Idoli

Le caratteristiche di ogni idolo. L'idolo come risposta ai bisogni. L'idolo sempre presente
Fascicolo: luglio-agosto 2011
Tags: BIBBIA ; IDOLATRIA

La tradizione biblica non conosce l'opposizione (moderna) tra religione e ateismo, bensì quella tra fede e idolatria (cfr Giosuè 24, 14-18). In questa prospettiva - conviene precisarlo subito - ciò che risulta determinante non sono le dichiarazioni verbali (il dirsi credente o non credente), ma la vita vissuta. È nelle scelte concrete e nello stile delle relazioni che si manifesta se si onora Dio o se si venerano gli idoli di turno. Così, ci può essere chi a parole si professa credente ma, di fatto, pensa e agisce mosso dal culto della propria immagine. Si pensi alle lunghe descrizioni evangeliche di tutti coloro che ostentano la propria religiosità, ma poi ricercano i primi posti (cfr Matteo 23, 5-7), sono attaccati al denaro (cfr Luca 16, 14), cercano la propria gloria (cfr Giovanni 5, 14). Con la bocca dicono «Signore, Signore», ma il loro cuore è altrove (cfr Matteo 7, 21). Al contrario, chi, pur non riconoscendo l'esistenza di Dio, ricerca onestamente la giustizia, può sentirsi dire: Non sei lontano dal Regno di Dio (cfr Marco 12, 34). Secondo la Scrittura, dunque, è l'idolatria a costituire la vera alternativa alla fede. Un'alternativa che attraversa il cuore di ogni uomo. Ne risulta che l'idolo può trovarsi nei paraggi del Tempio, ma può insediarsi anche nel palazzo di chi si professa ateo e nella casa di chi ostenta la propria laicità. Così come il vero Dio può essere dimenticato da chi porta la tonaca e venire accolto da chi è considerato un miscredente.

Le caratteristiche di ogni idolo

Isaia 44, 13-17
13 Il falegname stende la corda, disegna l'immagine con lo stilo; la lavora con scalpelli, misura con il compasso, ripro-ducendo una forma umana, una bella figura d'uomo da mettere in un tempio. 14 Egli si taglia cedri, prende un cipresso o una quercia che aveva fatto crescere robusta nella selva; pianta un alloro che la pioggia farà crescere. 15 L'uomo ha tutto ciò per bruciare; ne prende una parte e si riscalda o anche accende il forno per cuocervi il pane o ne fa persino un dio e lo adora, ne forma una statua e la venera. 16 Una parte la brucia al fuoco, sull'altra arrostisce la carne, poi mangia l'arrosto e si sazia. Ugualmente si scalda e dice: «Mi riscaldo; mi godo il fuoco». 17 Con il resto fa un dio, il suo idolo; lo venera, lo adora e lo prega: «Salvami, perché sei il mio dio!».

Fatte queste precisazioni, possiamo sviluppare la nostra riflessione provando a riflettere sulla natura dell'idolatria, di cui possiamo distinguere tre componenti essenziali, presenti in ogni manifestazione idolatrica: l'idolo è opera di mani d'uomo; tutto viene sacrificato all'idolo; nell'idolo viene riposta una fiducia totale.
Prima componente: l'idolo è opera di mani d'uomo. È quanto mette chiaramente in luce il testo di Isaia 44, 9-17, in cui il profeta si sofferma a lungo a descrivere il lavoro spossante dei fabbricanti di idoli. A questo riguardo, merita sottolineare come - molto prima che i cosiddetti «maestri del sospetto» (Marx, Nietzsche e Freud) smascherassero tutta una pratica religiosa, facendone emergere l'origine «umana, troppo umana» - la Scrittura denunciava già l'inconsistenza degli idoli, mostrando come tanta religiosità altro non sia che una mera costruzione umana.
Una seconda componente consiste nel fatto che tutto viene sacrificato all'idolo: energie, beni, tempo e, alla fine, la stessa vita, come illustra drammaticamente la pratica, diffusa nel Vicino Oriente antico, di sacrificare i figli alla divinità. Famoso era il dio fenicio Moloc, sul cui altare i fanciulli venivano fatti passare attraverso il fuoco, venivano cioè bruciati. Un rito barbaro, condannato dalla legislazione biblica (ad esempio in Levitico 18, 21 e 20, 2-5), ma che finì per essere praticato anche in Israele (cfr 2 Re 16, 3; 21, 6). Lo sconcerto che si prova di fronte a una pratica tanto aberrante non deve fare dimenticare che gli idoli esigono sempre sacrifici di sangue e che, anche oggi, tante giovani vite vengono bruciate sugli altari del mercato, del consumo, del successo, «valori» considerati indiscutibili e intoccabili. Significativamente, il nome di Moloc è utilizzato ancora nella nostra cultura «per indicare ciò che richiede un sacrificio in nome di un interesse superiore, come ad esempio il patriottismo distorto o la produzione messa al di sopra di tutto. Il sacrificio è spesso quello della vita, e della vita dei più giovani; e spesso è l'autorità che lo esige, in nome di valori considerati sacri» (BEAUCHAMP P., All'inizio Dio parla, AdP, Roma 1992, 107).
La terza e ultima componente consiste in questo: nell'idolo viene riposta una fiducia totale. È quanto risulta dal passo di Sapienza 13, 10: Infelici coloro che, riponendo le loro speranze in ciò che è morto, chiamarono dèi l'opera di mani d'uomo. Ugualmente esplicito è il testo di Isaia 44, 17: l'uomo fa un dio, il suo idolo; lo venera, lo adora, lo prega: «Salvami, perché sei il mio dio!». Qualunque realtà, nella misura in cui assurge a strumento e luogo di salvezza, può trasformarsi in idolo. Ne consegue che il fenomeno idolatrico può assumere molteplici manifestazioni storiche. Può riguardare il potere economico e politico, un'ideologia, un'istituzione (anche religiosa). Si pensi, ancora, alla celebrazione del prestigio sociale, del successo, della prestanza fisica. Verso queste realtà si porta un «religioso» rispetto, ad esse si finisce per sacrificare tutto, nella illusoria speranza che possano garantire una sicurezza duratura. Di fatto, ciò che si ottiene è disgregazione e morte. C'è, infatti, una stretta connessione tra pratica idolatrica e corruzione della vita (Sapienza 14, 12). Lo stesso libro della Sapienza sentenzia senza mezzi termini: L'adorazione di idoli innominabili è principio, causa e culmine di ogni male (14, 27).

