Il 12 e 13 giugno gli italiani sono chiamati a una consultazione referendaria. Nel momento in cui scriviamo, quattro sono i referendum abrogativi su cui votare: due sull'acqua come bene pubblico, uno sulla produzione di energia nucleare in Italia e l'ultimo sul legittimo impedimento a comparire in udienze processuali per il Presidente del Consiglio e i ministri (cfr riquadro a p. 407).
I quattro referendum sono oggetto di tortuose vicissitudini e vive polemiche. Il Governo ha fatto un esplicito tentativo di «disinnescare» i prime tre, avendo forse in mente il quarto. Ha così introdotto l'istituzione dell'Agenzia nazionale di vigilanza sulle risorse idriche (nel D.L. n. 70/2011, art. 10, c. 11-28), cui sono affidate le funzioni di regolazione, soprattutto tariffaria, del nuovo sistema di gestione dell'acqua, sostenendo che questo rappresenti una tutela dei consumatori migliore di quella che si avrebbe nel caso di abrogazione delle norme oggetto di referendum. Inoltre è intervenuto dapprima con una moratoria del programma nucleare, trasformata poi nell'abrogazione delle norme oggetto di referendum (D.L. 34/2011, art. 5); dopo l'approvazione del Senato, il decreto è all'esame della Camera, dove il Governo sembra intenzionato a porre la questione di fiducia. La ragione fornita per questo cambio di rotta è che un referendum sull'onda dell'emozione suscitata dal disastro di Fukushima avrebbe compromesso la libertà di giudizio degli elettori ed eliminato per il futuro la possibilità di ricorrere all'energia nucleare, ritenuta comunque un «destino ineluttabile».
Questi interventi hanno reso necessario il pronunciamento dell'Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione, non ancora arrivato mentre scriviamo. Ne è risultato comunque un ritardo importante per la pubblicizzazione della consultazione referendaria, poiché gli ordinari strumenti di comunicazione (tribune e spot elettorali) non possono essere attivati nell'incertezza della sua celebrazione.
Inevitabili le reazioni e le polemiche da parte delle opposizioni politiche e dei promotori dei referendum, alcuni dei quali hanno osservato: «La tattica è [...] creare confusione nell'opinione pubblica, lanciando il messaggio che recarsi alle urne è inutile perché il Governo è già intervenuto» (BUZZANICA S., «Acqua, un'Authority contro il referendum», in Corriere della Sera, 6 maggio 2011).
Strategia di educazione politica o manipolazione populista? In un periodo di forte contrapposizione, non è facile rispondere senza lasciarsi influenzare dal proprio orientamento politico. Riteniamo comunque che questi scontri e scetticismi invitino a riflessioni di fondo sull'istituto referendario e che le sue vicissitudini siano state e siano oggi una interessante spia del funzionamento della nostra democrazia. In questa prospettiva si può meglio comprendere l'importanza di votare per i prossimi referendum e il senso del nostro invito a parteciparvi.
1. Il referendum nel nostro ordinamento
L'istituto referendario trova collocazione nell'ordinamento della Repubblica, che ne prevede varie forme, con regole ed effetti diversi: quello confermativo delle riforme costituzionali (art. 138 Cost.), quello abrogativo di disposizioni di legge (art. 75 Cost.), quello per l'istituzione di nuove Regioni o la modifica dei confini regionali (art. 132 Cost.). Con crescente frequenza, poi, gli enti locali ricorrono a referendum consultivi. In questa sede la nostra riflessione riguarda esclusivamente il referendum abrogativo.
a) Uno strumento di «partecipazione diretta» in un contesto «rappresentativo»
Se «la sovranità appartiene al popolo» (art. 1 Cost.), la Costituzione sceglie che esso la eserciti quasi esclusivamente attraverso la mediazione di rappresentanti, privilegiando la democrazia rappresentativa rispetto a forme di democrazia diretta. Il principale strumento della rappresentanza è il Parlamento, formato da rappresentanti eletti, della cui fiducia deve godere il Governo e a cui compete l'elezione del Presidente della Repubblica. In un contesto istituzionale di questo tipo, il referendum, istituto di democrazia diretta, si innesta in maniera particolare tra le forme di esercizio della sovranità popolare. Con caratteri, limiti ed effetti del tutto peculiari - se non addirittura unici, a paragone di altri Paesi -, si presenta con una doppia faccia: da una parte esso è volto a dare uno spazio di partecipazione politica diretta, dall'altra permette in qualche modo un controllo da parte degli elettori sull'operato degli eletti. Il referendum è quindi un originale strumento istituzionale con cui il popolo interviene, decidendo direttamente le sorti di un frammento dell'ordinamento giuridico e correggendo eventuali distonie tra il proprio orientamento e le scelte degli organi rappresentativi.
