A chi non è capitato di leggere almeno una volta nella propria vita la classifica dei Paesi più popolosi o quella dei film che hanno incassato di più, quella dell’uomo o della donna più ricchi o ancora dei grattacieli più alti nel mondo? La tendenza a stabilire classifiche delle realtà più disparate è oggi molto diffusa, ma non è certo una novità nella storia dell’umanità. Da sempre siamo portati a fissare graduatorie, ordinando persone o realtà secondo una scala di grandezza, che sono anche, più o meno esplicitamente, una scala di prestigio e priorità. Ma in che modo e su quale base decidiamo chi è grande e chi è piccolo nelle nostre società? Chi è importante e chi invece conta poco? La risposta è meno semplice di quanto si possa pensare, perché in qualunque situazione le realtà in gioco potrebbero essere ordinate secondo diversi criteri di grandezza, legittimi a partire dalla prospettiva in cui ci si colloca, come hanno dimostrato alcuni studi sociologici (cfr ad esempio i testi di Luc Boltanski e Laurent Thévenot): ci sono criteri per chi è importante nelle relazioni domestiche, per ciò che vale di più in quelle mercantili, o le scale di grandezza di cui la scienza fa uso; ci sono anche criteri diversi se ciò che conta è essere famosi o piuttosto fare rete.
Questa pluralità di prospettive la ritroviamo anche in tante pagine bibliche, che però vogliono tutte aiutare a determinare in profondità chi è piccolo e chi è grande nella prospettiva del regno dei cieli (cfr Matteo 18,1-4; 23,11-12).
Tra i diversi generi letterari a cui la Bibbia fa ricorso per affrontare questo tema vi è anche quello delle parabole, in cui si narra una storia fittizia dove i particolari e pure le stranezze non passano inosservati al lettore attento. Attraverso le loro strategie comunicative e i loro effetti sorprendenti, esse intendono parlare di un tema in modo non convenzionale, interpellando direttamente il lettore. In particolare possiamo leggere due parabole – quella del granello di senape e quella del lievito (Matteo 13,31-33) –, in cui il binomio grande-piccolo è usato per rivelare il mistero del Regno, che per un credente è di sicuro una “grandezza”, anche se si presenta in modo del tutto inatteso, se non illogico.
Matteo 13,31-33
31Espose loro un’altra parabola, dicendo: «Il regno
dei cieli è simile a un granello di senape, che un uomo prese e seminò
nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi
ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e
diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il
nido fra i suoi rami».33Disse loro un’altra parabola:
«Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò
in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata».
Entrambe le parabole si trovano nel terzo grande discorso di Gesù riportato nel Vangelo di Matteo (13,1-52), in cui Gesù racconta sette storie fittizie che parlano del Regno in modi diversi. La parabola del granello di senape è ben collegata alla precedente parabola della zizzania (cfr Matteo 13,24-31): nell’una e nell’altra c’è un uomo che semina, nell’una e nell’altra c’è un campo, nell’una e nell’altra c’è un seme. A ben pensarci, qualche stranezza la parabola la riserva. Gli uccelli vengono a nidificare fra i rami dell’albero: un’immagine ardita, visto che la senape è un ortaggio che, per quanto alto, non raggiunge mai le dimensioni di un maestoso albero frondoso. Anche la parabola gemella del lievito è fonte di sorprese, visto che tre misure di farina corrispondono a ben quaranta chili: una quantità assolutamente esagerata per una massaia, che non deve certo dar da mangiare a cento e più persone.
Quando la grandezza
si rivela dove non te l’aspetti
Iniziamo dall’immagine del granello di senape. Esso (scientificamente brassica nigra) è microscopico: ci vogliono ben settecentocinquanta granelli per averne un grammo! D’altro canto la pianta di senape alle latitudini d’Israele può raggiungere i due-tre metri di altezza: indubbiamente non molto rispetto ai grandi alberi di quercia, ma non poco rispetto agli ortaggi. Della senape si usa tutto: le foglie si cuociono e si mangiano, i semi diventano spezie che conoscono anche un uso medico e pure gli uccelli ne sono ghiotti.
Nel racconto fittizio compaiono tre personaggi: il seminatore, il seme e gli uccelli. L’attenzione tuttavia è solo per il seme; il seminatore è semplicemente una comparsa iniziale di cui poi non si parla più; anche gli uccelli non hanno una grande importanza; sicché alla parabola interessa unicamente il granello di senape e non in quanto tale, ma in ragione della sua vicenda, ovverosia della sua storia: esso è gettato nel campo, poi cresce, infine diventa un albero. Il racconto evoca tutti i tre momenti ma l’attenzione è solo per il primo e l’ultimo tempo, al fine di contrapporre la piccolezza degli inizi e la grandezza della fine.