L'idolo come risposta ai bisogni

La Scrittura riconosce un processo caratteristico di assimilazione tra la persona umana e ciò che pone a fondamento della sua esistenza. Scegliendo di prostrarsi di fronte all'idolo di turno, l'uomo opta per una illusione alienante, come accadde ai figli di Israele, che seguirono le vanità e divennero vanità (Geremia 2, 5). Di fronte a un «culto» dagli esiti tanto devastanti, come si spiega il sorgere dell'idolatria? Qual è il motivo di una pratica tanto dissennata? Certamente l'idolo sembra una possibile risposta alla difficoltà dell'uomo ad accettare la sua condizione segnata dal limite e dalla dipendenza. Per questo egli tenta di disporre di una «potenza» che offra garanzie tangibili per il futuro. Volendo sfuggire alla propria fragilità costitutiva, si fabbrica un dio in cui venera ciò che gli appare «bello, forte, piacevole e rassicurante» (BOVATI P., Il libro del Deuteronomio [1-11], Città Nuova, Roma 1994, 121). Idolatria e culto della forza vanno di pari passo. Merita, a questo proposito, riportare per esteso quanto scrive lo stesso Bovati: «Quando l'uomo costruisce un idolo, porta Dio dalla sfera dell'invisibile a quella del visibile, dalla sfera del mistero originario e incomprensibile a quella di una realtà con cui si possono fare i conti, un oggetto da esibire e da esaltare, un oggetto da venerare solo perché in esso si venera se stessi e la propria immaginaria potenza» (ivi, p. 50). Risiede qui la ragione per cui «il cuore umano fa convivere Dio accanto a qualcosa d'altro, un'altra "potenza" che completa e garantisce in modo più sicuro ciò che si desidera. JHWH e Baal, Dio e Mammona, il Signore e le altre cose di questo mondo» (ivi, p. 84).
È un rischio ricorrente: siamo portati a ridurre Dio all'immagine che noi ci facciamo di ciò che è apportatore di prosperità e garanzia di vita per il domani. Tendenzialmente cerchiamo in Dio una vicinanza protettiva, che offra una sicurezza facile e, nello stesso tempo, una presenza forte, che ci esima dall'affrontare le contraddizioni e le difficoltà storiche. E, infatti, che cos'è un idolo «se non ciò che ci rimanda alle nostre idee mitiche di potere e di onnipotenza, di trasparenza? I falsi dei sono gli dei che si possono far propri, che è possibile volgere al proprio servizio, perché sono in grado di risolvere ogni prova magicamente e senza fatica» (GESCHÉ A., Dio per pensare, II. L'uomo, San Paolo, Cinisello Balsamo [MI] 1996, 22).
L'uomo fabbrica un idolo perché pensa gli possa garantire un futuro sicuro. Di fatto, come è già stato rilevato, quel che ottiene è schiavitù e morte. Paradossalmente, diventa schiavo di ciò che ha fabbricato perché fosse al suo servizio! Si può dire che «il rendersi schiavo con le proprie mani è una delle migliori definizioni dell'idolatria» (BEAUCHAMP P., All'inizio Dio parla, cit., 65).