L'incertezza o le resistenze dei legislatori di fronte a questo strumento «fuori coro» si possono ravvisare nelle disposizioni confezionate per depotenziarne la rilevanza, riducendone allo stesso tempo tanto il possibile uso scriteriato e su materie secondarie, quanto il ruolo di strumento di partecipazione consapevole.
L'art. 75 Cost., che disciplina il referendum, introduce infatti una serie di «paletti». Innanzitutto il voto popolare può intervenire solo in negativo, cioè per «l'abrogazione, totale o parziale di una legge o di un atto avente valore di legge» e non come strumento di produzione legislativa. La richiesta di indire referendum, poi, deve provenire da almeno 500mila elettori o, in alternativa, da 5 Consigli regionali. Inoltre, affinché la consultazione referendaria ottenga l'effetto abrogativo, occorre che vi partecipi la maggioranza degli aventi diritto - il famoso quorum del 50% più uno - e che la maggioranza dei voti espressi sia favorevole all'abrogazione. Infine si vogliono proteggere talune leggi «strutturalmente» impopolari, per cui non è possibile sottoporre a referendum le «leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali».
Ulteriori limitazioni sono poste dalla legge di attuazione, che, a dimostrazione dello scarso entusiasmo a riguardo, fu promulgata solo nel 1970 (L. n. 352/1970): il complesso iter di approvazione di un referendum richiede, tra l'altro, un giudizio di legittimità del quesito da parte dell'Ufficio centrale per il referendum della Corte di Cassazione e un giudizio di ammissibilità da parte della Corte Costituzionale. Sono definiti anche limiti temporali precisi per la raccolta e la presentazione delle firme e per la fissazione della data di celebrazione della consultazione. Nel caso poi in cui il referendum dia esito sfavorevole all'abrogazione (ma non in quello in cui non si raggiunga il quorum), per 5 anni sulla medesima legge non è possibile proporre ulteriori referendum.
Se le norme oggetto di referendum sono abrogate o modificate prima del voto, l'Ufficio centrale ne impedisce lo svolgimento, a condizione che si tratti di un intervento sostanziale e non meramente formale.
b) Il senso del referendum
In prima battuta, il ricorso al referendum sembra evidenziare uno strappo nel rapporto di fiducia tra il popolo e i suoi rappresentanti. Si possono così capire in maniera più profonda le resistenze nei confronti del referendum di un sistema costituzionale come il nostro, improntato alla logica parlamentare: esso rompe con l'orientamento fondamentale alla mediazione legato alla centralità del ruolo del Parlamento, inteso quale luogo in cui le diverse forze politiche si incontrano, discutono e, al termine, decidono. La logica che anima la Costituzione prevede di giungere alle decisioni solo dopo un ampio confronto, in cui possano prendere corpo le necessarie mediazioni tra posizioni differenti. Basti pensare alla duplicazione dell'iter di approvazione di una legge nelle due Camere; al ruolo delle commissioni parlamentari, che in piccoli gruppi esaminano e talora decidono sui progetti di legge; al ruolo super partes e di garanzia del Presidente della Repubblica; e, infine, alla legge elettorale proporzionale, successivamente abbandonata, la cui dinamica scoraggia l'opposizione frontale tra partiti o «poli». È evidente che, in un sistema congegnato per rallentare i processi decisionali, dando loro il tempo di maturare, il referendum costituisce uno strumento anomalo: per sua natura, infatti, esso determina una decisione immediata e stabilisce vincitori e vinti, perdendo la possibilità stessa di operare mediazioni.