Di questa parabola è possibile una lettura unilaterale e di fatto paradossale: pensare che essa rappresenti due tempi della storia. Il primo sarebbe il tempo presente, caratterizzato dallo scoraggiamento e dalla fatica di una vita cristiana che soffre per la persecuzione o per il suo illanguidimento; a questo tempo subentrerebbe un avvenire inatteso e grandioso. Il rischio di questa lettura è trasferire la manifestazione del Regno in un tempo futuro e lontano, un tempo di fatto assente ma che arriverà. In realtà la parabola mostra la continuità fra l’inizio modesto (concretamente quello di Gesù) e la sua continuazione inattesa e sorprendente. L’annuncio della croce e la logica di Gesù sembrano andare incontro al fallimento, ma in realtà è proprio quest’annuncio e la sua accettazione ad aprire alla novità della risurrezione, alla potenza dello Spirito, all’affermarsi del Regno nella storia. Accogliere questa lettura significa rinunciare ai criteri mondani della grandezza e dell’apparenza per assumerne altri, ovverosia quelli evangelici, nei quali si sperimenta come già presente la potenza del Regno, anche nelle occasioni normali, umili e quotidiane della vita.
Per gli antichi il seme deposto nella terra muore, come afferma un celebre detto di Gesù riportato da Giovanni: Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto (Giovanni 12,24). La logica di Matteo è la stessa, ricordata per ben due volte: Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà (Matteo 10,39; cfr anche Matteo 16,25). Perdere la propria vita (il greco usa il termine psyché) vuol dire dare la propria anima. In questo consiste il grande mistero del Regno: il Regno è una potenza divina prodigiosa, dagli esiti imprevedibilmente grandi, ma è messo in atto da un piccolo gesto, spesso nascosto, il più delle volte ignorato da tutti, cioè il dono della propria vita.
L’insistenza di Gesù sulla piccolezza risulta anche dal confronto con alcune pagine dell’Antico Testamento. Nel libro di Ezechiele, ad esempio, si fa ricorso al cedro del Libano, indubbiamente uno degli alberi più maestosi che vi siano, per parlare del regno d’Israele. Afferma il profeta: Così dice il Signore Dio: «Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro, dalle punte dei suoi rami lo coglierò e lo pianterò sopra un monte alto, imponente; lo pianterò sul monte alto d’Israele. Metterà rami e farà frutti e diventerà un cedro magnifico. Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno, ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà» (17,22-23). La similitudine di Gesù è molto differente: non attingendo né al repertorio profetico, né all’immaginario della sua epoca, Gesù sceglie un albero modesto, un albero dell’orto di casa, per esprimere uno stile che predilige la condivisione e la semplicità.
La forza insospettata del lievito
La seconda parabola, quella del lievito (cfr Matteo 13,33), si rifà all’usanza d’introdurre nella farina un po’ di pasta rafferma, con l’effetto di farla lievitare tutta. Tutto il contrasto è espresso da Gesù in una sola frase: una piccola quantità di lievito ha effetto su un’immensa quantità di farina. La meraviglia è la forza del lievito, senza che la parabola dica una sola parola sulla progressione, sull’effetto lento della lievitazione (notoriamente la pasta deve riposare di notte). L’accento cade sulla forza, sulla trasformazione, sulla sorpresa.
Di questa parabola si possono offrire due interpretazioni, diverse ma non in contrasto. La prima insiste sul fatto che il lievito deve essere nascosto nella farina per far crescere la pasta. In altre parole, l’effetto della parabola sarebbe tutto nel ricordare che solo l’immersione nelle realtà di tutti i giorni produce un frutto abbondante. Ciò che permette di far fermentare la farina è il nascondimento e non la separazione, è lo stare dentro le situazioni e non l’astrarsi, è la condivisione e non il giudizio. È la logica dei testimoni più che dei maestri di cui il mondo ha bisogno (secondo la celebre espressione di Paolo VI), è la logica di quell’azione di fermento che chiede l’incarnazione, la fraternità, la compassione.
