Amore e giustizia voglio cantare: così proclama il salmista in apertura del Salmo 101, assumendo le vesti di un re che vuole mantenersi fedele al Signore, governando bene. Chi prega il salmo, espresso nella forma di un dialogo con se stesso, è perciò associato alla coscienza di un simile re e al suo proposito di agire al contempo in modo giusto e benevolo. Nel testo, però, l’accento cade decisamente sull’intervento necessario a eliminare il male: Chi calunnia in segreto il suo prossimo io lo farò perire (v. 5); Sterminerò ogni mattino tutti gli empi del paese, per estirpare dalla città del Signore quanti operano il male (v. 8). La misericordia è esercitata solo nei riguardi di una parte: I miei occhi sono rivolti ai fedeli del paese perché restino a me vicino (v. 6). Per questo re, quindi, conciliare giustizia e benevolenza nell’azione di governo significa tutelare il buono e il giusto e punire il reo, eliminandolo.
Un tale modo di agire implica l’idea che per alcuni non c’è redenzione, è inutile trattarli benevolmente concedendogli una possibilità di riscatto. Ma questo contraddice nei fatti l’intento di coniugare amore e giustizia, perché, per essere davvero tali, vanno praticati verso tutti e non in modo unilaterale, a scapito di alcuni e a beneficio di altri, per quanto giusti e buoni possano essere. Quando però, come il re del Salmo 101, si cerca di realizzare quel connubio, ci si trova sempre di fronte al dilemma di come procedere per non ridurre la misericordia all’accettazione del male o la giustizia a giustizialismo. Per i credenti si tratta anche di una sfida teologica: come si conciliano in Dio giustizia e misericordia? E come tradurre in una prassi storica la fede in un Dio giusto e misericordioso?
Giustizia e misericordia nella Bibbia
La filosofia e la teologia, dovendo organizzare il proprio discorso in termini rigorosamente razionali, non riescono a raggiungere una sintesi soddisfacente di questi due attributi divini, che sembrano contrapporsi, escludendosi a vicenda. La Bibbia, invece, adotta un linguaggio metaforico e procede per immagini, non per definizioni, avendo quale riferimento fondamentale l’esperienza storica di un popolo con il suo Dio, descritta e rielaborata nel corso dei secoli. Così la parola che si è rivelata e si rivela più adeguata per parlare di Dio è Padre. La coscienza della paternità divina si sviluppa a partire dalla concezione del re come figlio di Dio: Annunzierò il decreto del Signore. Egli mi ha detto: «Tu sei mio figlio, io oggi ti ho generato» è il proclama del prescelto all’atto dell’insediamento (cfr Salmo 2,7). A sua volta, il re è chiamato ad agire come un padre verso i sudditi di cui gli viene affidato il governo. Da qui la possibilità di considerare Dio come Padre si estende a tutto il popolo.
Sono i profeti a esprimere questa coscienza popolare: Signore, tu sei nostro padre; noi siamo argilla e tu colui che ci dà forma, tutti noi siamo opera delle tue mani (cfr Isaia 64,7). In particolare l’amore paterno del Signore si manifesta nei confronti dei più deboli: Padre degli orfani e difensore delle vedove (cfr Salmo 68,6); e quando ci sono conflitti, come quelli che dividono Israele a nord e Giuda al sud: Non abbiamo forse tutti noi un solo Padre? Forse non ci ha creati un unico Dio? Perché dunque agire con perfidia l’uno contro l’altro profanando l’alleanza dei nostri padri? (cfr Malachia 2,10).
Rileggendo la storia con questa coscienza, l’esperienza della paternità divina viene fatta risalire all’Esodo e riconosciuta nel modo in cui Dio ha protetto il suo popolo nel viaggio lungo il deserto. Proprio all’inizio del discorso pronunciato sulla soglia della terra promessa, Mosè dichiara: Il Signore stesso vostro Dio, che vi precede, combatterà per voi, come ha fatto tante volte sotto gli occhi vostri in Egitto e come ha fatto nel deserto, dove hai visto come il Signore tuo Dio ti ha portato, come un uomo porta il proprio figlio, per tutto il cammino che avete fatto, finché siete arrivati qui (cfr Deuteronomio 1,30-31).
Infine, Dio-Padre è la cifra stessa dell’esperienza personale di Gesù e, tramite lui, diventa quella di chi crede al suo annuncio: Ma voi non fatevi chiamare rabbì, perché uno solo è il vostro maestro e voi siete tutti fratelli. E non chiamate nessuno “padre” sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello del cielo (cfr Matteo 23,8-9).
