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Il gusto del «vento nuovo»

Il «terremoto» provocato dai risultati delle elezioni amministrative di maggio e dei referendum di giugno fa emergere un profondo desiderio popolare di riappropriarsi della vita democratica del Paese. Aver ritrovato il gusto dell’impegno per il bene comune è una esperienza fondamentale, da custodire per i momenti in cui si riaffacceranno frustrazioni e confusione. Le novità di questi mesi interpellano i cattolici a partecipare al discernimento comune «dei segni di questi tempi», offrendo il contributo della loro tradizione, sulla scia della testimonianza di figure significative.
Fascicolo: luglio-agosto 2011

«Il vento è cambiato» è lo slogan che con maggior frequenza appare per compendiare il «terremoto» provocato dai risultati delle elezioni amministrative e dei referendum. Certamente è venuto alla luce un movimento profondo, reso visibile dalle tante immagini di piazza, che va ben al di là delle dinamiche dei partiti, non a caso - maggioranza e opposizione insieme - colti sostanzialmente alla sprovvista. Il quadro, ben lungi dall'essere ricomposto, richiede un discernimento delle radici di una novità che è certamente portatrice di speranza, ma che ha bisogno di essere consolidata. L'articolo di p. Sorge, alle pp. 492-501, affronterà più direttamente la questione di un'analisi della situazione in chiave politologica. In queste pagine invece, dopo aver ricapitolato brevemente gli eventi, ci preme cercare di evidenziare l'esperienza collettiva che come cittadini italiani abbiamo vissuto e interrogarci sul contributo che i cattolici possono dare al rinnovamento del Paese in questo specifico frangente.

1. Una raffica di sorprese

Che ci fosse voglia di cambiamento si poteva intuire, e non solo al livello internazionale con la «primavera» che ha smosso il mondo arabo o con il movimento degli «indignados» in Spagna. In Italia un primo piccolo segnale era arrivato a Milano dalle primarie del centro-sinistra per le amministrative (14 novembre 2010), con la vittoria di un outsider come Giuliano Pisapia. Poi a febbraio 2011 abbiamo assistito all'imponente mobilitazione che chiedeva rispetto e dignità per l'universo femminile, con la partecipazione di circa un milione di persone in più di duecento piazze, e che, nonostante avesse tratto impulso dalla reazione ai festini di Arcore, si era svolta in maniera trasversale agli schieramenti partitici. Quindi, a maggio, si sono svolte le elezioni amministrative, con i risultati sorprendenti di Milano e Napoli, e anche di molti centri minori in tutta Italia. Infine, il 12-13 giugno, l'ultima sorpresa, ancora più forte e simbolica: la partecipazione di più di 27 milioni di italiani alle consultazioni referendarie.
La novità si è dunque rivelata, ancora una volta, imprevedibile, superando le congetture dei partiti, sia di maggioranza sia di opposizione, come le letture degli analisti. Una volta verificatasi, possiamo provare a comprenderne le radici e la genesi, nel tentativo di consolidare quanto di promettente i nuovi scenari contengono. Anche i mezzi di comunicazione se ne sono accorti con ritardo, perché i flussi di scontento e la voglia di cambiare sono passati attraverso canali non convenzionali, mescolando le tecnologie del web 2.0 - in particolar modo Twitter, Facebook e YouTube - a forme più tradizionali, ma sempre capillari, di passaparola. Attivi in queste reti, sia organizzate sia informali, sono in modo particolare le donne, le nuove generazioni, il popolo del web: «cittadini normali» che, lungi dall'essere qualunquisti, hanno cercato di esprimere la propria opinione e di confrontarla con quella degli altri.
