Il libro dell’incontro
Vittime e responsabili della lotta armata a confronto
Guido Bertagna – Adolfo Ceretti – Claudia Mazzucato (edd.)
il Saggiatore, Milano 2015, pp. 472, € 22
Gli anni di piombo. Qualcosa in quest’espressione ancora ci lascia inquieti. Non è la paura, quanto piuttosto la sensazione di stare di fronte a un secondo peccato originale nella storia democratica di questo Paese; l’impressione che, per l’urgenza di non perdere il treno della storia, si sia chiuso il libro dei conti pur sapendo che non tornavano. A ben vedere, quella stagione di contrapposizioni violente, di minaccia allo Stato democratico e alle sue istituzioni, di morti incolpevoli rimane una spina nel fianco delle stesse istituzioni democratiche che da quella lotta sono uscite sì vincitrici, ma ferite, restituendo una società civile profondamente lacerata, disposta a ricompattarsi solo di fronte all’orrore delle stragi, ma intimamente disillusa e incapace di metter capo a una visione condivisa del futuro del Paese.
Forse è proprio la necessità di guardare al futuro che sta determinando un cambio di rotta nel modo di pensare a quel periodo di sangue, all’ombra della convinzione – quasi psicoanalitica – che solo lo scioglimento dei nodi lasciati irrisolti possa permettere quel fluire del tempo che rende il futuro pienamente tale. Se l’emergere della verità sulle vicende di quegli anni rimane una necessità ineludibile (e su questo fronte molta strada rimane da compiere), si sta facendo largo anche l’idea che solo uno sguardo rinnovato, non macchiato dal pregiudizio ideologico, sia in grado di cogliere e riconoscere la verità su cui via via si fa luce e che solo animi disponibili ad ascoltare la parola “dell’altro” possano accedere a questo sguardo. Verità e riconciliazione finiscono così con il costituire una coppia inscindibile, il reciproco frutto di una sorta di “circolo ermeneutico” in cui l’una si dà a partire dall’altra e nel contempo se ne pone come condizione imprescindibile. Se è impossibile per la riconciliazione fare a meno della verità, quale posto c’è per la verità in un Paese non riconciliato? Può davvero la verità imporsi allo sguardo di tutti, là dove si è sordi a un discorso che non sia il proprio? E soprattutto: a cosa serve, a quale giustizia può condurre, una verità non condivisa, non riconosciuta, incapace di essere la “verità di tutti”?
Sembrano essere queste le domande che hanno animato il lavoro che Guido Bertagna, Alfonso Ceretti e Claudia Mazzucato conducono da ormai sette anni e che giunge a intrecciare un primo e indiscutibile nodo con la pubblicazione de Il libro dell’incontro: il resoconto di un progetto più unico che raro nella nostra storia “giudiziaria”, nel quale vittime e responsabili della lotta armata degli anni ’70 si sono trovati gli uni di fronte agli altri a ricostruire le vicende di una stagione che ha cambiato per sempre le loro vite. Nessun avvocato a interrogarli e nessun giudice chiamato a pronunciare sentenze (già peraltro emesse, visto che gli “ex” che hanno preso parte al lavoro hanno scontato le loro pene o lo stanno facendo). Un sacerdote (Bertagna), un criminologo (Ceretti) e una docente di diritto penale (Mazzucato) a mediare un confronto fatto di oltre un centinaio di incontri (tra colloqui, circles e soggiorni estivi) nel corso dei quali tutto è stato gettato sullo stesso tavolo: i dolori laceranti di chi in quella stagione ha perso un familiare, i dubbi angosciosi su verità ricostruite a posteriori nel linguaggio della giustizia ordinaria, quasi mai capace di dare piena soddisfazione al bisogno di sapere il come e il perché dei fatti. Ma anche il pentimento, non più come categoria giudiziaria, ma come stato emotivo che con la stessa irreparabilità dei gesti compiuti corrode gli animi dei responsabili perché – come osserva con angosciante acutezza uno di loro –, per quanto ci si possa riconoscere come ex brigatisti, «non si può pretendere di appartenere alle categorie di ex assassini o di ex vittime» (p. 88).
