Il grande conflitto

Fascicolo: ottobre 2014
Nella storia è in atto uno scontro tra le forze prorompenti del Male, portatrici di disgregazione e di morte, e l’azione diffusiva del Bene, fonte di riconciliazione e di vita. Questo motivo attraversa la Bibbia intera. Si pensi alla lotta, descritta all’inizio del libro della Genesi, tra Dio e le «grandi acque» dell’abisso, immagine del caos primordiale e raffigurazione del Male stesso. Si pensi, ancora, al confronto drammatico, narrato nei primi capitoli del libro dell’Esodo, tra il Signore, promotore instancabile di liberazione, e il Faraone, personificazione del Potere che opprime e riduce in schiavitù.

Il giusto di fronte ai malvagi

Il libro dei Salmi illustra questo grande conflitto, mettendo in scena due figure contrapposte: il giusto e il malvagio. Il «giusto» è la persona caratterizzata da una profonda rettitudine interiore, che non agisce per convenienza o per calcolo. Libero da ogni volontà di dominio, avanza nella vita nel rispetto dovuto all’altro, pronto a riconoscere e promuovere il diritto di cui l’altro – a cominciare dal più debole – è portatore. Non è un presuntuoso, è semplicemente una persona onesta, colui che, nel nostro linguaggio, chiameremmo un “uomo per bene”. Il salmista lo definisce «puro di cuore» (Salmi 24,4; 73,1) o anche «retto di cuore» (Salmi 11,2): un uomo trasparente, senza doppiezza, non diviso tra l’adesione (formale) al Signore e l’ossequio (reale) agli idoli di turno. Il suo costante punto di riferimento è costituito da una Parola che egli riconosce dotata di grande autorevolezza, perché veicola un insegnamento insostituibile proveniente dall’Alto. Da essa – come illustra il Salmo 1 – attinge luce e forza per non conformarsi a una società ingiusta, dominata, come direbbe papa Francesco, dalla cultura dell’esclusione e dello scarto. Soprattutto, nutrendosi di tale Parola «giorno e notte», impara a discernere nelle complesse situazioni dell’esistenza la via che porta alla felicità e alla pace. Compito arduo, dal momento che nella realtà di tutti i giorni il giusto si trova spesso solo, di fronte a coloro che si sono uniformati alla mentalità e alla logica dominanti. Sono i «malvagi», quelli che si sono lasciati prendere il cuore dalla violenza e dalla menzogna, cioè dalle due componenti tipiche di ogni società corrotta, generatrice di corruzione (cfr Salmi 10,7; 55,24).


La crisi del giusto

Il giusto può andare in crisi di fronte al successo e alla spavalderia dei violenti. Emblematica è la situazione descritta nel Salmo 11:

Salmo 11,1-7

1 Nel Signore mi sono rifugiato, come potete dirmi: «Fuggi come un passero verso il monte»?
2 Ecco, gli empi tendono l’arco, aggiustano la freccia sulla corda per colpire nel buio i retti di cuore.
3 Quando sono scosse le fondamenta, il giusto che cosa può fare?
4 Ma il Signore nel tempio santo, il Signore ha il trono nei cieli. I suoi occhi sono aperti sul mondo, le sue pupille scrutano ogni uomo.
5 Il Signore scruta giusti ed empi, egli odia chi ama la violenza.
6 Farà piovere sugli empi brace, fuoco e zolfo, vento bruciante toccherà loro in sorte;
7 Giusto è il Signore, ama le cose giuste; gli uomini retti vedranno il suo volto.

Una grave minaccia incombe sul salmista: i malvagi tramano nell’ombra per colpirlo e abbatterlo (v. 2). Persone a lui vicine gli consigliano di fuggire sui monti (v. 1), ma forse il suggerimento va oltre la necessità di trovare riparo in un luogo sicuro. I monti, infatti, erano considerati il regno di Baal, il dio della pioggia, la cui potenza trovava una temibile manifestazione nel fulmine e nella tempesta. Il culto (interessato) di questa divinità era diffuso in tutta la regione siro-palestinese, in quanto si credeva che assicurasse la fecondità della terra. In questa prospettiva, l’intervento degli amici può essere inteso come una sollecitazione a mettersi sotto la protezione di Baal. È come se gli dicessero: «Lascia perdere la Parola a cui hai fatto finora riferimento. Essa non serve per farsi largo nella vita. Sii realista! Dai il tuo assenso al potere che governa di fatto il pezzo di mondo in cui ti trovi a vivere. Riconosci la sua “signoria”». “Baal”, infatti, significa “signore”, “padrone”.

