Il mondo di mezzo

Mafie e antimafie

Antonio La Spina
Il Mulino, Bologna 2016, pp. 207, € 15
Scheda di: 
Presente nelle antiche saghe mitologiche vichinghe e nei romanzi di Tolkien, l’immagine del “mondo di mezzo” è apparsa di recente in un contesto incongruo e in un genere letterario ben diverso: gli atti giudiziari dell’indagine su Mafia capitale. È stata usata da uno degli indagati per descrivere lo spazio sociale in cui interagiscono (e fanno affari) coloro che abitano il “sottomondo” dei morti civili, dei criminali abituali, e quanti vivono nel “sovramondo”, ovvero le cosiddette “persone importanti”. Riprendendo il concetto di mondo di mezzo dagli atti giudiziari, il sociologo Antonio La Spina ne sottolinea la valenza generale e si avvale della sua forte carica evocativa, ma anche esplicativa, per rendere immediatamente evidente al lettore sia il sodalizio fra metodo mafioso e metodo corruttivo sia la cultura che ne è alla base. Nel mondo di mezzo, infatti, tutti sono uguali perché mossi dagli stessi valori e dalle stesse categorie interpretative; perché, al di là della classe sociale e del reddito, sono accomunati dal linguaggio e da un medesimo modo di intendere la politica e la cosa pubblica.

Il volume Il mondo di mezzo. Mafie e antimafie si colloca all’interno di un ampio percorso di analisi intrapreso da tempo dall’A. sul fenomeno mafioso, di cui ha messo in evidenza caratteristiche, modalità operative, ricadute economiche e sociali, punti di forza e di debolezza. Proprio da questi ultimi egli è spesso partito per individuare possibili strategie di contrasto. Questo libro sottolinea ulteriormente l’intreccio fra metodo mafioso e metodo corruttivo, in cui si sostanzia il sodalizio fra organizzazioni criminali e colletti bianchi, sottomondo e sovramondo.

Nel corso degli otto capitoli che compongono il volume, l’A. tocca diversi aspetti relativi alle organizzazioni mafiose e alla politica antimafia nel nostro Paese. In prima battuta si sofferma sui tratti distintivi di un’organizzazione di stampo mafioso basandosi sugli apporti degli studi sociologici. Di che tipo di organizzazione si tratta? La risposta è che le mafie sono organizzazioni professionali, in cui l’elemento cruciale sono i professionisti, formati attraverso un curriculum criminale, non facili da rimpiazzare con altri professionisti della stessa levatura. L’esame prosegue con la considerazione delle mafie operanti in territori diversi da quelli di tradizionale radicamento, con uno spazio più esteso dedicato al caso del Lazio e di Mafia capitale. L’A. propone una tipologia di tali organizzazioni basata «sia su alcune loro caratteristiche strutturali, sia sui loro rapporti (presenti o assenti) con un’organizzazione madre» (p. 44) e si sofferma sulla qualificazione giuridica e sull’applicabilità dell’art. 416 bis del codice penale alle neoformazioni mafiose. La riflessione si completa con la descrizione delle differenze tra cosa nostra, camorra, associazioni di stampo mafioso pugliesi e lucane, ,ndrangheta e della loro situazione attuale.

I rapporti tra mafia e corruzione sono oggetto del terzo capitolo. L’iniziale disamina di ciò che accomuna e di ciò che distingue i due fenomeni pone in evidenza tre aspetti. Innanzitutto il termine corruzione «si riferisce a pratiche sociali tra loro altamente eterogenee, cui manca spesso del tutto l’organizzazione» (p. 58), a differenza delle mafie che sono definibili come «burocrazie professionali». Aggiunge: «il concetto di corruzione è più elusivo e poliedrico di quello di mafia. Sarebbe meglio, infatti, parlare di diversi tipi di corruzione» (p. 58). Aspetti che sono ampiamente chiariti in seguito (pp. 59-66). In secondo luogo, l’A. osserva che non sempre mafia e corruzione si “incontrano”: a volte si ritrovano in sodalizi e collaborazioni, ma altre percorrono strade proprie e diverse. In ultimo rileva le differenti conoscenze a nostra disposizione circa i due fenomeni, con una maggiore quantità di studi e ricerche sulla mafia rispetto al poco indagato scambio corruttivo.

Soffermandosi sull’aspetto organizzativo, La Spina introduce una distinzione fra corruzione “organizzata” e corruzione “non organizzata”, esaminando i due tipi anche in relazione alle definizioni classiche di corruzione. Il carattere «“pulviscolare”, sfuggente o addirittura “individualizzato”» (p. 73) della corruzione rende difficile l’attività di contrasto, in assenza di vertici organizzativi da colpire; per questo sono necessarie adeguate analisi delle diverse forme che essa assume, in cui si tenga conto della differenza di finalità, durata, composizione, volume d’affari e modalità operative.