Ma per quale motivo questo “incontro” si è imposto come necessario? Che cosa ha fatto sì che quest’idea, per certi versi indigesta se non addirittura scandalosa, abbia avuto successo; che le persone coinvolte (fra cui Agnese, figlia di Aldo Moro, e Adriana Faranda, membro della colonna brigatista romana responsabile dell’omicidio dell’onorevole democristiano) abbiano sentito il bisogno di rimanere sedute al tavolo, di riaprire ferite mal chiuse e di esporsi per sette anni al rischio che i ricordi e le parole altrui le facessero nuovamente sanguinare? «All’inizio – spiegano i mediatori nel prologo – sapevamo solamente con chi e da che cosa volevamo fuggire. Detto senza paura: dall’idea, di cui abbiamo constatato il fallimento, che un’esperienza di giustizia significhi per i responsabili soltanto “pagare” le proprie colpe con anni di carcere; e per le vittime e i loro parenti trovare invece conforto e soddisfazione, in primo luogo, nell’espiazione di quella pena» (p. 11). A processi conclusi, a pene scontate, quando “giustizia è fatta”, di giustizia si ha ancora una sete che appare inestinguibile di fronte alla consapevolezza che con la punizione del reato lo Stato ha esaurito il suo compito, che non succederà nient’altro. «La vittima di un crimine è una persona segnata – talvolta sfigurata – nella sua stessa identità umana e la ricostruzione di tale identità è sempre un processo complesso e doloroso» (p. 54), che difficilmente viene compiuto nel corso del “processo” propriamente detto, il quale alle vittime non offre che «spazi di monetizzazione della sofferenza» (ivi), spesso al prezzo di un secondo calvario fatto di appelli e controappelli nel corso dei quali la parola è concessa alla vittima entro i limiti angusti dell’interesse alla chiarezza sui fatti.
La giustizia che ne deriva è senza pace, è una giustizia che, considerando il reato in primo luogo come la violazione di un codice e impegnandosi innanzitutto a tutelare un possibile innocente dalla violenza della pena, perde totalmente di vista la vittima, “condannata” a sua volta a farsi carico in solitudine della propria “pena”, respirando tutt’al più la compassione delle “associazioni delle vittime di…”. Una sorte non dissimile, del resto, tocca ai responsabili, ai quali la giustizia impone senz’altro uno spazio di riflessione nel corso del quale può aprirsi un varco al pentimento, senza avvedersi però che anche quest’ultimo è un sentimento inquieto, una domanda che ha bisogno di una risposta che, spesso, solo la vittima può offrire. Se le vittime si trovano tragicamente poste nelle condizioni di doversi accontentare della sofferenza patita dal reo, i responsabili che maturano un sentimento di ripugnanza verso il loro gesto – momento imprescindibile per quella “rieducazione” di cui la Costituzione si fa promotrice – trovano poi la strada verso il reinserimento sociale impedita dal macigno del rimorso nei confronti dell’irreparabile che hanno compiuto, senza che alcuna pena possa porvi fine.
Si obietterà che il carattere sanzionatorio della giustizia e la sua attenzione ai comportamenti esteriori – cui corrisponde un inevitabile “disinteresse” nei confronti di un mondo interiore che sfugge per sua natura ai criteri dell’oggettività – è ciò che le permette di “funzionare”, di mantenere quello sguardo “disinteressato”, appunto, che costituisce una garanzia per tutta la società. Ma se questo è vero, è altrettanto vero che la prassi giudiziaria, al pari di quella scientifica, finisce inevitabilmente col “ridurre” eventi complessi a un sistema categoriale che per poterli spiegare rinuncia troppo spesso a comprenderli, lasciando insoddisfatta una domanda di senso che, in casi come quello in questione, diventa per la società urgente quanto quella di sicurezza. Il rischio è che una “guerra civile a bassa intensità” (così alcuni storici hanno definito la stagione terroristica italiana) si concluda senza che venga firmata alcuna “pace”, senza che le idee, oltre che le persone, siano chiamate a rendere conto di quanto hanno determinato, lasciando così che la storia si divida in “borghese” e “proletaria”, come in quegli anni accadeva per scienza e giustizia. «Questo Paese non solo non è stato capace di elaborare un lutto ma neanche un pensiero. Non ha voluto né potuto pensare al terrorismo. Non ha mai fatto i conti fino in fondo» (p. 52).
