"Heineken in Africa. La miniera d’oro di una multinazionale europea"

Olivier van Beemen
add Editore, Torino 2020, pp. 336
Scheda di: 
Fascicolo: ottobre 2020
La presenza di Heineken nel continente africano risale alla fine dell’Ottocento, «con la spedizione di casse di birra verso alcune città portuali», indirizzate alle «élite coloniali» (pp. 28-29). Le prime filiali della multinazionale, invece, sorsero in Africa negli anni ’30 del secolo scorso, quando Heineken cominciò ad acquistare birrifici locali o a costruirne di nuovi per abbattere i costi dell’esportazione e garantire una migliore qualità della birra.

Secondo i dati forniti dall’A., oggi il colosso olandese si spartisce insieme a soli altri tre concorrenti (AB InBev, Castel e Diageo) il 93% del mercato africano della birra. L’instabilità sociale e politica, la povertà, la carenza di infrastrutture, le guerre e la criminalità (per fare solo alcuni esempi) fungono infatti, in molti Stati africani, da barriere “naturali” sufficienti a scoraggiare qualunque impresa minore voglia mettervisi in gioco. Pertanto, queste condizioni garantiscono una situazione di quasi monopolio ai pochi attori economici che hanno una posizione stabile sul mercato da svariati decenni.

Per Heineken si tratta, per molti versi, del contesto ideale in cui operare. Innanzitutto, vista la bassissima età media della popolazione, si prevede nei prossimi anni una vertiginosa espansione delle vendite. In Africa, inoltre, queste ultime fruttano all’impresa quasi il 50% in più rispetto alla media mondiale, generando quasi il 21% dei suoi utili globali a fronte di volumi di produzione e fatturato che non superano il 14% del totale (p. 73).

Queste particolari condizioni del mercato hanno importanti implicazioni sulle modalità operative di Heineken, sulle quali si focalizza l’indagine dell’A., iniziata nel 2011 in Tunisia, dopo essere venuto casualmente a conoscenza di una collaborazione tra la multinazionale e un uomo d’affari legato al clan del dittatore Ben Ali, deposto durante la Rivoluzione dei gelsomini. Insospettito dall’enfasi con cui i rappresentanti di Heineken negavano questa notizia, van Beemen decise di andare più a fondo nella questione (p. 16).

Le ricerche successive sarebbero durate sei anni e lo avrebbero spinto a viaggiare più volte in numerosi Paesi principalmente dell’Africa subsahariana (Burundi, Etiopia, Mozambico, Nigeria, Repubblica Democratica del Congo, Ruanda, Sierra Leone e Sudafrica), collezionando «più di quattrocento interviste a persone direttamente o indirettamente legate ad Heineken» (p. 283). La varietà e l’ampiezza delle fonti e dei documenti ufficiali consultati, molti dei quali sono stati anche fotografati e inseriti nel volume, infondono al racconto dell’A. autorevolezza e rigore. L’analisi del contesto socioeconomico e politico dei Paesi africani, inoltre, offre un quadro di quali siano le sfide e i dilemmi che qualsiasi multinazionale operante in questo continente deve affrontare.

Durante un evento organizzato da TEDx presso l’Università di Leida (Paesi Bassi) nel maggio 2019 (disponibile al link <www.youtube.com/watch?v=WR2j_CmpRyY>), Olivier van Beemen ha ribadito che il suo scopo era quello di costruire un dettagliato case study sul comportamento delle multinazionali in Africa, non di dipingere il capitalismo come il male assoluto o delegittimare qualsiasi apporto esso possa recare allo sviluppo di questo continente. Tuttavia, ha affermato l’A. in quell’occasione, «penso che le multinazionali possano giocare un ruolo importante e positivo in Africa solo qualora vengano introdotti sufficienti controlli e contrappesi» (trad. nostra). Il “caso Heineken” è la dimostrazione che, senza questi ultimi, le difficili condizioni del mercato e della politica tendono facilmente a erodere persino i minimi presupposti etici su cui si basa l’operato delle multinazionali nei Paesi più ricchi, lasciando spazio a situazioni in cui gli affari vengono fatti progredire mediante strategie manageriali dai tratti opachi e disonesti, se non addirittura palesemente criminali.