Di questa parabola è però possibile offrire anche un’altra interpretazione. Si diceva che tre misure di farina sono il corrispondente di quaranta chili e una simile quantità procura pane per centinaia di persone. Questo particolare così singolare ricorda un episodio della vicenda di Abramo. Quando il Signore appare ad Abramo alle querce di Mamre nella figura di tre visitatori, il patriarca li accoglie con grande onore, poi corre dalla moglie Sara e le ordina: Presto, tre sea di fior di farina, impastala e fanne focacce (Genesi 18,6). È l’unico passo nell’intera Scrittura in cui v’è la stessa misura. Nel contesto dell’ospitalità di Abramo si capisce che l’esagerazione (impastare quaranta chili di farina per tre ospiti è davvero sproporzionato) sottolinea l’accoglienza in grande stile, tipica dell’Oriente: più l’ospite è prestigioso, più bisogna esagerare nei preparativi. D’altro canto l’ospite divino, in seguito a quel suo passaggio, realizza la promessa in favore del patriarca: l’anno dopo l’anziana Sara terrà in braccio il figlio Isacco.
Naturalmente ci si domanda quale sia il nesso fra le tre misure di farina della parabola di Gesù e le tre misure di farina impastate da Sara. L’allusione sarebbe una pura coincidenza se rimanesse isolata, ma il collegamento con la parabola precedente la illumina. Infatti il vangelo di Matteo utilizza il paragone del granello di senape per parlare della fede; afferma Gesù: In verità io vi dico: se avrete fede pari a un granello di senape, direte a questo monte: «Spostati da qui a là», ed esso si sposterà, e nulla vi sarà impossibile (Matteo 17,20). In altre parole: la vicenda evocata dal granello di senape e la vicenda della donna che nasconde il lievito nella pasta ricordano i due personaggi biblici di Abramo e Sara. Abramo è il padre dei credenti, colui che per primo ha fatto regnare Dio in questo mondo proprio grazie alla sua fede. Credere nella promessa di un figlio, quando sia Abramo sia Sara erano ormai giunti alla vecchiaia, è divenuto il paradigma stesso dell’apertura ai doni di Dio.
Le parabole, dunque, per mezzo di questa duplice allusione, ci riportano all’inizio della storia della salvezza, mostrandoci che quanto Gesù annuncia ripercorre le tracce dei patriarchi. Anche per Abramo gli inizi sono stati molto modesti, anzi segnati dalla morte: egli era vecchio e sua moglie era anziana; eppure la fede nella Parola e nella promessa di Dio ha permesso loro di vedere la fecondità non solo del grembo di Sara, ma pure di quanto il Signore aveva loro mostrato. Fra promessa e compimento, fra inizio e conclusione (saldamente nelle mani di Dio) si pone la fede di chi accoglie l’annuncio, la fiducia di chi si apre alla logica di Dio.
Le parabole:
un invito a convertirsi
Gesù racconta le parabole non per nascondere il Regno di Dio ma per rivelarlo. Tuttavia le parabole chiedono una decisione di vita in chi ascolta. Le due parabole che abbiamo commentato hanno la forza di sradicare dal cuore criteri umani di giudizio e di introdurre criteri differenti, cioè evangelici. I criteri umani guardano solo alla piccolezza e alla grandezza, alla differenza fra gli inizi e la fine; i criteri evangelici, invece, riconoscono che nell’inizio modesto c’è già tutta la potenzialità che poi si svilupperà. Il vangelo nel mondo può sembrare piccola cosa, ma non è così. Esso, proprio nel suo nascondersi, nel suo sparire, nel suo immergersi nella pasta della vita, produce un frutto inatteso e straordinario. Le parabole mettono anche in guardia da alcune tentazioni tipiche: lasciarsi sedurre dalla grandezza o, al contrario, lasciarsi abbattere dalla piccolezza. L’una e l’altra rivelano una logica non ancora evangelica, unicamente legata ai criteri mondani. La potenza mondana ostenta, oppure disprezza e umilia; la forza del vangelo è nascosta ma efficace.
Dal punto di vista evangelico, allora, il binomio del piccolo e grande, letto nella prospettiva del Regno di Dio, muta di segno rispetto a quanto generalmente è accettato, così da far emergere una lettura degli eventi ben diversa. È questo il caso del ritiro annunciato l’11 febbraio 2013 da papa Benedetto XVI. Dopo mesi convulsi, fra documenti sottratti dallo studio del pontefice e scandali, dentro una logica semplicemente mondana d’intrighi e di scontri di poteri, il Papa faceva un passo indietro. È stato il passo evangelico della debolezza, è stato il passo evangelico della croce. Questa perdita è stata una vittoria, questo venir meno ha manifestato l’azione potente dello Spirito che continua a guidare la Chiesa.