L’incontro e il libro che lo racconta, quindi, non nascono da intenti riconciliatori di natura meramente umanitaria, ma dalla fede che le vicende di vittime e responsabili – piaccia o no – rimangano indissolubilmente legate, perché è solo dalle mani dell’altro che entrambi possono ricevere ciò di cui più hanno bisogno ed è solo dal loro incontro e dal ricomporsi delle loro storie che la società può sperare di avere finalmente “una” verità su una stagione che l’ha lacerata. «Durante questo percorso abbiamo incontrato quesiti, domande, nodi che solo l’altro difficile avrebbe potuto sciogliere e dubbi che solo la fiducia proprio nell’altro difficile avrebbe potuto dissipare». Il ricomporsi di una frattura sociale proprio nel punto in cui i lembi erano massimamente distanti, del resto, è ciò che permette di «far cadere ogni alibi allo Stato. Mettere insieme le memorie significa poter chiedere apertamente allo Stato di rendersi più trasparente» (p. 250). Quello messo in piedi da Bertagna, Ceretti e Mazzucato – che non a caso hanno deciso di farsi accompagnare nel loro lavoro da un nutrito gruppo di “garanti”, persone provenienti dalle istituzioni, dal mondo della cultura, dell’università e del giornalismo – è stato un progetto “privato”, ma per nulla privatistico: l’aver messo i lutti, i rancori e le storie della lotta armata gli uni di fronte agli altri ha significato porre un interrogativo alla giustizia tradizionale e ai suoi doveri verso la società e gli individui che sono chiamati a comparirle davanti. Per questo motivo Il libro dell’incontro non si limita a raccogliere le voci di quanti si sono incontrati, ma le restituisce racchiudendole fra numerosi interventi che illuminano circa il significato politico da attribuire a quanto avvenuto.
La pratica della giustizia riparativa, nei cui binari si è mosso il lavoro del gruppo, ha infatti una storia sia reale sia teorica di cui il testo fornisce un’ampia sintesi. Il riferimento obbligato è all’esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica post apartheid. Il contesto del lavoro della Commissione, come gli autori sottolineano più volte, è ovviamente del tutto diverso, a partire dal fatto, banale ma determinante, che in Italia, almeno per quel che riguarda la stagione terroristica degli anni ’70, non c’era da fare i conti con le derive violente di nessun regime politico sconfitto, perché l’ordinamento democratico è riuscito a far valere le proprie leggi tanto prima quanto dopo la stagione terroristica. Tuttavia, come sottolinea Ceretti, questo non ha impedito alla Commissione sudafricana di porsi «come una traccia di luce che ha contribuito a ridisegnare il significato più profondo che conferiamo alla parola giustizia» (p. 232), dal momento che anche nel caso italiano quest’ultima doveva tenersi insieme con la verità e la riconciliazione, senza le quali il suo ruolo si ridurrebbe a punire la trasgressione di un sistema di norme e non «l’offesa di un bene giuridico rilevante di cui qualcuno è titolare» (Mazzucato, p. 296); l’incapacità della giustizia di ricostruire una verità “rilevante”, nata dalle domande degli uomini e non da quelle dei codici, significherebbe la sua incapacità di dare un contributo a una condivisione delle memorie, tenendo conto della loro incommensurabile differenza, condizione senza la quale un Paese non può porre capo a nessun futuro. In questo senso la giustizia riparativa, come pratica che ricostruisce la verità attraverso l’incontro mediato di vittime e responsabili, e non attraverso una procedura che la ricerca quel tanto che basta per scongiurare l’esercitarsi della violenza legittima dello Stato su un innocente, può produrre un “senso di giustizia” maggiore di quello offerto dalla giustizia penale, la cui bilancia ospita i fatti fin tanto che servono a misurare l’azione della spada e non a saziare i bisogni di quanti ne sono stati offesi.
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