ma proprio a casa, tra i suoi connazionali, egli fa ancora esperienza della corruzione dell’umanità dovuta al potere del denaro. Accade quando il poliziotto del Servizio di sicurezza nordcoreano gli sottrae i soldi ricevuti in regalo da Jin-woo o quando è accusato di essersi vantato per aver mangiato il cibo del Sud o averne visto la ricchezza. Ma ciò che Nam Chul-woo dice al poliziotto sudcoreano vale anche per quello nordcoreano: «È a causa di gente come te che la riunificazione non si fa. Smetti di credere che ti sia tutto permesso dall’alto dei tuoi piccoli poteri!». Questa miseria umana nella quale è imbrigliato l’uomo è al centro delle riflessioni di Chul-woo. Il suo sguardo è smarrito di fronte a quanto successo: né al Sud né al Nord sono capaci di rendere giustizia all’essere umano per quello che è, fidandosi di lui, parlando con lui e ascoltandolo. Pure la moglie sembra avere il dubbio che egli possa essersi lasciato ingannare dai costumi facili delle donne del Sud e lo mette alla prova riproponendogli un atto sessuale.

Ostinato, determinato e deluso vuole tornare al suo lavoro, la pesca. Alla minaccia dei militari di sparare, il pescatore grida le sue ultime parole: «Dovete smettere tutti di giocare con la mia vita!». Quando era ancora prigioniero nella Corea del Sud, aveva confessato il suo pensiero alla guardia Jin-woo: «Io penso di aver preso troppi pesci con la mia rete e ora mi sento catturato io in quella rete. Una volta che il pesce è nella rete, è finita». Così, i militari suoi compatrioti, all’ordine di sparargli, non esitano e Nam Chul-woo muore assassinato a casa sua, nella Corea del Nord, mentre la figlioletta Sui ha acceso l’orsacchiotto portatogli dal padre dalla Corea del Sud che gattona e canta. Sorpresa ma non soddisfatta, corre a prendere quello vecchio e ricucito più volte. Rannicchiata contro la parete, lo stringe al petto e guardando in macchina sorride. Felice così.

Se non fossimo in terra d’Oriente, potremmo elencare le assonanze dirette con la figura di Cristo: i suoi connazionali che non l’hanno riconosciuto, il calvario trasportato negli interrogatori, la spogliazione finale e, infine, la morte, come sacrificio, per mano di quelli che hanno temuto la sua parola e non si sono fidati. Di sicuro c’è nella filmografia di Kim Ki-duk una dimensione spirituale e una continua ricerca di quell’unicum che è costituito dall’umano, ossia colui che cammina per diventare uomo, dando il nome proprio a tutte le cose che vive, prima fra tutte la relazione con il suo prossimo, maturando nella capacità di scegliere il bene.


Kim Ki-duk

Nato nel 1960 in Corea del Sud, Kim Ki-duk è uno dei maggiori esponenti del nuovo cinema orientale. Proveniente da una famiglia modesta, a 15 anni lascia la scuola per andare a lavorare in una fabbrica e dopo si arruola in un corpo militare speciale il cui motto era: «Sii leale verso il Paese, accresci il prestigio nazionale». Dopo questa esperienza, inizia a viaggiare, fermandosi a lungo in Francia. Il bisogno e l’urgenza di rappresentare su tela o su carta fotografica il mondo vissuto lo portano prima a scrivere per il cinema, vincendo alcuni premi in Corea tra il 1993 e il 1995, fino a girare il suo primo lungometraggio nel 1996 Crocodrile, premiato al Busan International Film Festival. Tra i suoi film ricordiamo Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera, Ferro 3 – La casa vuota, Pietà.

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