In realtà, senza negare la sua funzione di controllo, non si può ridurre il referendum alla mera constatazione di una tensione tra la volontà del popolo e le scelte dei suoi rappresentanti. Nella pratica esso offre la possibilità, per quanto limitata a casi eccezionali, di porre rimedio a quello scollamento, modificando la legislazione. Nei casi migliori, poi, il referendum può determinare un rimescolamento degli schieramenti politici, permettendo un convergere di consensi che difficilmente si realizzerebbe nelle sedi istituzionali, rendendo possibile una decisione difficile senza che per forza si spacchi la coalizione di maggioranza.
2. Pratiche di referendum
Fino al 1970 l'istituto referendario non viene neppure regolamentato, mentre successivamente il suo utilizzo si impenna: 3 referendum negli anni '70, 11 negli anni '80, 32 negli anni '90 e 16 a partire dal 2000 (esclusi i quattro previsti quest'anno). Non mancano ombre e difficoltà: dalla parte del popolo disaffezione, da quella dei Governi neutralizzazione, da quella dei promotori manipolazione.
a) Disaffezione e astensionismo
Dal 1997 nessun referendum abrogativo ha più ottenuto il quorum, precedentemente sempre raggiunto, con l'eccezione di quelli su caccia e pesticidi del 1990. Tra le cause dell'allontanamento dei cittadini, si può segnalare in primo luogo la disaffezione al voto, che interessa anche le elezioni politiche e amministrative, legata al frequente svolgimento delle consultazioni, soprattutto negli anni '90, e al montare della marea «antipolitica». In seconda battuta, va menzionata la crescente difficoltà degli elettori a destreggiarsi tra quesiti abrogativi sempre più complicati e tecnici, riguardanti delicate questioni etiche o politiche per molti incomprensibili e recanti il rischio di semplificazioni inaccettabili.
A ciò deve aggiungersi un elemento «strategico» a cui, secondo parte della dottrina, vanno attribuite le maggiori responsabilità per l'esaurimento della spinta referendaria, e cioè l'uso ostruzionistico dell'astensione. Certo, è innegabile che i ripetuti inviti a disertare le urne e l'abbandono progressivo della dialettica «sì/no» in favore della tattica astensionista come strumento oppositivo al referendum abbiano contribuito a deteriorare il rapporto tra il popolo e questo tipo di votazione.
b) Le strategie di neutralizzazione da parte del Governo
Lavorare contro il raggiungimento del quorum è di fatto la via più efficace per chi vuole opporsi a un referendum, grazie a quel 20-30% di astensione che caratterizza ogni elezione. In questo senso un referendum promosso come plebiscito contro la maggioranza governativa ha minime possibilità di successo, perché deve convincere una grande parte degli elettori della parte avversa ad andare a votare. Così, in un contesto maggioritario e in una fase di astensionismo crescente, il referendum non può essere un'arma dell'opposizione per scalzare chi governa. Al massimo è un'arma spuntata, che qualsiasi Governo in salute è in grado di disinnescare.
Accanto all'astensionismo, i Governi hanno seguito la strategia dello sviamento: di fronte a questioni per le quali l'orientamento prevalente dell'opinione pubblica sembrava favorevole ai promotori delle iniziative referendarie, hanno evitato lo scontro aperto e il rischio della sconfitta, salvo approvare, dopo la vittoria referendaria, nuove leggi che vanificano in tutto o in parte l'esito del voto popolare, com'è accaduto ad esempio in tema di responsabilità civile dei magistrati con la cosiddetta Legge Vassalli (L. n. 117/1988) e di finanziamento pubblico ai partiti politici dopo il referendum del 1993. Ci sono state anche modalità di resistenza ancora più radicali da parte dei governanti: ad esempio guadagnare tempo con lo scioglimento anticipato delle Camere per rinviare i referendum e consentire ai partiti di trovare una mediazione legislativa, come avvenne nel 1972 in vista del referendum sul divorzio, che ebbe poi luogo nel 1974.
c) Abusi e manipolazioni dei promotori
Parallelamente anche i promotori hanno a volte abusato del referendum, tanto che l'istituto, nato con caratteri di puntualità ed eccezionalità, appare snaturato da un uso eccessivo o distorto. I primi anni evidenziano un uso politico-plebiscitario da parte di forze della maggioranza parlamentare, inteso a rafforzare le posizioni dei proponenti sulla scorta del consenso popolare all'iniziativa referendaria. Ancora oggi c'è chi collega l'abuso dei referendum a fenomeni di neopopulismo che si avvarrebbe di plebisciti, sotto forma di referendum, per ricevere una investitura diretta.
