Potrebbe essere un romanzo
d’avventura, magari di quelli a
puntate come nel XIX secolo. Invece
Il gioco sporco del giornalista e
documentarista Valerio Nicolosi è
un reportage sulla migrazione vista
e vissuta in prima persona. Un’esperienza
che si incide nella carne
e nel cuore dell’A.: «Sono stanco di
incontrare vivi che sembrano morti,
che si muovono come spettri lungo
le frontiere del vecchio continente.
Sono stanco di essere il solo
a ricordare i nomi dei morti. Sono
stanco delle frontiere chiuse» (p.
176) dirà percorrendo il “sentiero
della morte” che da Ventimiglia
porta in Francia, oggi usato da uomini
e donne che provengono dal
Maghreb, dall’Africa subsahariana
o dall’Asia, come ieri da italiani antifascisti
o dagli ebrei dopo le leggi
razziali.
Il gioco sporco è quasi un diario
di viaggio, corredato alla fine da
alcuni scatti che diventano molto
significativi una volta conclusa la
lettura: non si tratta di luoghi anonimi
o di volti ignoti, perché ormai
sono parte di noi. All’esperienza
personale, alla raccolta di nomi,
storie, immagini, l’A. aggiunge le
proprie riflessioni, stralci di articoli
di cronaca e atti giudiziari per farci entrare nel vissuto di migliaia di
persone in fuga da guerre, carestie,
diritti negati; persone che vengono
messe a tacere per difendere il nostro
benessere.
Sono diversi i viaggi descritti, diversi
i confini della “fortezza Europa”
che vengono visitati e narrati:
Ventimiglia, le isole greche e il fiume
Evros, la Bosnia con il game per
tentare di vincere l’ingresso in Italia
e in Europa; ma anche la guerra
vista sul nascere a Kiev e le frontiere
aperte da Siret in Romania
a Przemysl in Polonia. «I profughi
sono un’arma potente, più dei missili
» (p. 272); lo sanno bene Putin,
Erdogan e quanti si trovano a stringere
accordi con l’Unione Europea
o con i singoli Paesi (come l’Italia
con Libia e Tunisia): destabilizzano
la politica, condizionano l’opinione
pubblica, sono fonte di reddito.
Non hanno nomi, sono numeri da
esibire per il rimpatrio o per tornaconto
elettorale.
L’A. riesce a raccontare con tatto
le diverse storie, mettendosi a
fianco delle persone incontrate, camminando, mangiando, cantando
con loro. In questo modo
fa cogliere qualcosa che va oltre
l’apparenza, oltre pure le differenze
che esistono tra
gli ucraini in fuga
dalla guerra e gli
afghani incontrati
in Grecia o
in Serbia: così
«Julia in pochi
minuti mi insegna
una cosa:
i profughi di
guerra possono
avere anche
il giubbotto e la
borsa firmata, ma
sono i traumi che si portano
dietro a definirli, non il loro
aspetto» (p. 209). Oppure capire
che chi fa da passeur spesso è un
migrante che cerca di sopravvivere
nella fuga, mentre «da “noi”, in Europa,
la parola trafficante è solo ed
esclusivamente negativa, non pensiamo
a chi c’è dietro» (p. 102).
La delicatezza nel raccogliere la
vita di queste persone si trasforma
in una lucida riflessione sulle incoerenze
del nostro tempo e della
nostra Europa: da un lato si promuove
l’Erasmus, dall’altro si mette
il filo spinato ai confini nazionali;
da una parte non ci sono fondi per
l’accoglienza, dall’altra spendiamo milioni per finanziare Frontex o per
delegare alla Turchia il compito di
baluardo delle nostre frontiere; si
vuole esportare la democrazia ma
non accogliamo chi scappa
dalle guerre che ci
vedono a vario titolo
coinvolti.
Uno stile di
scrittura così
coinvolgente non
lascia scampo
e ci riporta alla
nostra situazione.
Siamo nati
con il passaporto
bordeaux, abbiamo
enormi possibilità che
diventano responsabilità:
utilizzare questi beni, capendo
come essere portatori di bene. Una
strada è quella di divenire consapevoli
di quanto sta accadendo.
Come spiega Mustafa: «Ho visto
persone morire, ho pensato di
morire. Viaggio con i miei figli e
i miei nipoti da anni. Siamo stati
picchiati dalle polizie di diverse
nazioni. Non mi spaventa il futuro,
vorrei solo poterne averne uno»
(p. 107). Come comprendiamo da
quanto l’A. descrive, questo futuro
lo possiamo scrivere insieme. O
perlomeno abbiamo la facoltà di
renderlo possibile.