Come ogni altro nome o attributo impiegato per parlare di Dio, ci si muove sempre sul piano dell’analogia, per cui nel termine scelto la differenza prevale sulla somiglianza. Ma se adottiamo la metafora della paternità come la sintesi a cui ricondurre ogni altro discorso su Dio, allora anche la sua giustizia e la sua misericordia vanno comprese in analogia con quelle esercitate da un buon padre umano, ovvero non in assoluto, ma in relazione ai figli. Di conseguenza il “problema” di Dio non è solo di essere giusto e di amare senza parzialità, ma anche di preservare l’unione familiare, ovvero di far sì che la risoluzione degli inevitabili conflitti avvenga conservando e rinsaldando il vincolo dell’amore fraterno, attraverso la riconciliazione. Questa analogia fondamentale è al cuore del Vangelo e Gesù la illustra in modo esemplare nella parabola del padre misericordioso (cfr Luca 15,11-32).
Due pratiche di giustizia
Fatta questa premessa, come incarnare l’agire del Dio-Padre, giusto e misericordioso, nelle nostre pratiche di giustizia? Ci sono due vie percorribili a partire dagli eventi narrati dalla Bibbia: il mišpāt. e il rîb (cfr Bovati P. – Casalone C., «Giustizia e Sacra Scrittura», in Casalone C. – Foglizzo P. [edd.], Volare alla giustizia senza schermi, Vita e Pensiero, Milano 2007, 159-183).
Il primo corrisponde al procedimento giudiziario in tribunale: qualcuno denuncia un delitto; si svolge un’indagine per accertare i fatti e le persone coinvolte; gli imputati e la parte lesa si affrontano in un contradditorio pubblico; un giudice o una giuria emettono un verdetto di assoluzione o condanna; viene eseguita la sentenza. Questo avviene, ad esempio, nella vicenda di Susanna, una donna di rara bellezza e timorata di Dio, moglie di Ioakim, un ricco babilonese, insidiata da due anziani i quali, non riuscendo ad abusare di lei, l’accusano di aver tradito il marito. In prima istanza la donna è ritenuta colpevole e condannata a morte, ma il profeta Daniele fa riaprire il caso e con un abile interrogatorio fa emergere la verità e ribalta la sentenza. L’innocente Susanna è rilasciata, mentre i due anziani sono condannati a morte e giustiziati (cfr Daniele 13). Il racconto ha un chiaro intento edificante: il Dio d’Israele protegge chi gli è fedele e interviene ispirando uomini retti, come Daniele, per far trionfare la giustizia, che consiste nel dare vita all’innocente e morte al colpevole. Si tratta dello stesso schema soggiacente al Salmo 101, ma qui applicato a Dio, come lì al re, concretizzato in una pratica giudiziaria forense comune a tutti i popoli. In questo caso non si tenta una conciliazione, né sarebbe possibile: il male va estirpato dal contesto sociale, perché il modello di giustizia applicato punta a quello escatologico, il giudizio finale che Dio pronuncerà su tutti gli uomini, quando i giusti saranno premiati e vivranno per sempre beati e i malvagi saranno puniti per sempre o annientati.
Assumere un simile riferimento ideale è ideologico e fuorviante, perché può alimentare l’illusione di realizzare la giustizia in modo perfetto, riuscendo a separare nettamente fra loro il bene e il male, o, al contrario, «può talvolta far trascurare l’esigenza di portare un po’ più di giustizia sulla terra». Inoltre, «se lo sguardo si posa sui poveri, che per il giudizio divino entrano nella beatitudine del regno, l’animo è soddisfatto. Ma se si guarda al condannato, che ha pur sempre il volto umano del fratello, il cuore viene turbato» (cfr Bovati P. – Casalone C., «Giustizia e Sacra Scrittura», 171).
Del resto, i limiti del procedimento giudiziario come via per realizzare la giustizia sono evidenti fin dall’antichità, soprattutto quando il giudice, soggetto per principio solo alla legge, tende ad applicarla in maniera inflessibile. Per questo già Aristotele aveva teorizzato l’epiéikeia, ovvero la possibilità che il giudice sospenda l’applicazione della legge in un caso concreto, se ne dovesse scaturire un’azione ingiusta. Il principio aristotelico è stato assunto in particolare dal diritto canonico proprio per mitigare il rigore dell’equità con la dolcezza della misericordia.
Accanto al mišpāt. la Bibbia presenta il rîb, la lite bilaterale, quale via percorribile per ottenere giustizia. Invece di ricorrere a un terzo come arbitro, le due parti si confrontano direttamente fra loro. Chi ritiene di essere stato leso da un altro lo affronta, rinfacciandogli il male commesso e chiedendo spiegazioni; l’accusato può ribattere negando la colpa e accusando a sua volta l’altro di dichiarare il falso. Se le due parti non arrivano a un chiarimento, il danneggiato può decidere di procedere per le consuete vie legali. Ma se la colpa viene riconosciuta, la parte lesa offre il suo perdono e si accorda con l’altra sul risarcimento del danno. Così il conflitto viene risolto, le due parti si riconciliano e la loro relazione ferita viene ripristinata nella pace.
