Il pane di ieri
Enzo Bianchi
Einaudi, Torino 2008, pp. 114, € 16,50
Il fondatore e priore della Comunità
monastica di Bose (bi) ci consegna un libro
in cui parla di sé, dei suoi ricordi, del
suo passato. Racconti molto concreti, che
tracciano il profilo dei suoi primi anni di
vita nel dopoguerra, trascorsi nell’ambiente
rurale del Monferrato, permettono di assaporare
«il gusto e il sapore di una sapienza
contadina che sapeva essere creativa e generosa
per fare anche della propria ristrettezza
un’occasione di festosa condivisione,
perché da sempre i poveri sono quelli che
sanno donare con gioia» (p. 64). La raccolta
dell’uva, il Natale, la religiosità, i maestri
di allora, la vecchiaia, l’importanza di non
morire da soli sono alcuni dei passaggi salienti
del libro, impreziosito da aneddoti
curiosi e comandamenti dettati dalla saggezza
popolare.
Una sofferta solitudine, non troppo velata,
attraversa tutti i racconti. «Se non c’era
la fame, per molti c’era però ancora miseria
e per tutti la vita era dura: dura per il lavoro
della vigna, dura per l’isolamento in cui si
viveva nelle cascine, dura per l’asprezza di
una cultura intransigente in fatto di morale
e austera nelle sue manifestazioni» (p. 7).
La passione per l’orto, che per l’A. è stata
palestra di vita («mi aiutava a capire perché
occorre seminare in se stessi, coltivare se
stessi, far crescere se stessi e attendere i
frutti», p. 96), richiama la nostalgia per la
cura del cibo: «Noi uomini abbiamo fame,
siamo esseri di desiderio e il pane esprime
la possibilità di trovare vita e felicità: da
bambini mendichiamo il pane, divenuti
adulti ce lo guadagniamo con il lavoro quotidiano,
vivendo con gli altri siamo chiamati
a condividerlo» (p. 44).
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