L'idolo sempre presente

Daniele 2, 31-35
31 Tu stavi osservando, o re, ed ecco una statua, una statua enorme, di straordinario splendore, si ergeva davanti a te con terribile aspetto. 32 Aveva la testa d'oro puro, il petto e le braccia d'argento, il ventre e le cosce di bronzo, 33 le gambe di ferro e i piedi in parte di ferro e in parte d'argilla. 34 Mentre stavi guardando, una pietra si staccò dal monte, ma senza intervento di mano d'uomo, e andò a battere contro i piedi della statua, che erano di ferro e d'argilla, e li frantumò. 35 Allora si frantumarono anche il ferro, l'argilla, il bronzo, l'argento e l'oro e divennero come la pula sulle aie d'estate; il vento li portò via senza lasciare traccia, mentre la pietra, che aveva colpito la statua, divenne una grande montagna che riempì tutta la terra

Se questo è vero, non si può evitare una nuova domanda: come mai l'idolatria, sotto forme diverse, continua a riproporsi nella storia? Come mai gli idoli trovano sempre nuovamente schiere di «fedeli» pronte a venerarli e a sacrificare tutto per propiziarseli? Una risposta illuminante ci viene suggerita dal testo di Daniele 2, 31-35. Esso fa parte dell'unità costituita dal capitolo secondo, in cui Daniele viene presentato come colui che, grazie alla sapienza donatagli da Dio, è in grado di interpretare un sogno enigmatico avuto dal re di Babilonia Nabucodonosor. Il sogno ha per oggetto una statua, con la testa d'oro e i piedi in parte di ferro e in parte di argilla, raffigurazione del potere politico trasformato in idolo, a cui si deve obbedienza assoluta.
Qui interessa fermare l'attenzione su due caratteristiche della statua, risultanti dalla descrizione contenuta nel brano indicato sopra, dato che esse si rivelano tipiche di ogni fenomeno idolatrico. La prima è la bellezza (di straordinario splendore). L'idolo è bello a vedersi, è attraente. Gioca sulla seduzione, promette un futuro straordinario. L'uomo è indotto a pensare: «Se lo seguo sarò felice!». La seconda caratteristica è la forza (una statua enorme... con terribile aspetto). L'idolo è forte, è imponente. Gioca sulla paura, minaccia un futuro disastroso. L'uomo è spinto a pensare: «Se non lo seguo, che cosa mi capiterà?». Queste due caratteristiche fondamentali rendono ragione del perché l'uomo si renda schiavo degli idoli di turno: egli è sedotto dallo splendore e soggiogato dalla potenza. Si pensi, per fare un esempio, alla forza di seduzione che esercitavano e, contemporaneamente, al timore che incutevano le imponenti parate militari che si svolgevano in Germania durante il nazismo o in Cina sotto il regime di Mao Tse-Tung.
Subito dopo la descrizione della statua, il testo di Daniele parla di una pietra che, senza intervento di mano di uomo (v. 34), ne colpisce i piedi di argilla, frantumandoli. L'intera statua crolla, è ridotta in polvere e di essa non resta traccia alcuna. La pietra rimanda all'azione di Dio nella storia, un'azione che parrebbe modesta e inefficace, data la sproporzione tra le dimensioni della pietra e quelle, enormi, della statua. Invece, la pietra è sorprendentemente in grado di colpire la statua nel suo punto debole. Fuori di metafora, ci viene ricordato che Dio è all'opera dentro le vicende del mondo per smascherare i piedi di argilla degli idoli. Attraverso la sua Parola e i suoi testimoni, egli mostra come sotto l'esteriore bellezza si celi la menzogna e sotto la ostentata potenza si celi la violenza. Viene così messo in luce come l'idolo si fondi, in primo luogo, su una menzogna. Esso poggia su una visione distorta del reale, la quale si afferma all'interno dell'uomo, prima ancora di venire adorata esteriormente.
È nel cuore, infatti, che si fa strada il culto della forza, del potere, del primato, pensando (ingannandosi) che tutto ciò faccia vivere. Diventa chiaro, in secondo luogo, il fatto che l'idolo si fonda sulla violenza. A questo riguardo, una conferma inequivocabile ci viene offerta dal «vitello d'oro» del capitolo 32 di Esodo, il paradigma tipico del culto idolatrico in Israele. Si tratta, a ben vedere, di un giovane toro, immagine chiara della forza bruta. Esso, infatti, simboleggia, attraverso il suo sesso, la potenza virile di riproduzione e, attraverso le corna, la forza nel combattimento (cfr BEAUCHAMP P. - VASSE D., La violence dans la Bible, Ed. du Cerf, Paris 1991, 16). Adorando il torello che hanno fabbricato, gli israeliti non fanno altro che onorare ed esaltare la violenza. Ogni potere dispotico manifesta i caratteri dell'idolo, che pretende di essere necessario nella sua carica violenta mascherata di bellezza; la lotta biblica contro l'idolatria assume così il suo più autentico significato nel suo appello per la libertà e la dignità umane.

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