Un’espressione dell’intreccio spregiudicato fra gli interessi di Heineken e le politiche africane è il sostegno accordato dalla multinazionale al regime dittatoriale del Burundi, il presidente della cui Corte costituzionale Charles Ndagijimana convalidò nel 2015 il terzo controverso mandato del capo dello Stato Pierre Nkurunziza, dopo essere stato nominato presidente del consiglio di amministrazione di Brarudi, impresa produttrice di birra a partecipazione statale, ma il cui socio di maggioranza (con il 59% del capitale) è proprio la multinazionale olandese. Scrive l’A.: «Heineken cerca soprattutto di non contraddire Nkurunziza [deceduto per un infarto l’8 giugno scorso, N.d.R.], e il presidente è a sua volta consapevole di dipendere dalle casse dell’azienda», la quale con le accise contribuisce per il 30% alle entrate fiscali del Burundi (p. 152).

Ugualmente dipendente da Heineken era anche il Ruanda degli anni ’90, nel quale il genocidio dei tutsi venne finanziato anche con le ingenti imposte pagate al Governo hutu dalla multinazionale. La violenza con cui questi crimini vennero perpetrati era ulteriormente aggravata dall’ebbrezza che la birra infondeva nell’esercito ruandese, che grazie a Heineken non era mai a corto di alcol. A questo proposito van Beemen non usa mezzi termini: ci sono ragionevoli motivi per credere che in Ruanda Heineken si sia consapevolmente resa complice di crimini contro l’umanità.

Come è stato possibile, quindi, che la multinazionale abbia conservato così a lungo, anche presso le Nazioni Unite, una reputazione a dir poco perfetta? A questa domanda l’A. risponde soprattutto nei cosiddetti “capitoli tematici” del volume, che si alternano a quelli “di viaggio”, nei quali emerge come Heineken sia riuscita a evadere sistematicamente il fisco nei Paesi africani; a coprire l’indiretta istigazione a bere con campagne di prevenzione nelle scuole fatte costruire a proprie spese; a discolparsi per l’alto numero di morti nei birrifici facendo ricadere la colpa degli incidenti sull’arretratezza della cultura locale del lavoro; ad attrarre il plauso del mondo per una campagna di prevenzione contro l’HIV proprio mentre assoldava migliaia di giovani donne come promotion girl, cioè ragazze pagate per far bere più birra ai clienti dei bar, anche al prezzo di molestie e stupri, pur di incrementare le vendite.

Queste sono solo alcune delle sconvolgenti storie che costellano Heineken in Africa, spesso raccontate con dovizia di particolari. Per mantenere accuratezza e rigore, infatti, van Beemen preferisce spesso aggiungere piuttosto che togliere, rallentando talvolta la narrazione per approfondire sottili dinamiche di potere, che costituiscono comunque delle risorse interessanti per gli esperti e gli appassionati di tematiche africane.

Viene portata all’attenzione con particolare evidenza una macroquestione: l’utilizzo della filantropia a scopi di marketing e come mezzo per raggiungere gli effetti che apparentemente ci si prefigge di combattere. Si tratta di una questione particolarmente delicata in Africa, dove il livello di istruzione e la consapevolezza degli effetti dell’alcol sulla persona e sulla società sono più modesti che altrove. Qui, infatti, in assenza di regolamentazioni, dipingere i muri delle scuole con il marchio di una birra e lanciare campagne di sensibilizzazione sul consumo responsabile di alcol sono azioni che possono facilmente condurre a risultati contrari (ma non per forza sgraditi) rispetto a quelli formalmente dichiarati dall’impresa.

Come ha detto van Beemen anche durante la citata conferenza presso l’Università di Leida, è fondamentale rendersi conto dell’influenza che lo storytelling accuratamente orchestrato da parte delle grandi multinazionali può avere sulle vite di interi popoli. Quando McDonald’s dichiara pubblicamente di voler combattere l’obesità infantile, Shell asserisce di essere in prima linea nella lotta al cambiamento climatico, Facebook afferma di considerare la difesa della nostra privacy come la prima delle sue priorità e Heineken costruisce slogan come «distilliamo un mondo migliore», che cosa stanno realmente facendo? È la domanda alla quale l’A. ha provato a rispondere, impegnandosi per sei anni nel tentativo di ottenere confronti diretti con l’amministrazione della multinazionale olandese. L’evasività delle risposte finora ottenute non fa ben sperare, ma conferma che il mondo continuerà ad aver bisogno di libri come questo.

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