I fratelli Sisters

di Jacques Audiard
Universal Pictures, USA, Francia, Romania, Spagna 2018. Durata: 121'
Scheda di: 
Fascicolo: giugno-luglio 2019

Nel 1851, durante la corsa all’oro californiana, i due fratelli Sisters, il pacato Eli (John C. Reilly) e il più giovane e impulsivo Charlie (Joaquin Phoenix), si guadagnano da vivere come killer a pagamento per conto di un misterioso possidente, chiamato “Il Commodoro”. Il loro ultimo “contratto” è la cattura e l’eliminazione di Hermann Kermit Warm (Riz Ahmed), un chimico sul quale pende una dubbia accusa di furto. Sulle tracce dell’uomo si trova anche Morris (Jake Gyllenhaal), strano tipo di detective con un debole per la scrittura. Warm, che si rivela ben presto affiliato a un gruppo fourierista in procinto di fondare un falansterio nei pressi di Dallas, riesce a trarre il detective dalla sua parte. Da questo momento in poi, la caccia all’uomo conoscerà esiti imprevedibili.

Dopo Il Profeta (2009) e Un sapore di ruggine e ossa (2012), con I fratelli Sisters (premio per la miglior regia all’ultima Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia) Jacques Audiard è tornato al confronto/rivisitazione con il genere classico, accettando l’invito di John C. Reilly a dirigere l’adattamento del romanzo Arrivano i Sister (2011) del canadese Patrick deWitt, a cui l’attore teneva moltissimo. Una corsa ai ripari dopo la poco convincente sortita nel cinema “d’impegno” con Dheepan – Una nuova vita (2015)? Forse no, visto che quel film gli è comunque valso la Palma d’oro alla 68ª edizione del Festival di Cannes. Tuttavia, non c’è dubbio che Audiard sia più a suo agio nel veicolare i contenuti mediante la solida griglia dei generi, siano essi il noir del Profeta o il melò sentimentale di Un sapore di ruggine e ossa.

Questa volta però il regista francese sembra aver voluto alzare il tiro. Poiché, se è vero che I fratelli Sisters rimane in primo luogo un prodotto d’intrattenimento solido e intelligente (“di genere”, appunto), è anche il primo film che Audiard gira in lingua inglese, confrontandosi con Hollywood, sia pure in modo indiretto (il film è una coproduzione indipendente), attraverso il genere americano per antonomasia: il western. Non si tratta di una scelta casuale: «Tra tutti i generi del cinema americano», scrive lo storico del cinema Gian Piero Brunetta, «il western è riuscito a creare una tradizione, un luogo comune immaginativo, in cui un intero Paese ha potuto riconoscere le radici della propria storia e a portarla, piccola o grande, all’altezza del mito». Il western è l’America, insomma. E un discorso sul western è sempre un discorso sull’America.

In questo senso, può essere istruttivo il confronto del film di Audiard con gli altri due western presentati (e premiati) a Venezia. Il primo, La ballata di Buster Scruggs, diretto dai fratelli Coen e distribuito direttamente su Netflix, è una vera e propria antologia a episodi di situazioni, luoghi e figure del repertorio western: organizzata come una raccolta di short stories (genere letterario americano per eccellenza, come ricorda Gianni Celati), è un duplice confronto con l’immaginario degli Stati Uniti, sia dal punto di vista cinematografico sia da quello letterario (uno degli episodi è ispirato a un racconto di Jack London, un altro a una novella di Stewart Edward White).

Il secondo, The Nightingale, diretto da Jennifer Kent, adotta invece alcuni elementi del genere (la natura selvaggia, il confronto/scontro con l’altro, il ricorso alla violenza) rovesciandone i presupposti per affrontare, con taglio assai critico, problemi del tutto contemporanei (la questione femminile, il razzismo). Il film di Kent sposta inoltre l’ambientazione dall’Ovest nordamericano all’Australia rurale del XIX secolo, con gli aborigeni che sostituiscono i nativi americani, in questo ricordandoci che il western si può fare ovunque, basta che ci sia un orizzonte sconosciuto da esplorare: in fondo, l’immaginario statunitense è da molto tempo diventato l’immaginario occidentale tout-court.

