Granai

Fascicolo: gennaio 2011

Si prevede che questo 2011 sarà segnato da una crisi alimentare simile a quella del 2008. La produzione mondiale dei cereali utilizzati come cibo ha subito nell'ultimo anno un drastico calo dovuto a fenomeni climatici (in Russia) e a scelte politiche (negli Stati Uniti). Nel suo Messaggio per la 42ª Giornata mondiale della pace del 2009, Benedetto XVI scriveva a questo riguardo che tali crisi sono caratterizzate «non tanto da insufficienza di cibo, quanto da difficoltà di accesso ad esso e da carenza di un assetto di istituzioni politiche ed economiche in grado di fronteggiare le necessità e le emergenze» (n. 7). Si comprende facilmente come la sicurezza alimentare di una nazione nasca dalla combinazione ottimale fra produzione interna, importazione dall'estero e gestione delle scorte. E per fare ciò sono necessarie politiche che siano capaci di superare il semplice fabbisogno di ogni singola nazione, allargando lo spettro delle questioni da affrontare, tra cui la gestione delle scorte alimentari sempre più sotto pressione. Si pensi che il tempo di consumo globale garantito dalle scorte è passato dai 102 giorni del 1988 ai 70 del 2008 (dati FAO).
La questione delle scorte alimentari non è solo dei nostri tempi. Da sempre l'umanità ha dovuto conservare parte della produzione per la semina dell'anno successivo e per far fronte a momenti di difficoltà. Anche nella Bibbia si trova una riflessione su questo argomento, al punto che una delle vicende più affascinanti del libro della Genesi, la storia di Giuseppe in Egitto, è costruita proprio a partire dall'uso e dalla gestione delle scorte, cioè dei granai.

Genesi 41, 33-36.49.53-57; 42, 6
41,33 Il faraone pensi a trovare un uomo intelligente e saggio e lo metta a capo della terra d'Egitto. 34 Il faraone inoltre proceda a istituire commissari sul territorio, per prelevare un quinto sui prodotti della terra d'Egitto durante i sette anni di abbondanza. 35 Essi raccoglieranno tutti i viveri di queste annate buone che stanno per venire, ammasseranno il grano sotto l'autorità del faraone e lo terranno in deposito nelle città. 36 Questi viveri serviranno di riserva al paese per i sette anni di carestia che verranno nella terra d'Egitto; così il paese non sarà distrutto dalla carestia.
49 Giuseppe ammassò il grano come la sabbia del mare, in grandissima quantità, così che non se ne fece più il computo, perché era incalcolabile.
53 Finirono i sette anni di abbondanza nella terra d'Egitto 54 e cominciarono i sette anni di carestia, come aveva detto Giuseppe. Ci fu carestia in ogni paese, ma in tutta la terra d'Egitto c'era il pane. 55 Poi anche tutta la terra d'Egitto cominciò a sentire la fame e il popolo gridò al faraone per avere il pane. Il faraone disse a tutti gli Egiziani: «Andate da Giuseppe; fate quello che vi dirà». 56 La carestia imperversava su tutta la terra. Allora Giuseppe aprì tutti i depositi in cui vi era grano e lo vendette agli Egiziani. La carestia si aggravava in Egitto, 57 ma da ogni paese venivano in Egitto per acquistare grano da Giuseppe, perché la carestia infieriva su tutta la terra.
42,6 Giuseppe aveva autorità su quella terra e vendeva il grano a tutta la sua popolazione.

