È difficile rinchiudere in etichette standardizzate I’m Not Your Negro. Non è soltanto un documentario sulla lotta dei neri per la conquista dei diritti civili, ma è innanzitutto una testimonianza di vita, quella di James Baldwin (1924-1987), autore afroamericano newyorkese che visse tra Stati Uniti e Francia scrivendo saggi, romanzi, opere teatrali e poesie sulla condizione dei neri nella società americana. I’m Not Your Negro non è, tuttavia, nemmeno un semplice ritratto biografico di quest’uomo. Le parole di alcuni suoi testi costituiscono il fulcro della narrazione, presentandoci Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King: tre uomini, tre storie, tre morti violente che hanno segnato gli anni ’60 della storia americana. Il film intende raccoglierne l’eredità, alla ricerca del punto di convergenza di queste vite tanto diverse quanto saldamente ancorate alla stessa speranza. Così facendo forza i limiti del genere documentaristico, assegnando alle parole di Baldwin un ruolo così importante da divenire quasi il prolungamento naturale della sua opera.
Nell’introduzione all’edizione a stampa della sceneggiatura di I’m Not Your Negro il regista, Raoul Peck, scrive di avere operato un’accurata selezione degli scritti di Baldwin, sia di quelli pubblicati sia di quelli inediti. In molte pagine l’autore riportava il proprio travaglio interiore di fronte alla lotta lacerante condotta dai neri negli anni ’60 per affermare la propria dignità. Come Peck stesso ha raccontato più volte, l’idea di tradurre in linguaggio cinematografico le parole di Baldwin gli venne quando, quasi per caso, gli capitò fra le mani un manoscritto inedito di circa trenta pagine, datato 1979 e intitolato Remember This House, che insieme ad alcuni stralci della corrispondenza epistolare che Baldwin intratteneva con il proprio agente Jay Acton ha finito per diventare la base della sceneggiatura del film di Peck. Il regista, affidando al celebre attore Samuel L. Jackson il compito di interpretare nel modo più genuino possibile questi testi, ha lasciato che fosse lo stesso Baldwin a guidare lo spettatore attraverso l’intrico di emozioni e riflessioni che gli eventi di quel decennio gli suscitarono. Il viaggio di cui Baldwin parla al proprio agente in una sua lettera, quello che lui stesso si sarebbe apprestato a compiere con la stesura di Remember This House, altro non è che un addentrarsi nelle profondità del legame tra il razzismo e la storia degli Stati Uniti, un legame la cui sola ombra causava a Baldwin un fortissimo senso di spaesamento e angoscia.
Sin dai primi minuti del film si fa strada il ricordo delle morti violente di Medgar Evers, Malcolm X e Martin Luther King. Accomunate dalla stessa tragica fine, le vite di questi tre amici di Baldwin «si sono urtate reciprocamente, rivelandosi a vicenda», scrive l’autore ad Acton. Ripercorrere i loro passi significa compiere un vero e proprio viaggio attraverso un capitolo decisivo della storia americana, alla fine del quale «non sappiamo che cosa scopriremo, che cosa potremo fare con quel che avremo trovato o quali effetti ciò avrà su di noi». L’intento di Baldwin era di gettare uno sguardo di insieme su questi tre protagonisti della lotta alla discriminazione, mostrando come il loro farsi carico della violenza razzista, spesso in modi del tutto divergenti, illuminasse la condizione dei neri meglio di qualunque altra spiegazione. Lo scrittore sperava che le loro vite intrecciate potessero educare e ammonire il Paese che li aveva barbaramente traditi, esigendo il loro sacrificio.