Certo, questo rinnovato attivismo si nutre del desiderio di reagire alla stanchezza, al fastidio, al rigetto per una politica che non ha nella sua agenda nessun tema che incroci la vita dei cittadini, e soprattutto al disincanto per promesse mai mantenute. Tuttavia non si tratta solo di un movimento di reazione: il rifiuto, a differenza degli anni passati, quando si traduceva nella ritirata, questa volta si è sviluppato fino a divenire, senza che quasi nessuno se ne rendesse conto, una forza propulsiva. La vera sorpresa è di segno positivo: una grande voglia trasversale di partecipazione.
Molte persone, molti cittadini comuni, indipendentemente dall'orientamento politico e dalla valutazione che danno dell'attuale Governo, hanno voluto infatti inviare un messaggio molto chiaro: ci siamo, vogliamo esserci, vogliamo esprimerci. Dopo anni di passività nei confronti di una politica sempre più sideralmente lontana, paiono essere scattati negli italiani un bisogno diffuso di buona politica e la passione per la ricerca di un bene comune che va al di là dell'opposizione viscerale tra le parti.
Accomuna le amministrative e i referendum il desiderio di riappropriarsi della vita democratica del Paese, una sorta di «ritiro» della delega. Entrambi gli schieramenti devono registrare lo scollamento degli elettori dalle indicazioni dei vertici di partito: nel centro-sinistra lo si vede dall'esito di molte primarie, nel centro-destra dai risultati delle elezioni amministrative e, ancor di più, dalla decisione di molti di recarsi alle urne per i referendum nonostante la campagna astensionista di gran parte del Governo. Così, come vari osservatori fanno notare, nessuno può proclamarsi davvero vincitore delle recenti tornate elettorali: gli elettori hanno preso distanza dalle scelte di partito, quale che sia il partito. Il messaggio alla classe politica nel suo complesso è chiaro: non si può governare, una città o un Paese, ignorando i suoi cittadini.
Insieme agli apparati di partito e alle loro logiche più autoreferenziali, viene messa in crisi dalle sorprese del 2011 anche l'ideologia antipolitica o postpolitica, di cui in questi anni si sono alimentate le correnti demagogiche di destra come di sinistra, con le loro peggiori conseguenze: screditamento e demolizione di tutto ciò che è pubblico o comune, sdoganamento del qualunquismo più insolente, abdicazione delle istituzioni alla legge del più forte, inaridimento delle radici della vita democratica, criminalizzazione sistematica del dissenso e incitazione anarchica.
Non è dunque vero - come la retorica antipolitica ci aveva abituato a pensare - che gli italiani non ne possono più della politica tout court. Quello che non sopportano è una certa politica, e soprattutto i politici che la attuano, mentre appaiono interessati alle facce nuove - come quelle uscite da molte primarie - e a una politica capace di affrontare le questioni di fondo del nostro vivere comune, come quelle alla base dei referendum.
Sarebbe ingenuo pensare che lo scetticismo nei confronti della politica, che ha tenuto molti lontano dalle urne per lungo tempo, sia scomparso in Italia. Quanto accaduto però, per quanto non sia condiviso da tutto il Paese, è un segnale importante: «Una lezione per tutti i cittadini, soprattutto per quelli che per anni hanno seguito con noia e sonnolenza le vicende politiche italiane, disertando le urne quando decisioni importanti venivano prese, oppure fidandosi ciecamente dei politici che avevano votato, seguendoli come si fa con la squadra del cuore» (Tinagli I., «I cittadini vogliono contare», in La Stampa, 13 giugno 2011).