Giuseppe, ovvero del saggio uso dei granai

Giuseppe, venduto dai fratelli e arrivato dopo varie peripezie a interpretare il famoso sogno delle sette vacche grasse e sette vacche magre fatto dal faraone, come profezia di sette anni di carestia che avrebbero seguito sette anni di abbondanza agricola, dona al sovrano egiziano un suggerimento che viene accolto con entusiasmo e realizzato.
La proposta di Giuseppe è semplice, ma necessita di lucidità e fiducia. I tempi buoni sono pensati in prospettiva futura. L'ammasso del 20% del prodotto della campagna ogni anno per sette anni consecutivi in previsione della carestia sognata dal faraone non era certo operazione semplice e scontata. Nulla infatti come l'abbondanza continuata per un certo numero di anni alimenta la fiducia riposta nel quotidiano, e l'ultima cosa che si fa è pensare che domani potrebbe essere diverso.
Le recenti crisi economiche e finanziarie hanno messo bene in evidenza nel nostro Occidente come un certo benessere dell'ultimo decennio abbia portato un crescente numero di persone a vivere «in debito», pensando che il domani possa garantire sempre la capacità di restituire i prestiti accesi per consumare di più oggi. La psicologia umana non era certo molto differente 3.500 anni fa. Far fronte alla necessità di domani grazie al benessere di oggi, per di più su scala nazionale, non è quindi la semplice avvedutezza della formica che viene derisa dalla cicala. È operazione economica e finanziaria che va programmata, gestita e difesa.
Non ci si deve meravigliare quindi che per renderla efficace Giuseppe si trovi investito dal faraone (cfr il versetto 42, 6) di un potere quasi assoluto e per certi aspetti «tirannico»: Il faraone disse a Giuseppe: «[...] Tu stesso sarai il mio governatore e ai tuoi ordini si schiererà tutto il mio popolo: solo per il trono io sarò più grande di te [...] Ecco, io ti metto a capo di tutta la terra d'Egitto». Il faraone si tolse di mano l'anello e lo pose sulla mano di Giuseppe (41, 39-42). In questo abbozzo di politica economica nazionale traspare una precisa visione del potere pubblico che amministra il bene di tutti con una attenta valutazione sociale del presente e del futuro (va di moda il termine anglosassone vision, che esprime questa capacità «visionaria» della progettualità). Ma la domanda che sorge spontanea di fronte alla teorizzazione di un buon uso del potere è sempre: «In vista di che finalità tutto ciò accade?».
Il testo biblico, nel caso della storia di Giuseppe, sottolinea l'intenzione polarizzata sul bene comune di questa operazione: così il paese non sarà distrutto dalla carestia (41, 36). Sappiamo che grazie a questa saggezza non solo vivono gli Egiziani, ma è possibile anche la sopravvivenza dei popoli vicini che vengono in Egitto ad acquistare grano (cfr 41, 57: da ogni paese venivano in Egitto per acquistare grano da Giuseppe) . La stessa famiglia di Giuseppe - il padre Giacobbe e i suoi fratelli che lo avevano venduto - potrà così trovare vita, aprendo addirittura la possibilità di una lettura salvifica della vicenda, compresi gli elementi di peccato e di sofferenza: Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l'Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e ancora per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione (cfr Genesi 45, 4-8). Così, non essere distrutti, conservare in vita, assicurare la sopravvivenza, far vivere sono le grandi categorie che giustificano la gestione del potere da parte di Giuseppe. L'operato politico ed economico della superpotenza di allora diviene capacità gestionale del bene che può essere condiviso e permettere la vita di tutti i popoli.

Genesi 47, 23-26
23 Poi Giuseppe disse al popolo: «Vedete, io ho acquistato oggi per il faraone voi e il vostro terreno. Eccovi il seme: seminate il terreno. 24 Ma quando vi sarà il raccolto, voi ne darete un quinto al faraone e quattro parti saranno vostre, per la semina dei campi, per il nutrimento vostro e di quelli di casa vostra e per il nutrimento dei vostri bambini». 25 Gli risposero: «Ci hai salvato la vita! Ci sia solo concesso di trovare grazia agli occhi del mio signore e saremo servi del faraone!».
26 Così Giuseppe fece di questo una legge in vigore fino ad oggi sui terreni d'Egitto, secondo la quale si deve dare la quinta parte al faraone.

