L’individualismo che oscilla tra l’indifferenza e le passioni esacerbate rende sempre più faticosa la vita sociale e politica. Solo la consapevolezza e l’assunzione della propria fragilità può restituire uno sguardo carico di tenerezza e ridare ossigeno alle relazioni, da quelle più intime a quelle sociali.
Di seguito la prima parte dell'articolo di Isabella Guanzini, docente di Teologia fondamentale nella Katholische Privatuniversitat di Linz (Austria). Qui puoi leggere l'articolo integrale.
Il corpo delle metropoli occidentali è una cassa di risonanza privilegiata per osservare non soltanto gli spazi articolati dai flussi economico-finanziari e dai nessi produttivi, ma soprattutto per percepire gli ambienti e le tonalità emotive che segnano i linguaggi, le voci, i gesti, le irruzioni conflittuali e i punti di attrito nella nostra epoca. È soprattutto dall’ultimo secolo che la città è divenuta lo spazio fondamentale del vivere insieme, il luogo magnetico di attrazione e repulsione delle relazioni, delle tensioni e delle contraddizioni degli esseri umani. Il territorio urbano è infatti come una mappa da decifrare, un testo che si è sedimentato nei secoli costituendosi come luogo di relazioni e di scambi, di possibilità, di resistenza e di sogno. Dalle infinite traiettorie dei variegati incontri fra gli umani si genera l’anima complessiva di una città e il suo umore di fondo.
Nella città avvengono soprattutto incontri e scontri fra i corpi: cosciente o incosciente, ciascun corpo lascia le proprie impronte su quello di un altro, anche quando lo ignora, passandogli semplicemente accanto. Nella città, a differenza del villaggio, si fanno e si disfano costellazioni emotive a geometria variabile, esposte a una continua trasformazione atmosferica. La perturbazione è molecolare, ma incide sui flussi di aggregazione e di disgregazione dell’intero organismo. Ciascuno ha il potere segreto di aumentare o diminuire la potenza dei legami entro lo spazio umano in cui vive: ogni azione contribuisce alla buona o cattiva circolazione affettiva entro un determinato contesto di vita. Ma ne misura anche più rapidamente la fragilità, la limitatezza, la marginalità rispetto a un intero sempre più grande e ingovernabile. La continua dislocazione attraverso le molte appartenenze in cui è condivisa e divisa la vita della città ci dà infatti la sensazione che non cessiamo mai di fare e disfare legami.
Per questo la città è insieme il teatro delle più grandi ambizioni e del più malinconico degrado; delle passioni rivoluzionarie, ma anche delle più insopportabili ingiustizie sociali. Si legge nell’esortazione apostolica di papa Francesco
Evangelii gaudium: «La città produce una sorta di permanente ambivalenza, perché, mentre offre ai suoi cittadini infinite possibilità, appaiono anche numerose difficoltà per il pieno sviluppo della vita di molti. Questa contraddizione provoca sofferenze laceranti. In molte parti del mondo, le città sono scenari di proteste di massa dove migliaia di abitanti reclamano libertà, partecipazione, giustizia e varie rivendicazioni che, se non vengono adeguatamente interpretate, non si potranno mettere a tacere con la forza» (n. 74).
La bellezza dei nuovi intrecci ha i tratti struggenti delle esperienze più intense: basta un dettaglio per stravolgerne il senso. Si estendono a dismisura le dinamiche creative e gli scambi fra culture, ma si allarga contemporaneamente anche l’eventualità dell’anonimato, del risentimento e dell’ingiustizia, che anestetizzano o devastano le reciproche capacità di attrazione.
Nella storia recente e nella crisi del presente, le arterie della circolazione cittadina sembrano avere subito un processo di irrigidimento, come se nei suoi gangli sensibili si fossero depositati sedimenti e incrostazioni difficilmente asportabili. Il disegno globale si fa sempre più fitto e i singoli faticano a comporre e a riconoscere la propria forma. Negli ultimi decenni, la città ha senza dubbio favorito la logica dei flussi, in nome di una accelerazione costante degli scambi e dei consumi. Nello stesso tempo, sembra vivere una sorta di arresto degli incontri e degli scambi simbolici, un progressivo disseccamento dei luoghi comuni dell’abitare.