2. Eventi preziosi e fragili

Ci possiamo rallegrare che, per quanto sottoposta al rullo compressore di strategie sostenute da un immenso potere economico e mediatico, la società italiana non sia stata completamente spianata. Certo, ha dato segni prolungati di acquiescenza, ma non si è mai interamente polverizzata nella passività. Negli scorsi mesi molti italiani hanno provato a reagire, a informarsi, confrontarsi e impegnarsi, ad abbandonare gli schieramenti e le posizioni partigiane a priori. Si tratta di un evento di cui cogliere l'importanza, ma senza cedere a trionfalismi troppo rapidi che potrebbero nasconderne la fragilità e le possibili ambiguità.
La voglia di cambiamento e l'immenso giacimento di energie che si è rivelato non bastano a mutare il quadro politico: quanti movimenti popolari di libertà e partecipazione non riescono poi a superare la prova della realtà? La storia permetterebbe di riempire pagine di esempi di disillusione e dobbiamo prestare attenzione al rischio - sempre in agguato - di una deriva gattopardesca: «Se vogliamo che tutto resti com'è, bisogna che tutto cambi».

   a) Il gusto della festa

Ci sembra che gli eventi delle ultime settimane contengano alcuni elementi preziosi, che possono rappresentare i cardini di una esperienza forte a cui guardare quando l'ordinaria evoluzione delle cose inevitabilmente smorzerà gli entusiasmi e ci porrà dinanzi a contraddizioni e frustrazioni. Ricordare di aver gustato qualcosa di buono ci aiuterà a continuare a cercarlo, senza lasciarci nuovamente andare alla facile disillusione.
Una occasione in cui si è sperimentato il gusto della novità è la festa che ha seguito la proclamazione dell'esito delle elezioni amministrative, in particolare in quelle città in cui i risultati sono stati più clamorosi rispetto alle previsioni. In particolare, piazza del Duomo a Milano - a pochi passi dalla nostra Redazione - si è riempita di gente comune che, con la leggerezza e l'autoironia proprie del mondo del web 2.0, celebrava un successo in cui ciascuno ha sentito di poter contare, perché il suo contributo, per quanto piccolo, era risultato determinante per cambiare il volto della città. È questa percezione di «potere diffuso» che ha permesso di uscire dall'immobilismo e ritrovare le energie per partecipare, compiendo la promessa di cambiamento che conteneva. Quella piazza, a differenza di molte altre che abbiamo visto in questi anni, era chiaramente unita «per» qualcosa e non «contro» qualcuno: nessuno slogan menzionava dei nemici e il colore dominante, l'arancione, faceva riferimento a molte rivoluzioni pacifiche e non ai partiti tradizionali.
Per i referendum l'esperienza del gusto va probabilmente rintracciata nel clima di mobilitazione, nelle discussioni anche accese, nell'impegno comune, nella creatività di trovare il modo per informare i cittadini e sconfiggere sia la congiura del silenzio mediatico che troppo a lungo aveva avvolto le consultazioni, sia la pesante scia di insufficiente partecipazione che sembrava condannare anche questi referendum al mancato raggiungimento del quorum. È l'esperienza di un popolo che si (ri)assume la responsabilità di esprimersi.
È ciò che dovremmo ricordare di questo giugno: il gusto dell'esperienza vissuta, la capacità di non dividere il mondo tra amici e nemici. La partecipazione democratica va esercitata ogni giorno, informandosi, ragionando, discutendo, non solo quando stiamo per scivolare nel baratro o quando qualcosa comincia a toccarci personalmente. E non solo nelle piazze, ma nelle case, nelle aziende, nelle scuole, nelle strade, mettendosi in gioco in prima persona.
Solo così una democrazia può mantenersi viva e rinnovarsi sempre, anche quando non siamo chiamati alle urne. Averne (ri)fatto esperienza è un patrimonio prezioso, a cui attingere nei momenti di oscurità o di confusione, contro i quali certo le sorprese di quest'anno non ci hanno vaccinati. Ci sembra questa la ragione che ha spinto molte famiglie a portare in piazza bambini anche piccoli, offrendo loro l'opportunità di vivere in questa festa qualcosa del bene comune, per poterlo poi ricordare.

   b) Guastafeste

Nella festa, l'entusiasmo può giocare brutti scherzi. Il più rischioso è quello di farci abbassare la guardia, permettendo ad altri «gusti» di mescolarsi a quello che la festa vuole celebrare, facendole perdere tutta la leggerezza e inquinandone la memoria. Sono i gusti di altre esperienze, quelle legate a un passato da cui le sorprese del 2011 ci mostrano inaspettatamente una possibilità di uscire.
Certamente ha rappresentato una stonatura, rispetto al clima della festa di piazza che sopra abbiamo ricordato, il ricorso, da parte di esponenti politici, a espressioni di tipo militare, più improntate alla logica del «contro» che a quella del «per», probabilmente nel tentativo di annettersi una vittoria. Ma questo significherebbe cancellarne la novità, che deve essere invece custodita e difesa anche dalla tentazione di tornare a scivolare in vecchi schemi, a partire dal modo in cui elettori ed eletti gestiranno il proprio ruolo nei prossimi mesi e anni.
La prima sfida che attende i primi come i secondi è quella di uscire dalla esasperante logica della personalizzazione che negli ultimi vent'anni è stata impressa al confronto politico nel nostro Paese: se i nuovi amministratori si trasformeranno immediatamente nei demiurghi o nelle sciagure di turno, torneremo a perdere l'opportunità di un serio e democratico confronto sui problemi e sulle loro soluzioni.
L'esito dei referendum, poi, pone un problema di rappresentanza di quel 57% di cittadini, di sinistra, di centro e di destra, che si sono recati alle urne, rispetto a forze politiche che hanno incautamente snobbato la consultazione o hanno cavalcato i quesiti in modo strumentale e a volte tardivamente. Coloro che sono andati a votare il 12-13 giugno, per quanto motivati, non rappresentano ancora un blocco, né si vedono con chiarezza i contorni di un progetto sociale e politico autorevole, capace di coinvolgere tanti. In questa situazione è grande il rischio della frammentazione e dello smarrimento del senso dell'impegno maturato nelle scorse settimane.

