Il 6 luglio scorso la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo ha respinto la richiesta di revisione della decisione del 5 giugno, presentata dai genitori di Vincent Lambert, il giovane tetraplegico francese al centro di una controversia tra i suoi parenti, divisi sulla decisione di sospendere l’alimentazione forzata e così praticamente condannarlo a morte.
I genitori agivano a termini dell’articolo 80 del Regolamento della Corte, secondo il quale, «se emerge un fatto che, per la sua natura, avrebbe potuto influenzare in modo decisivo l’esito di una causa già definita e che, all'epoca della sentenza, era sconosciuto alla Corte e non poteva ragionevolmente essere conosciuto da una delle parti, quest'ultima può, entro il termine di sei mesi a decorrere dal momento in cui ha avuto conoscenza del fatto scoperto, presentare alla Corte una richiesta di revisione della sentenza stessa».
La Corte ha ritenuto che nessuno dei “nuovi” elementi addotti avesse influenzato “in modo decisivo” la decisione dello scorso giugno e ha pertanto respinto la richiesta di revisione.
Le sorti del giovane Lambert, tetraplegico dal 2008 in seguito a un incidente automobilistico, appassionano la pubblica opinione, non solo in Francia. Il caso crea grande interesse ed emozione, perché, come accade spesso in situazioni comparabili, ai genitori e a due dei fratelli - i quali sostengono non solo la necessità di proseguire nell’alimentazione forzata ma che addirittura il giovane mostrerebbe segni di recupero - si contrappongono la moglie di lui e altri fratelli e sorelle che sostengono che lo stesso Vincent, se potesse esprimersi, rifiuterebbe quello che essi ritengono un crudele accanimento terapeutico.
Il 5 giugno scorso con una decisione a maggioranza (dodici a cinque) la Grande Camera (Lambert e altri contro Francia, ricorso n. 46043/14) aveva ritenuto che la sospensione dell’alimentazione forzata non potesse essere considerata eutanasia e che pertanto la decisione del Consiglio di Stato francese che la autorizzava non violava l’articolo 2 della Convenzione che protegge il diritto alla vita. La minoranza dei giudici contrari aveva invece argomentato che l’alimentazione forzata non potrebbe essere considerata accanimento terapeutico, ma l’assolvimento di un elementare dovere di umanità nei confronti di un soggetto incapace di provvedere da solo alla propria alimentazione.
È difficile dire parole ultimative sul punto, come prova il fatto che diverse corti in differenti Paesi del mondo hanno raggiunto decisioni diverse. Resta il fatto però che la Corte europea appare troppo incline (e non è la prima volta, ricordiamo ad esempio la decisione sul caso Stamina resa il 6 maggio 2014) a valutare formalisticamente le procedure interne e troppo pronta ad accontentarsi di garanzie formali offerte dalla procedura interna.
Deludendo così le aspettative di quanti, forse troppo ottimisticamente, si attendono dalla Corte una parola ulteriore rispetto agli esiti processuali delle vicende giudiziarie interne.
Ma, come abbiamo più volte chiarito anche dalle pagine di questo blog, da Strasburgo possono venire stimoli e aperture, ma non sempre e facilmente una visione europea dei problemi, autonoma e compaginata, indipendente dalle posizioni dei singoli Stati. Cosa che è vera in generale per tutte le elaborazioni internazionalistiche in materia di diritti umani (si vedano i commenti critici contenuti nel discorso pronunciato dal Santo Padre Benedetto XVI il 18 aprile 2008 davanti all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite riprodotto anche in
Aggiornamenti Sociali, 2008, p. 459 ss.), ma che assume contorni particolarmente evidenti nella giurisprudenza della nostra Corte.