Non ancora quarantenni al momento della morte, tutti e tre avevano già accumulato anni di esperienza e di lotta. Baldwin racconta come ognuno di loro fosse entrato nella sua vita e avesse rinnovato in lui l’urgenza di farsi testimone della storia che essi stessi stavano contribuendo a scrivere tra manifestazioni, dibattiti pubblici, rivendicazioni e scontri con le autorità. Racconta anche di aver assistito al progressivo avvicinamento delle posizioni di Malcolm X e di Martin Luther King. Non tanto nel senso che i due avessero finito per credere nelle stesse cose, quanto più nel senso che la tensione generata dal confronto tra i loro (spesso opposti) punti di vista si era poi tradotta nello sforzo congiunto di svelare una volta per tutte la contraddittorietà e la drammaticità del razzismo. «In realtà, si potrebbe dire» osserva Baldwin «che Martin si fosse caricato del fardello di Malcolm, articolando ciò che Malcolm aveva cominciato a vedere e per cui aveva pagato con la propria vita»
L’abilità di Peck consiste nell’accompagnare lo spettatore senza mai utilizzare una voce narrante esterna agli eventi che non sia quella di Baldwin. La sfida del regista si può riassumere, come ha detto lui stesso, nella decisione «di mantenere il testo di Baldwin così com’era». Durante l’anteprima italiana del film, tenutasi presso l’Auditorium San Fedele in occasione del Festival del Cinema Africano di Milano, il regista ha spiegato che «l’operazione di montaggio non è stata facile. Si trattava infatti di trovare immagini che corrispondessero a quello che le parole di Baldwin evocavano, e non viceversa come avviene di solito». Il complicato lavoro di video-editing di Alexandra Strauss si fa quindi carico di fornire al pubblico la chiave interpretativa dell’intero film. Grazie ad esso, e grazie anche all’inserimento di autentici filmati di repertorio, fra cui spezzoni di conferenze e interviste televisive che Baldwin tenne in quegli anni, Peck riesce a compensare la mancanza di una voce narrante imparziale e distaccata che, in parte a ragione, gli è stata rimproverata da alcuni critici. In realtà, questa assenza è dovuta alla volontà di Peck di mimetizzarsi fra le pieghe del montaggio, perché risuoni con più forza la voce dei testimoni diretti del dramma. Di conseguenza, lo spettatore non può che fare propria la malinconia dell’ampio sorriso di Baldwin, provando empatia quando egli rievoca il turbamento che una volta lo colse al cinematografo, da sveglio bambino di Harlem qual era, nel rendersi conto di vestire suo malgrado i panni “degli indiani”, nonostante lui avesse sempre fatto il tifo per il cowboy Gary Cooper. O ancora quando esprime la propria indignazione nel vedere grandi attori neri interpretare la parte di tanti mesti “zio Tom”, proni alle esigenze di una propaganda che dava spazio all’immagine dei neri soltanto per ribadire la posizione subalterna in cui erano relegati. Molti altri sono i riferimenti alla cultura popolare che Peck inserisce nel film, dalla superficialità del benessere borghese messo in mostra nei film degli anni ’50 e ’60, quasi corrispondesse a un ritratto fedele di tutta la società americana, ad alcune svilenti scene dei talk show dei nostri giorni.
Attraverso l’esposizione di queste tangibili dissonanze tra la vita goduta dai bianchi e quella sofferta dai neri, Peck rimarca un elemento centrale del pensiero di Baldwin sul cosiddetto negro problem. Si tratta della convinzione che il sogno americano e la sua legittimazione fossero fondati sull’intento dei bianchi di rimanere ciechi di fronte alle sofferenze dei neri. Ricacciando nell’inconscio collettivo il fatto di essere loro stessi immigrati e reietti di una patria lontana (giunti con la nave Mayflower nel 1620) i bianchi, sosteneva Baldwin, si erano serviti del potere che casualmente avevano potuto esercitare in un certo momento della storia per definire in negativo la propria libertà, adottando come termine di paragone la misera condizione del nigger che loro stessi avevano appositamente creato. In questo senso la compassione dovuta ai neri, vittime del negro problem, non era altro che il riflesso di quella che i bianchi non erano mai riusciti a concedere a se stessi.
Il pericolo della cecità di fronte alle ingiustizie perpetrate ai danni dei neri per mantenerli in questa condizione di emarginazione è, secondo Peck, ancora molto attuale. Lo provano le riprese di alcuni recenti scontri fra manifestanti e polizia di cui è disseminata la pellicola, che le conferiscono un valore civile e ne mettono in risalto l’intento di denuncia. Ma la più interessante intuizione veicolata da questo film è riassunta nelle parole finali dello scrittore: la storia dei neri è la storia dell’America, il cui esito è indissolubilmente legato al destino dei neri. Questa storia, affermava Baldwin, troverà la propria redenzione soltanto quando ogni cittadino americano avrà risposto alla domanda sul perché un altro uomo, suo compatriota e fratello, abbia dovuto assumere il ruolo di nigger affinché lui potesse perseguire la propria felicità. La negazione del pronome your (tuo) associato alla parola negro nel titolo del film vuole esattamente sottolineare l’indisponibilità della dignità umana, e si configura come appello definitivo a tutti gli americani, bianchi e neri (indipendentemente dal colore della pelle del loro Presidente), a farsi responsabili di un dialogo sincero sul loro comune futuro.