Il Mezzogiorno d’Italia storicamente sconta una condizione di arretratezza rispetto alle Regioni settentrionali del Paese, tanto da far parlare di “Italia a due velocità”. Tassi di crescita deboli, alti livelli di disoccupazione, elevata incidenza della povertà sia relativa sia assoluta, servizi pubblici di bassa qualità: sono alcune delle caratteristiche di un’area di 21 milioni di abitanti che permane stabilmente in uno stato di crisi e di emergenza sociale. Tanti studiosi e decisori politici da tempo si interrogano su come risollevare le sorti del Meridione, proponendo orientamenti strategici che spesso sono stati tradotti in politiche di sviluppo e di coesione territoriale che non hanno sortito gli effetti auspicati.
Il libro dell’economista e statistico Pietro Massimo Busetta affronta il tema della “questione meridionale” partendo dalla constatazione di come l’Italia, continuando a mantenere il Mezzogiorno in una situazione di ritardo economico e sociale, stia entrando in una spirale negativa che conduce verso una perdita di dimensione demografica e di competitività internazionale: fattori che, inevitabilmente, incidono negativamente sulle prospettive di crescita economica del Paese.
L’A. cerca in primis di “smontare” alcuni luoghi comuni che pervadono il discorso pubblico sulla questione del sottosviluppo meridionale, alimentando una visione di questa parte del Paese come una “zavorra” dalla quale liberarsi. A suo avviso, l’Italia ha una notevole responsabilità di fronte alle perduranti condizioni di criticità alle quali è soggetta tale area, e per tale motivazione ha il dovere di risollevarne le sorti. Ciò che viene contestato è che lo Stato non abbia adottato incisive politiche per far emergere il Meridione dalle secche dell’arretratezza economica e sociale, ma si sia limitato a dar vita a un processo di sviluppo per contiguità che nel passato ha riguardato il centro Italia e che riguarderà nei prossimi decenni il nord della Puglia e della Campania, lasciando ai margini tutto il resto dell’area meridionale, con risvolti sociopolitici imprevedibili. In particolare, l’A. ritiene che non siano state investite risorse finanziarie sufficienti per generare crescita economica, né cercate soluzioni alternative come l’attrazione di investimenti dall’estero. Inoltre, un ulteriore errore rilevato è quello di aver ritenuto che la responsabilità e l’onere del processo dovessero ricadere sulle classi dirigenti locali; ma «[...] Era evidente che le classi dirigenti del Sud non potessero essere all’altezza di condurre un simile processo, o addirittura non volessero perché detentori di rendite di posizione che non desideravano perdere» (p. 25).
Evidenziata la necessità di intervenire con incisività per fermare quello che sembra essere l’inarrestabile declino di un’area del Paese che dispone di importanti risorse naturali, ambientali, culturali e umane, e che potrebbe essere driver di un nuovo rinascimento italiano, il libro pone particolare attenzione nell’individuare quali possano essere i pilastri di una virtuosa strategia di sviluppo in grado di valorizzare l’enorme potenziale sociale ed economico del Mezzogiorno. Il presupposto necessario di una efficace strategia di intervento viene individuato nella necessità di considerare tale area come un unicum e non come una realtà territoriale eterogenea. Per provare tale assunto, l’A. ricorre allo strumento statistico dell’analisi cluster, che gli permette di evidenziare come «Il Mezzogiorno sia una realtà omogenea, sottosviluppata, non infrastrutturata, con processi di spopolamento, con un reddito pro-capite pari alla metà di quello nazionale e un quarto di quello lombardo-veneto» (p. 9). Pensare quindi a un approccio sistemico analogo a tutta la realtà meridionale è considerato logico e opportuno, purché ci si discosti da quella logica assistenzialistica e clientelare che ha caratterizzato molte delle iniziative passate, le quali hanno condotto a effetti perversi che, invece di generare uno sviluppo economico autonomo e sostenibile, hanno accresciuto la dipendenza dagli interventi pubblici.
Una delle problematiche maggiormente sentite dalla popolazione meridionale è quella relativa alla mancanza di occupazione, dovuta a un mercato del lavoro stagnante. Nel testo si puntualizza come l’indicatore del numero di occupati rispetto alla popolazione complessiva esprime la capacità del territorio di dare risposte ai propri abitanti e un suo miglioramento porta all’eliminazione del fenomeno dell’emigrazione, che impoverisce i territori che la subiscono. Con riferimento a tale indicatore, nel testo viene proposto un benchmarking con quella che viene considerata dall’A. la Regione italiana più avanzata: l’Emilia Romagna. Da tale analisi emerge come «volendo oggi riportare il Mezzogiorno al rapporto occupazionale presente in Emilia Romagna, bisognerebbe elevare il numero di occupati complessivi da 6.000.000 a 9.030.000, con l’esigenza di un saldo occupazionale pari a circa 3.000.000 di unità» (p. 14).
Una strategia credibile per un impegno definito “epocale” dall’A. – che consentirebbe di portare a compimento il processo di sviluppo del Mezzogiorno e, di conseguenza, di soddisfare i fabbisogni occupazionali accennati in precedenza – deve avere, a suo parere, come obiettivo prioritario l’attrazione di investimenti dall’estero. A tal fine, oltre ad assicurare le condizioni di Stato minimo attraverso un’adeguata infrastrutturazione del territorio, l’assenza di criminalità organizzata, una burocrazia efficiente e un costo del lavoro competitivo, un passo necessario è stabilire delle “Zone economiche speciali” (ZES), ovverosia territori dotati di una legislazione economica differente dal resto del territorio nazionale, volta a stabilire una fiscalità di vantaggio, un cuneo fiscale differenziato e norme amministrative semplificate. Tali realtà dovrebbero avere specifiche vocazioni – alimentari, turistiche, industriali – in base alle specificità del territorio, ponendosi come un volano per il rilancio del Mezzogiorno. Esse, quindi, potrebbero rappresentare un’importante opportunità per la valorizzazione del potenziale endogeno delle Regioni meridionali, che deve rappresentare una priorità per un Paese che «con queste differenze territoriali rischia di non riuscire a rimanere unito» (p. 111). Alla luce di tali considerazioni, l’A. conclude la sua opera ponendo in risalto come l’Italia si trovi di fronte a un bivio: «o digerisce il boccone, che con protervia, arroganza e scarsa visione, ha inghiottito senza mettere in atto le politiche per unificarlo davvero, oppure affogherà come quel coccodrillo che uccide e poi cerca di mangiare un bue troppo grande e muore perché incapace di digerirlo» (p. 111).
In base a quanto illustrato, appare evidente come l’A. si ponga l’ambizioso obiettivo di riaccendere l’attenzione sulla questione meridionale, analizzandola attraverso un’interessante prospettiva di analisi, in modo da alimentare un dibattito che negli ultimi anni sembra essersi leggermente sopito. Il pregio del libro è certamente quello di non limitarsi a formulare una diagnosi dei mali che affliggono il Mezzogiorno, ma di articolare interessanti proposte di intervento, basate su una visione non convenzionale di politica dello sviluppo, che potrebbero porre quelle condizioni necessarie per valorizzare le vocazioni ancora inespresse del territorio meridionale, rispettandone le peculiarità economiche, sociali e culturali. L’auspicio, più volte ribadito, è che il l’Italia meridionale possa effettivamente divenire il motore del rilancio economico del Paese, attraverso la promozione di uno sviluppo autonomo e sostenibile che invece di essere relegato ai margini delle linee programmatiche formulate dalle autorità governative, come è avvenuto in epoca recente, rappresenti un obiettivo prioritario e imprescindibile dell’agenda politica nazionale.