È il messaggio che ci viene ripetutamente insinuato anche oggi, sollecitati come siamo a inchinarci davanti ai potentati economici, finanziari e ideologici che dominano la nostra società mercantile. Un messaggio che va di pari passo con il senso di impotenza che avvertiamo di fronte al Male, che sembra avanzare incontrastato e minare alla base la società. Scrive lucidamente papa Francesco: «Come il bene tende a comunicarsi, così il male a cui si acconsente, cioè l’ingiustizia, tende a espandere la sua forza nociva e a scardinare silenziosamente le basi di qualsiasi sistema politico e sociale, per quanto solido possa apparire» (Evangelii gaudium, n. 59).

È a questo punto che in ogni coscienza avvertita si impone l’interrogativo percepito in modo acuto dal salmista: Quando le fondamenta della terra sono scosse, cosa può fare il giusto? (v. 3). Quando le fondamenta del vivere comune e della giustizia sociale sono scalzate fin dalla radice, esiste una via percorribile da chi non vuole arrendersi di fronte alla violenza imperante? L’unica possibilità per non rassegnarsi al modo di agire corrente è quella di maturare una fiducia granitica nel Bene, qualunque sia – aggiungiamo noi – il nome con cui lo si definisca. Per il salmista tale percorso si è tradotto in una ferma fiducia nella bontà di Dio, presente e operante dentro le oscurità dell’esistenza. È quanto egli afferma a partire dal v. 4, dove dichiara che il Signore ha il trono nei cieli. Con queste parole riconosce che Dio è il re che governa la terra e ha il pieno controllo della storia. È il giudice supremo, amante della giustizia, a cui nulla sfugge di ciò che accade nel mondo. Non è daltonico. Ha occhi per condurre un’indagine imparziale (v. 5, scruta giusti ed empi). Un giorno i retti potranno contemplare senza più ostacoli il suo volto e l’affermazione piena del Bene (v. 7).

La grande iniquità

In alcuni salmi i malvagi sono definiti operatori di iniquità (cfr Salmi 6,9; 37,1; 125,5). La parola greca tradotta con “iniquità” è anomía. Sia nella Bibbia greca che nel Nuovo Testamento e nella letteratura del giudaismo ad esso contemporaneo il vocabolo fa riferimento a quella che si può definire la “grande iniquità”, l’iniquità degli ultimi tempi (“ultimi” non tanto in senso cronologico, quanto nel senso di “decisivi”), nei quali avviene lo scontro frontale tra le forze del Male e il Regno di Dio (cfr De la Potterie I. – Lyonnet S., La vie selon l’Esprit, Cerf, Parigi 1965, 68-73). Il termine presenta, dunque, una marcata colorazione escatologica, ha cioè a che fare con il dramma della storia e con i suoi esiti ultimi. In questo senso, si può affermare che esso non va inteso come mera violazione di una legge particolare, ma, più radicalmente, come assenza totale di ogni riferimento assoluto: nulla è riconosciuto come vincolante rispetto al proprio mondo di valori, al cui centro si trova l’Io con la sua volontà di (pre)potenza.

Tra gli evangelisti, Matteo impiega il termine anomía quattro volte (Matteo 7,23; 13,14; 23,28; 24,12) e nelle prime due ricorrenze compare proprio l’espressione operatori di iniquità tipica dei salmi. Ciò lascia intendere come Matteo sviluppi una riflessione sul Male, riallacciandosi alla problematica affrontata nelle Scritture di Israele. Infatti, nel Vangelo di Matteo l’anomía è «l’elemento disgregatore per eccellenza, lo strumento del caos che mina le basi della socialità e del mondo»; viene vista, in altre parole, come «l’ingiustizia sostanziale, storica e cosmica, il sovvertimento dell’essere e dell’esistere: le relazioni vitali scardinate» (cfr Di Pinto L., «Amore e giustizia: il contributo specifico del vangelo di Matteo», in De Gennaro G., Amore-Giustizia, Studio Biblico Teologico, L’Aquila 1980, 327-455).

Lo scontro tra l’anomía e l’agápe

Particolarmente illuminante (e sorprendentemente attuale) risulta la frase lapidaria riportata in Matteo 24,12: «per il dilagare dell’iniquità (anomía) si raffredderà l’amore (agápe) di molti». Il dramma della storia per l’Evangelista si concentra fondamentalmente nel grande conflitto che oppone l’agápe all’anomía. Gesù sta parlando degli avvenimenti che caratterizzeranno i tempi ultimi (“ultimi” nel senso precisato sopra): si susseguiranno eventi drammatici, per i quali saranno scosse le fondamenta della terra; i rapporti tra le persone e tra i popoli saranno sconvolti e il mondo apparirà preda di forze disgreganti (vv. 48). Tracciato questo quadro inquietante, Gesù afferma a chiare lettere che neppure i suoi discepoli saranno risparmiati dall’inasprirsi della crisi. Non solo la Chiesa sarà colpita dalla violenza imperversante nella società (v. 9), ma, peggio ancora, al suo stesso interno si moltiplicheranno fenomeni di accanita rivalità e di violenta ostilità (v. 10).