Proprio perché mira alla riconciliazione e non alla punizione del colpevole, il rîb è una procedura tipica negli ambienti familiari o fra amici, dove è interesse di tutti mantenere la questione nel privato e dove, nonostante il conflitto, non vengono meno l’affetto e la stima: l’altro è riconosciuto nella sua personalità, non viene ridotto né a un reo irredimibile da eliminare, né a un pericoloso accusatore da cui difendersi. La lite bilaterale, per essere efficace, presuppone nella vittima il coraggio di affrontare il colpevole, la fiducia nel suo possibile riscatto e la disponibilità a perdonarlo, e nell’accusato la disponibilità a riconoscere la colpa commessa, facendosi carico del dolore causato. Entrambe le parti, quindi, devono essere dotate di senso di responsabilità ed empatia l’una verso l’altra. «Nel processo la pubblica accusa deve convincere l’organo giudicante, poco importa cosa pensi o senta l’imputato. Nel rîb, invece la parola accusatoria vuole operare un cambiamento nell’altro, commuoverlo e farlo ragionare: più che l’oggettività della prova, quindi, cerca l’argomento che tocca il cuore, perché il colpevole acceda liberamente alla verità» (cfr Bovati P. – Casalone C., «Giustizia e Sacra Scrittura», 177).
Esempi di rîb si trovano nei profeti, inviati a scuotere la coscienza del popolo, di cui Dio non vuole la morte, ma la conversione (cfr Ezechiele 33,11). Così, una città grande e corrotta come Ninive crede alla minaccia profetica di Giona – Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta –, si pente del male commesso, si converte e viene perdonata da Dio (cfr Giona 3). Anche Gesù ricorre spesso al rîb, ad esempio in casa di Simone il fariseo, per giustificare l’operato della donna peccatrice nei suoi confronti e smascherare l’ipocrisia di una religiosità settaria, opprimente (cfr Luca 7,36-50).
Quali criteri e pratiche di giustizia?
L’anno giubilare della misericordia appena concluso ci ha invitato a mettere in discussione le nostre precomprensioni sulla giustizia, soprattutto quando si traducono in pratiche meramente punitive, inefficaci sul piano della deterrenza, incapaci di ridurre la recidiva e il livello di conflittualità sociale. Del resto i tentativi di definire cos’è la giustizia hanno mostrato i loro limiti, a partire dalla classica definizione di Ulpiano (III sec. d.C.): «a ciascuno il suo», in cui la nozione di “suo” può essere ridotta da chiunque a proprio vantaggio; o quella utilitaristica di Beccaria: «la massima felicità per il maggior numero», che inevitabilmente penalizza ed esclude “il minor numero”; o quella per via procedurale, in cui il “cosa” viene subordinato al “come” si realizza la giustizia (cfr Zagrebelsky G., «L’idea di giustizia e l’esperienza dell’ingiustizia», in Martini C.M., Le cattedre dei non credenti, Bompiani, Milano 2015, 1160-1165).
A livello teologico, attraverso la figura del Dio-Padre, ed esistenziale, con la pratica del rîb in alternativa a quella del mišpāt., la Bibbia indica nella riconciliazione un elemento strutturale della giustizia: non si può pensare di averla realizzata davvero finché le due parti restano in conflitto. Si tratta, infatti, di una relazione fra diversi, in cui il confronto può essere distorto in termini di superiorità e inferiorità, ragione e torto, bene e male o altre categorie che impediscono alle parti di riconoscersi e dialogare fra loro. In questi termini di relazione interpersonale «il soggetto è definito giusto o ingiusto a seconda del suo modo giusto o ingiusto di rapportarsi con l’altro» (cfr Bovati P. – Casalone C., «Giustizia e Sacra Scrittura», 164-168).
Oggi la pratica più vicina al senso e agli obiettivi del rîb è la mediazione, penale e civile: ogni qual volta la figura del giudice può essere sostituita o affiancata da quella del mediatore, si attiva un processo virtuoso il cui risultato è molto più efficace in termini di giustizia riparativa. Ne abbiamo esempi particolarmente illuminanti nella Commissione per la verità e la riconciliazione, istituita in Sudafrica da Mandela, e nell’incontro fra gli ex brigatisti e i parenti delle vittime (cfr Bertagna G. – Ceretti A. – Mazzucato C. [edd.], Il libro dell’incontro, Il Saggiatore, Milano 2015).
La Bibbia e l’esperienza della mediazione più che sulla giustizia, raffigurata dal giudice, orientano lo sguardo sull’uomo giusto, di cui una figura è il mediatore, colui che intercede, ovvero «si pone nel mezzo» del conflitto, per realizzare quella sintesi di misericordia e giustizia che caratterizza l’essere e l’agire del Dio-Padre, come disse il card. Martini il 29 gennaio 1991 durante l’omelia in occasione della veglia per la pace.