Uno dei nodi centrali delle mafie, vecchie e nuove, è legato alla dimensione economica (volume di affari, opportunità, criticità derivanti dalla crisi e dal rallentamento delle attività economiche). L’A. ne analizza i vari aspetti nel quinto capitolo, partendo da una descrizione dei dati oggi disponibili e delle loro fonti. A tal proposito, rileva le potenzialità conoscitive legate all’utilizzo del materiale empirico derivato dalle intercettazioni, dalle risultanze investigative, dai procedimenti giudiziari (pp. 116-117). Un tema saliente messo in evidenza dall’A., che ne delinea potenzialità e limiti, è quello degli indici di presenza mafiosa e degli indicatori utilizzati (pp. 123-126).

Un intero capitolo è poi dedicato ai rapporti fra le mafie e la Chiesa cattolica. Le argomentazioni prendono avvio dalla legittimazione della superiorità che i mafiosi fondano anche su un certo modo di vivere e pensare l’esperienza religiosa. Ciò pone una palese contraddizione fra comportamenti caratterizzati da violenza e prevaricazione e i principi di fratellanza e amore su cui si basa il messaggio evangelico. La Spina svolge la propria analisi mostrando come sia fallace motivare la compatibilità fra mafioso e cattolico partendo dalle caratteristiche della mafia tradizionale, perché l’elemento della violenza è il proprium dell’organizzazione in ogni fase storica (p. 136). Egli analizza invece i rapporti di potere nelle comunità locali e le varie motivazioni che hanno spinto uomini di mafia e uomini di Chiesa a sodalizi, indifferenze o contrasti. Particolarmente utile al fine di indagare la complessità di questo rapporto appare la distinzione che l’autore compie fra Chiesa come istituzione e come insieme di fedeli (p. 137), alla base di una delle domande che pone: dopo i precetti “antimafia” che la Chiesa-istituzione ha emanato, i comportamenti reali vi si conformano o divergono? (p. 150). Anche in questo caso la risposta dell’A. è articolata e tiene conto della complessità del reale.

Nel testo viene affrontato il tema dell’efficacia crescente della politica antimafia condotta dallo Stato, che ha conseguito diversi risultati importanti. Accanto all’operato degli apparati statali, è importante sottolineare il ruolo svolto dall’“antimafia sociale”, espressione in cui si raggruppano le svariate istanze della società civile attive nel contrasto delle mafie. Tuttavia, l’antimafia è anche intesa e sfruttata da qualcuno come occasione di visibilità e guadagno personale. La complessità della realtà è sintetizzata dall’A. immaginando una serie di tipi che possono popolare l’antimafia sociale, che va dall’operatore che non è mai stato avvicinato dalla mafia a colui che riesce a occupare ruoli importanti «anche grazie a un esteriore impegno antimafia» (p. 178). L’impossibilità di conoscere la realtà nella sua interezza rende spesso difficile distinguere i diversi tipi di motivazione, fra cui si celano anche interessi e opportunismi.

Il saggio di Antonio La Spina è un percorso conoscitivo, argomentato e documentato, che aiuta il lettore a entrare nel mondo magmatico delle mafie e delle antimafie (istituzionale e sociale), fino alle derive di queste ultime, il cui esito è la generazione di disarmonie che possono paralizzare il corpo sociale. Questo mondo può essere trasformato se si adottano politiche adeguate. A questo sono dedicate le conclusioni del volume con uno sguardo particolare alla situazione del Mezzogiorno. In diversi lavori precedenti l’A. ha analizzato i mali del Sud d’Italia, sottolineando il perverso intrecciarsi di povertà (assoluta e relativa), disoccupazione, scarse prestazioni dei servizi pubblici (come sanità e scuola), derive particolaristiche e clientele (che si sostanziano nella dipendenza da chi gestisce risorse pubbliche), apparati statali inefficienti ed elefantiaci, la scarsa tutela dei beni pubblici.

In un tale contesto, la mafia prende sovente il posto dello Stato nel rispondere sia alle esigenze di ordine pubblico sia a quelle di lavoro e welfare. Dinanzi alle mafie, intese come organizzazioni “benefiche”, lo Stato appare poco credibile e assente. Per questo, la lotta alla criminalità organizzata deve passare attraverso un’agenda politica che predisponga e realizzi interventi per rigenerare il tessuto economico-produttivo, creando sviluppo e lavoro, unitamente a interventi nel settore sociale e del welfare. Interventi inseriti in una coerente programmazione, con un efficace sistema di verifiche e controlli, e con specifiche strategie per evitare indolenze assistenzialistiche nei beneficiari. Come afferma l’A. nelle battute conclusive, «Se si vogliono annientare le mafie e, al contempo, si vogliono tutelare i diritti di cittadinanza dei soggetti più deboli nella parte più debole del Paese, la rottura di questo scambio perverso – tra consenso/acquiescenza, da un lato, e mance elargite da patroni, boss o notabili del mondo di mezzo o degli altri due mondi, dall’altro – è un passaggio che non può essere evitato» (p. 205). Determinante a tal fine è che non tutti sono disponibili a “fare affari” nel mondo di mezzo. L’A. osserva che c’è una gran parte della popolazione che è “diversa”, che possiede una visione del mondo in cui l’interesse pubblico non può e non deve essere calpestato. Come a dirci: c’è il mondo di mezzo, ci sono affaristi e criminali, ma non c’è un destino ineluttabile se si sostiene chi sceglie (nella sostanza e non nella retorica di facciata) di essere classe dirigente al servizio del bene comune.
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