Matteo
24,4-14

4 Gesù rispose: «Guardate che nessuno vi inganni; 5 molti verranno nel mio nome, dicendo: Io sono il Cristo, e trarranno molti in inganno. 6 Sentirete poi parlare di guerre e di rumori di guerre. Guardate di non allarmarvi; è necessario che tutto questo avvenga, ma non è ancora la fine. 7 Si solleverà popolo contro popolo e regno contro regno; vi saranno carestie e terremoti in vari luoghi; 8 ma tutto questo è solo l’inizio dei dolori. 9 Allora vi consegneranno ai supplizi e vi uccideranno, e sarete odiati da tutti i popoli a causa del mio nome. 10 Molti ne resteranno scandalizzati, ed essi si tradiranno e odieranno a vicenda. 11 Sorgeranno molti falsi profeti e inganneranno molti; 12 per il dilagare dell’iniquità, l’amore di molti si raffredderà. 13 Ma chi persevererà sino alla fine, sarà salvato. 14 Frattanto questo vangelo del regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia resa testimonianza a tutte le genti; e allora verrà la fine.

Come è possibile che una tale degenerazione si insinui anche nel cuore della Chiesa? Il testo evangelico chiama in causa l’azione di quei falsi profeti che, con i loro interventi, riescono a ingannare i discepoli (v. 11). L’inganno, come lascia intendere il v. 12, consiste nell’indurre molti a pensare che il Male sia invincibile e ad arrendersi alla sua egemonia. I falsi profeti, infatti, fanno leva sullo sconcerto e sulla rassegnazione che nascono dalla constatazione del «dilagare dell’anomía». Trascinati da loro, molti discepoli finiranno per smarrire il senso della giustizia e la fiducia nel Bene. Succederà così che «l’agápe di molti si raffredderà». L’agápe riassume in sé lo stile evangelico di vita. Come tale, è apertura all’altro, ricerca e promozione di relazioni umanizzanti. Consiste nel farsi prossimo anche nei confronti dell’estraneo e del nemico. Nei tempi di rivolgimenti sociali e culturali, segnati da grande confusione e diffuso disorientamento, il rischio ricorrente è di screditare l’agápe. Ci si ripiega su se stessi, rendendosi insensibili di fronte alle sofferenze e alle necessità del prossimo. Gli altri finiscono per non contare più nulla, il cuore diventa «gelido», niente lo tocca. È quella «globalizzazione dell’indifferenza» di cui ha parlato papa Francesco nel suo primo viaggio fuori Roma, a Lampedusa.

Di fronte al diffondersi di una tale deriva «cosa può fare il giusto?». Il testo evangelico ha una sola risposta: chi avrà perseverato fino alla fine sarà salvato (v. 13). È necessario resistere, nonostante tutto, nella via dell’agápe. Si tratta «di non lasciarsi suggestionare dai profeti che non prendono più sul serio il comandamento dell’amore… Quanto più dilaga l’ingiustizia nel senso dell’anomía, tanto più deve espandersi in sempre nuove invenzioni di amore la scelta tenacemente custodita della carità» (cfr Di Pinto L., cit., 425). Secondo Matteo, dunque, l’agápe è l’unica forza in grado di porre un argine al caos dilagante, che rischia di sfaldare le basi del vivere comune.

Lo scontro avviene oggi

Lo scontro tra Bene e Male, tra l’agápe e l’anomía, non è rimandato a un tempo lontano. È già cominciato. «Rifacciamoci alla nostra esperienza per scoprire come l’angoscia del crollo di tutto un mondo, su cui si è fatto affidamento, e il presentimento dell’incombere di una catastrofe non sono relegati a una data “x”, ma tagliano la storia dell’umanità e s’infiltrano nelle fibre dell’essere. Matteo non vuol dire che all’ultimo momento l’amore sarà messo in crisi; c’è sempre una crisi dell’amore… Il “corpo a corpo” tra agápe e anomía sta avvenendo adesso» (ivi., 428). Oggi anche noi ci dobbiamo misurare con la stessa crisi affrontata dal salmista, di fronte al successo degli spregiudicati e dei disonesti. Oggi, come un tempo la comunità di Matteo, corriamo il rischio di perdere la fiducia nel Bene e di lasciarci irretire dai falsi profeti, assuefacendoci all’ingiustizia imperante. Di fronte a quel «cancro sociale che è la corruzione profondamente radicata in molti Paesi» (Evangelii gaudium, n. 60) oggi è il tempo di rinvigorire l’agápe contro l’anomía: «ci farà bene tornare a ripeterci l’un l’altro: “Peccatore sì, corrotto no!”, e a dirlo con timore, perché non succeda che accettiamo lo stato di corruzione come fosse solo un peccato in più» (cfr Bergoglio J. M., Guarire dalla corruzione, EMI, Bologna 2013).
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