I fratelli Sisters adotta una strada intermedia. Se come location sceglie la Spagna meridionale (Almeria) e pirenaica (Navarra e Aragona), ponendosi idealmente nel solco del western manierista e “sporco” di Sergio Leone e dei suoi epigoni, la rilettura del genere che propone si rivela assai più sottile e sfumata. Come altri autori di western di questi ultimi anni (L’assassinio di Jesse James di Andrew Dominik e Il Grinta dei Coen, ad esempio), anche Audiard e il suo sceneggiatore Thomas Bidegain partono da un romanzo, suggerendo l’idea che il western può sopravvivere oggi solo come mito letterario. Non è un caso che la sceneggiatura, oltre al libro di DeWitt, attinga direttamente a suggestioni dell’epoca, da Thoreau (citato nei dialoghi) a Emerson, da Whitman a George Ruxton, cronista britannico dal quale Audiard e Bidegain riprendono questo passaggio, affidandolo nel film al taccuino del detective-poeta Morris: «Devo confessare che i momenti più felici della mia vita li ho trascorsi qui, nel selvaggio Ovest, con un’abbondante scorta di ciocchi di pino asciutti sul fuoco. Vorrei sedermi a gambe incrociate, godendomi il piacevole calore e osservando il fumo blu che si attorciglia verso l’alto. Difficilmente ho desiderato di scambiare queste ore di libertà per i lussi della vita civilizzata». In queste parole c’è tutta la fascinazione per quella wilderness che, come ha ricordato Leslie Fiedler nei suoi magistrali saggi sulla letteratura americana, ossessiona il “civilizzato” uomo dell’Est e lo spinge inesorabilmente verso la dimensione più “autentica” dell’America.

Il mito della wilderness s’intreccia nel film con quello dell’amicizia maschile, altrettanto fondamentale nella letteratura americana (si pensi solo a Uomini e topi di John Steinbeck); anche se, a cominciare dal titolo in cui il femminile “Sisters” si affianca al maschile “Brothers”, Audiard non manca di ironizzare sul “machismo” che ha caratterizzato l’immaginario western del passato e oggi risulta improponibile, come dimostra l’esempio citato di Jennifer Kent. Rimane la forza dei legami: quello basato sulla condivisione che unisce Warm e Morris e, soprattutto, quello fraterno tra Eli e Charlie – e i loro interpreti, Reilly e Phoenix –, protagonisti opposti fra loro e al tempo stesso complementari.

Eli è parco, riflessivo, paterno (è stato lui a doversi prendere cura del fratello minore, dopo che questi aveva ucciso il padre violento), sognatore e sentimentale: una specie di gentiluomo della frontiera, che per certi tocchi incongrui (lo vediamo acquistare un prototipo di spazzolino da denti e sperimentarlo su se stesso) può persino evocare Oliver Hardy, peraltro interpretato dallo stesso Reilly nel biografico Stanlio & Ollio (Jon S. Baird, 2018). Charlie invece è smodato e impulsivo: sarà infatti la sua improvvisa sete di ricchezza a provocare la catastrofe che cambierà drasticamente il corso del film. Queste caratteristiche, insieme ai dialoghi improntati a un certo nonsense («Non penso che io e te siamo mai andati così lontano» «Intendi tra di noi, nella nostra conversazione?»), donano ai protagonisti una componente clownesca, sottolineata dai costumi variopinti di Milena Canonero, in apparenza stridente con la professione di killer, ma che al tempo stesso li avvicina a certe figure shakespeariane in cui la buffoneria convive con l’efferatezza.

Echi letterari e poca cinefilia, quindi. «Si direbbe che lei provi un vero piacere nello stare insieme agli altri», dice Warm a Morris. È un’osservazione che si potrebbe estendere anche alla regia di Audiard: il quale, pur tenendo presente i maestri del passato (si è citato Leone, ma ci sono anche Peckinpah, Ford e lo Huston de Il tesoro della Sierra Madre), abbandona di tanto in tanto la narrazione principale per abbandonarsi ai momenti di riflessione, alle gag (il ragno ingoiato per sbaglio), alla presenza incombente e al contempo imprevedibile della violenza, che nell’Ovest sembra regolare tutti i rapporti umani, inclusi quelli familiari. «Se vi avvicinate ancora, vi sparo!», è la prima frase che la signora Sisters, fucile alla mano, rivolge a Eli e Charlie, quando alla fine del loro viaggio decidono di fare ritorno alla casa materna.

Eppure, nell’ultima sequenza del film, una serie di movimenti di macchina ci mostra la nuova vita dei fratelli Sisters in seno al ritrovato desco famigliare. Tutto è ormai andato a rotoli: la caccia all’uomo di Morris, la ricchezza sognata di Charlie, l’utopia fourierista di Warm. Che cosa rimane? L’ultima immagine prima della dissolvenza di chiusura è per Eli, l’unico che desiderava semplicemente smettere i panni del sicario e aprire un emporio. Adulto disteso nel suo letto di bambino, con i piedi che sporgono oltre il bordo, si addormenta sereno, dopo aver dato un ultimo sguardo al fratello. Perché è bello andare lontano, ma ancora più bello, forse, è ritornare a casa dopo aver tanto viaggiato.

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