Negli anni '90, invece, si è assistito a un intento marcatamente propositivo estraneo alla logica propria dell'istituto, soprattutto a iniziare dai referendum sul sistema elettorale. Attraverso una accurata selezione delle parti di testo da abrogare, si ottiene l'effetto di trasformare il referendum da abrogativo a propositivo, alterando il significato complessivo del testo di legge nella direzione desiderata. Si tratta di un uso strumentale del referendum per attrarre l'attenzione dei cittadini e indurre il Parlamento a legiferare sulla base dell'intenzione dei promotori, forzando la natura dell'istituto. Altre volte questo risultato «manipolativo» è ottenuto attribuendo un significato politico globale a referendum che investono disposizioni aventi in sé un valore ridotto.
3. Andare al voto oggi
Il referendum si situa oggi in un contesto molto diverso da quello in cui è stato pensato. Alcuni cambiamenti sono frutto di precedenti referendum, usati per rompere l'impasse di una mediazione politica estenuante e poco efficace; in particolar modo i referendum elettorali, con l'introduzione della preferenza unica e del sistema maggioritario, hanno contribuito a far saltare la logica proporzionalista su cui si basava il nostro sistema. Altri cambiamenti sostanziali sono: la crisi della democrazia rappresentativa, tra l'altro peggiorata dall'abolizione delle preferenze nella legge elettorale vigente; l'impoverimento del confronto politico a vantaggio di slogan, attacchi personali e denigrazione degli avversari; la riduzione dell'importanza del Parlamento e della mediazione che ne costituisce il ruolo proprio.
In un contesto così cambiato, lo strumento referendario mostra le sue difficoltà a mantenere un ruolo di correttivo e di stimolo nei confronti della democrazia rappresentativa. Al di là dei temi trattati, le consultazioni del 12-13 giugno rappresentano una scommessa sulla tenuta del referendum: un successo in termini di adesione potrebbe contribuire al suo rilancio, mentre l'ennesimo mancato raggiungimento del quorum potrebbe sancirne la definitiva crisi. Questo propone due sfide che il nostro Paese deve affrontare per un progresso politico e civile.
a) L'urgenza di trovare nuove forme di democrazia diretta. La crisi in cui versa la nostra democrazia segnala l'opportunità di trovare forme di democrazia diretta (partecipativa, deliberativa) che aiutino a mantenere viva quella rappresentativa, interrompendo il cortocircuito della delega senza assunzione di responsabilità da parte dei deleganti come dei delegati. Occorre però che si tratti di elementi di democrazia diretta non populista e manipolativa; nonostante le nuove tecnologie la agevolino, la democrazia partecipativa e deliberativa (cfr LEWANSKI R., «La democrazia deliberativa. Nuovi orizzonti per la politica», in Aggiornamenti Sociali, 12 [2007] 743-754; ID. ET AL., «Una prova globale di democrazia deliberativa», ivi, 2 [2010] 127-137), resta una possibilità minoritaria che, per quanto preziosa, non può sostituire quella rappresentativa. Con questo non si vogliono sottovalutare le decisioni deliberative, che possono avere effetti pedagogici e fungere da stimolo per la ricerca di una democrazia di maggior qualità. La partecipazione costante stimola, garantisce, controlla la qualità della rappresentanza.
b) Rivitalizzare il referendum. È uno strumento con dei limiti - lo abbiamo visto - ma è già sperimentato e soprattutto già esiste. È importante utilizzarlo al meglio, senza farsi fermare dalle possibili ambiguità, soprattutto se in gioco ci sono orientamenti legati al bene comune, che vanno oltre gli schieramenti politici. Su temi quali l'acqua come bene pubblico è importante che tutti si pronuncino, al di fuori delle strategie di chi utilizza pretestuosamente il referendum o lo sabota per combattere una propria battaglia. Si tratta di una prova di democrazia: per questo invitiamo a una partecipazione ampia, matura e consapevole alle consultazioni. Il voto permetterà di assodare se le correnti linee politiche su questi temi davvero delicati godono effettivamente del consenso del popolo e soprattutto sarà un primo segno di una volontà condivisa di una politica più partecipata.
Si ringraziano il prof. Filippo Pizzolato e il prof. Vincenzo Satta per la consulenza giuridica.