Hikikomori è una parola giapponese
che abbiamo imparato a
conoscere anche in Italia negli ultimi
anni per definire una particolare
situazione di disagio psicologico,
che spinge specialmente i più giovani
a isolarsi da tutto e da tutti,
rinchiudendosi nella propria stanza
ed evitando ogni forma di interazione
sociale per un lungo tempo.
Questo fenomeno, che è sempre
più diffuso nel nostro Paese, è stato
raccontato nel graphic novel Hikikomori.
Il re escluso di Maria Sara
Mignolli e Alessandro Locati, che
in modo significativo si apre con
una tavola interamente nera, dove
non si distingue nulla ad eccezione
del fumetto bianco che
contiene una domanda: «Che
cos’è?». Quel nero mangia
ogni possibile forma (persone,
oggetti, paesaggi…) e annulla
gli altri colori. In questo modo,
richiama la malattia che fa saltare
la distinzione tra la notte e
il giorno e fa sparire ogni tipo
di contatto umano, spegne
qualsiasi impegno nel presente
o desiderio per il futuro. Nello
stesso tempo la domanda evoca
quel barlume di coscienza di
sé che non è del tutto annichilito,
da cui è possibile ripartire.
La pagina nera è l’inizio della
lunga rilettura che un giovane
fa della propria vita, a partire
dagli anni dell’infanzia quando
aveva imparato a pensare
a se stesso come il migliore, destinato a un crescendo di grandi
successi. Circondato dall’amore
della famiglia, protetto da tutti,
soprattutto protetto da ogni scomoda
verità o fallimento, dentro
questo ragazzo risuona qualcosa
di stonato, si sente sopraffatto,
inadeguato, inadatto. Poco dopo,
durante l’adolescenza con le prime
delusioni difficili da accettare nelle
relazioni con i compagni o nello
studio, prende forma l’idea di sparire,
di annullarsi: «Se non hai più
un corpo, nessuno ti vede. E non
puoi più vergognarti». Per giungere
infine al momento in cui chiude
la porta della propria camera e si
rifugia in un proprio mondo, dove
può essere ancora un piccolo re.
Le pagine di Hikikomori accompagnano
con delicatezza questo
sguardo retrospettivo, scandite dai
ricordi e dalle riflessioni che il giovane
protagonista forse racconta
a uno psicologo, ma di sicuro racconta
a se stesso. L’alternanza tra
le tavole colorate e quelle sbiadite
aiuta a cogliere anche visivamente
le varie trasformazioni in atto, in un
processo, che non è mai concluso
definitivamente, per poter giungere
a trovare il proprio posto nel
mondo.