Carestia e nuovo sistema sociale

Nell'ultimo dei sette anni di carestia non rimane più nulla al popolo egiziano per poter acquistare il grano ancora rimasto nei granai del faraone gestiti da Giuseppe. Passato quell'anno, vennero da lui l'anno successivo e gli dissero: «Non nascondiamo al mio signore che si è esaurito il denaro e anche il possesso del bestiame è passato al mio signore, non rimane più a disposizione del mio signore se non il nostro corpo e il nostro terreno. Perché dovremmo perire sotto i tuoi occhi, noi e la nostra terra? Acquista noi e la nostra terra in cambio di pane e diventeremo servi del faraone noi con la nostra terra; ma dacci di che seminare, così che possiamo vivere e non morire e il suolo non diventi un deserto! (47, 18-19). La proposta fatta da parte del popolo al faraone è senz'altro allettante e rappresenta la meta agognata da qualunque dittatore assoluto: ottenere il dominio su un popolo di schiavi, asserviti da una decisione spontanea di sottomissione assoluta. Certo ai dittatori pare di risibile importanza il fatto che siano la fame e la necessità di sopravvivere a qualunque costo il motore di tale asservimento. Del resto, qualcosa di molto simile è successo anche nel XX secolo: negli anni '30 l'ammasso del grano obbligatorio voluto da Stalin unito a due anni di carestia e di sottoproduzione agricola ha portato alla morte per fame circa 5 milioni di persone in Ucraina e Russia Orientale, con il risultato della loro sottomissione praticamente senza condizioni al dominio stalinista. In Italia, Mussolini adottò una strategia analoga in Sicilia e Puglia nei primi anni '40.
L'Egitto è la nazione che nella Bibbia rappresenta uno dei simboli assoluti del male e dell'esercizio diabolico del potere. Viene presentata dal racconto biblico una profezia dei nostri tempi? No. Infatti lo snodo del racconto è sorprendente, una volta di più, per la saggezza di Giuseppe, che organizza una formula sociale che permette a tutti di vivere.
Sappiamo che in Egitto, specialmente a partire dal XVI secolo a.C., la sempre più conclamata divinizzazione del faraone ebbe come conseguenza l'accentramento della proprietà di tutta la terra nelle sue mani. Giuridicamente smise di esistere ogni proprietà privata terriera e vigeva un regime di concessione in uso dei terreni coltivabili a fronte del versamento al faraone di una percentuale del raccolto. Si tratta di una legislazione singolare in tutto l'Oriente antico, che garantiva agli egiziani una libertà effettiva di status e di decisioni. D'altra parte prevedeva una sorta di tassazione proporzionale della produzione agricola che serviva al sostentamento del potere imperiale e alle spese pubbliche. Ora, il testo biblico ha certamente lo scopo - e la vicenda di Giuseppe cronologicamente si colloca esattamente in quegli anni - di spiegare ai lettori israeliti l'origine di questo «strano» sistema legislativo (cfr il versetto 26 nel riquadro). E non è un caso che proprio un ebreo ne sia presentato come l'ideatore.
Come abbiamo visto, il sistema che prevede il prelievo del 20% del raccolto a fronte dell'utilizzo della terra è la risposta di Giuseppe alla disponibilità del popolo ad accettare la schiavitù in cambio della possibilità di sopravvivere. Egli compra uomini e terreni in cambio di grano da mangiare, ma anche in cambio di grano da seminare, garantendo così la possibilità di un futuro, come aveva chiesto il popolo nei versetti già citati: così che possiamo vivere e non morire e il suolo non diventi un deserto! Il popolo si ritrova asservito al faraone (il versetto 47, 19 propriamente utilizza l'espressione schiavi del faraone), ma in realtà libero in tutto fuorché dall'obbligo di una «tassa» di un quinto del raccolto. Giuseppe istituisce una sorta di «mezzadria» a livello nazionale tra il faraone, diventato unico proprietario della terra, e il popolo intero che la coltiva. Se si pensa che per lunghi secoli la mezzadria aveva previsto la divisione a metà dei raccolti, si comprende come la legislazione del quinto proposta da Giuseppe sia più che equa. Si aggiunga che pagare una quota del raccolto è senz'altro meglio che pagare un affitto fisso, in quanto il tributo si adegua automaticamente alle variazioni del raccolto dovute a eventi climatici avversi. Non è difficile capire perciò l'esclamazione del popolo di fronte alla proposta di Giuseppe: Ci hai salvato la vita! Ci sia solo concesso di trovare grazia agli occhi del mio signore e saremo servi del faraone! (47, 25).
Si può allora affermare che tutta la parabola di Giuseppe in Egitto è segnata dalla volontà di salvare la vita del popolo egiziano e della famiglia di Giacobbe, che sta all'origine di tutto il popolo ebraico. E la modalità con cui si mettono in atto meccanismi salvifici non è segnata da un atteggiamento di generosità o di solidarietà basata sulla gratuità o sull'assenza di guadagno. Siamo di fronte a un'operazione economica e politica di gestione del bene comune. Giuseppe fa guadagnare il faraone senza rubare, senza cioè tenere per sé in maniera fraudolenta grano e beni agricoli, denaro o terra: la letteratura rabbinica sottolineerà questo tratto, indicando come il pio ebreo sia sempre tenuto all'onestà anche qualora lavorasse per un goy, per un non ebreo, fosse anche il faraone d'Egitto. Giuseppe fa vivere non solo l'Egitto, ma anche tutti i popoli circostanti che soffrono la stessa carestia, grazie all'ideazione e all'esecuzione di una normativa che è capace di utilizzare saggiamente i beni in tempi di abbondanza, di gestire i granai in tempi di fame e di rilanciare l'economia quando la crisi termina.
 


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