3. Cittadini e credenti

Le recenti sorprese coinvolgono e interpellano anche i cattolici italiani. Li coinvolgono perché, insieme a molte altre componenti della società, li hanno visti protagonisti del loro emergere. Un tema come quello dell'acqua, anche per le sue profonde risonanze simboliche, ha suscitato la mobilitazione, più corale che mai, di numerose componenti del mondo cattolico, di base e di vertice, a fianco di molti altri: i cattolici si misurano da cittadini come tutti gli altri, a partire dal loro patrimonio. Che è quello di una sapienza, fondata sull'antropologia cristiana, che porta a fondare la politica e l'autorità non sul potere, ma sulla ricerca del bene comune (come ha ricordato anche Benedetto XVI nel suo discorso agli esponenti della società civile croata, il 4 giugno scorso, riportato alle pp. 534-536). Parole che sembravano ormai quasi fuori dal tempo e che invece tornano prepotentemente di attualità: di fronte a una società che - finalmente - pare avvertirne nuovamente il bisogno, i cattolici italiani sono chiamati innanzitutto a «lucidare i gioielli di famiglia», a partire dal corpus della dottrina sociale della Chiesa, per metterli a disposizione di una collettività che ha bisogno di consolidare quel gusto per la novità che ha sperimentato.
Non si tratta sicuramente di «battezzare» frettolosamente il nuovo vento della politica italiana, compiendo lo stesso errore di quanti in queste settimane hanno cercato di appropriarsene, ma di partecipare a un discernimento collettivo «dei segni di questi tempi», per permettere che emergano e portino frutto.
Solo una paziente e attenta rilettura dell'esperienza - quella personale e quella comune dei cittadini appartenenti a uno stesso territorio - potrà evidenziare «tracce» che annunciano un bene (obiettivi, valori, norme) per il quale si può decidere di impegnarsi. Questo bene non è sicuramente ancora evidente nella sua pienezza, ma si mostra attraverso indizi che vengono riconosciuti come portatori di una speranza, di una «promessa» a cui si fa credito e su cui far convergere la mobilitazione di quanti hanno riassaporato il gusto di un impegno.
Certo, questi segni non sono facili da riconoscere e i criteri operativi per discernerli sono, anche per il cristiano, «criteri umani», e quindi devono essere comprensibili da ogni coscienza e comunicabili. La chiave può essere la ricerca di quanto autenticamente promuove la persona, a partire da come la comprendiamo alla luce della fede, come base per la tutela di libertà e diritti che, senza un solido fondamento, rischiano troppo facilmente di svuotarsi o addirittura di trasformarsi nel proprio contrario.
Questo discernimento dovrà anche guidare l'atteggiamento dei cattolici nei confronti delle nuove amministrazioni, a partire dai non pochi che ne fanno parte, mantenendo desta la preoccupazione per un approccio integrale ai problemi delle città o del Paese.
Infatti non possono bastare ai cattolici, attenti al mistero della gratuità e dunque al destino dei più deboli, di chi non ha potere né nulla da offrire per ottenerlo, proposte parziali, magari utilizzate come nuove bandiere e a copertura di prassi non altrettanto rinnovate. Non basta la difesa di diritti specifici e di valori particolari, se poi si accetta, di fatto, quel primato delle scelte individuali rispetto a ogni regola e a ogni riferimento etico. Nemmeno può bastare uno «scambio di favori» che riduca la Chiesa alla stregua di una lobby fra tante. Appare dunque importante, in questo momento, dare rappresentanza alle esigenze di vera solidarietà e socialità, che sole possono vincere l'aggressività degli esclusi e le paure della società. A questo il patrimonio di cui sono portatori impegna in particolar modo i cristiani.
Non è una novità in prospettiva storica, ma gli eventi degli ultimi mesi ci riconsegnano anche l'importanza del servizio che possono rendere figure significative, capaci non di polarizzare su di sé un seguito acritico e populista, ma di interpellare le coscienze facendo emergere quei nodi che, nella situazione concreta, costituiscono la vera discriminante tra l'impegno autentico a favore «di tutto l'uomo e di tutti gli uomini» e la strumentalizzazione retorica del lessico dei diritti e della libertà. È un compito proprio dei cristiani, ed è un servizio da rendere alla società, di cui può fruire anche chi non conosce o non condivide su quali basi esso si fondi. Allo stesso tempo, è un modo per mostrare, a chi abbia desiderio di scoprirla, la perenne vitalità del messaggio evangelico anche per una società che spesso si definisce secolarizzata e postcristiana.
Senza dimenticare le tantissime persone di questo tipo che si sono spese nel nascondimento, ci sia permesso esprimere un ringraziamento al card. Tettamanzi, che, al termine del suo servizio come arcivescovo di Milano, si è ritrovato bersaglio di polemiche a sfondo politico per la sua libertà di ricordare in gesti e parole il Vangelo. Nell'Italia delle sorprese, l'impegno è quello che per ogni credente e per la Chiesa nel suo insieme possano valere le parole con cui egli stesso ha commentato la vicenda: «Devo dire una cosa semplicissima: quando intervengo faccio di tutto per farlo da credente e vescovo e parlo del Vangelo. Le reazioni non mi turbano. Io compio la mia missione».

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