Lo sguardo della Medusa
In una pagina delle sue bellissime Lezioni americane scrive Italo Calvino: «In certi momenti mi sembrava che il mondo stesse diventando tutto di pietra: una lenta pietrificazione più o meno avanzata a seconda delle persone e dei luoghi, ma che non risparmiava nessun aspetto della vita. Era come se nessuno potesse sfuggire allo sguardo inesorabile della Medusa». Questa immagine di una graduale pietrificazione del mondo e delle persone riporta alla durezza di molte situazioni nel nostro presente. Benché viviamo nella più flessibile delle società mai esistite, non possiamo non avere qualche volta la sensazione che la vita intorno a noi si stia progressivamente indurendo.
Da un lato, c’è il dilagare delle “passioni fredde”, post-politiche, asettiche e imprenditoriali, la cui carica fissa è contraddistinta da uno spiccato (e spesso cinico) spirito di prestazione e da una sostanziale indifferenza nei confronti delle sorti del mondo. È un miscuglio di apatia e risolutezza, un atteggiamento cool che opera come dispositivo di raffreddamento di ogni passione per il comune e di ogni forte attaccamento. Il sociologo Georg Simmel vedeva nella figura dell’homme blasé l’incarnazione dello spirito della metropoli: è l’uomo distaccato, da sé e dagli altri, la cui economia psichica interiorizza, assimila e rispecchia i meccanismi del mercato. Istintivamente, cerca zone franche di disaffezione e disinteresse, in relazione a una logica di pura sopravvivenza e autoprotezione del proprio paesaggio nervoso. Ci troviamo infatti in uno stato paradossale: l’ipersollecitazione e il sovraccarico emotivo della vita sensibile urbana hanno come effetto sistematico l’ottundimento dell’intensità degli affetti e l’indebolimento della forza dei legami.
Dall’altro, troviamo il gioco ambivalente delle “passioni calde” – della rabbia, della rivolta e dell’indignazione – generatrici di identificazioni reali, ma sempre pronte a rovesciarsi in una salmodia della paura o nella deriva populistica dell’antipolitica: cioè nel rifiuto del futuro e nella fuga dal rischio e dalla libertà d’azione. C’è chi ha addirittura parlato di un’età del rancore, attraversata da onde di aggressività e di risentimento difficilmente contenibili, che si espandono improvvisamente per un nonnulla, contaminando l’aria a chilometri di distanza. In realtà sono movimenti emotivo-compulsivi difficili da localizzare, perché il loro terreno di coltura più efficace è la rete digitale, che amplifica e moltiplica impulsi primordiali, non mediati, senza volti, nel circuito onnipervasivo dei social. Nello stesso tempo, la crisi sempre più profonda della rappresentanza è stata sostituita da strategie pervasive di gestione delle passioni, capaci di una presa diretta sui sentimenti attraverso politiche incentrate sulla retorica della paura, sulla priorità della sicurezza e sulla difesa del proprio a ogni costo.
Nel nostro tempo di crisi democratica le passioni sembrano in tal senso decostruire il comune, invece di essere occasioni di una sua rigenerazione; indeboliscono i legami, accumulando risentimento e promuovendo una tendenza alla semplificazione, invece di essere lo spazio immaginativo di nuove forme di comunità e di soggettivazione. Si osserva un accaloramento crescente in difesa dell’identità e del territorio e un corrispondente indurimento nei confronti di ciò che non è proprio, ossia di ciò che è dissimile, imprevedibile, inassimilabile a una visione semplificata del mondo.
Si tratta di intervenire nel circuito ambivalente delle passioni, che oggi genera sempre più durezza e un’infinita stanchezza: occorre cioè liberare tutta la potenza positiva delle passioni, per trasformarle in affetti, aprendo un campo di relazioni capace di mobilitare legami vitali, nell’ordine della sociabilità e della circolazione. Si tratta di ridestare, in una generazione fortemente tentata dalla rassegnazione e dall’anestesia, una nuova e potente affezione per la ricostruzione delle comunità degli umani. La partita chiede di disseminare nelle città reti sociali di senso più profonde e durevoli di quelle dei social.
In un tempo in cui lo sguardo inesorabile della Medusa sembra pietrificare lentamente la vita delle cose e delle persone, si invoca qualcosa o qualcuno capace di interrompere questo processo di indurimento, invertendo per così dire il corso del tempo. Abbiamo bisogno di qualcuno o qualcosa capace di tagliare la testa della Medusa, prima che tutto si faccia di pietra. È una questione politica, che invoca forme e forze della sensibilità e della ragione capaci di plasmare gli infiniti modi soggettivi e collettivi di incontro del mondo, nel nostro presente della disillusione.