Giustizia

Il nostro bene comune

Michael Sandel
Feltrinelli, Milano 2010, pp. 332, € 25
Scheda di: 
Fascicolo: gennaio 2012
L’Autore, docente di Filosofia politica e teoria del governo all’Università di Harvard (USA), propone un’etica critica delle tendenze moderne – in particolare individualismo utilitaristico e liberale e formalismo – e propugna una rinnovata attenzione alle molteplici virtù che si danno nella socialità della vita. Inoltre è noto per il successo delle lezioni sulla giustizia, specie in rapporto alla libertà, tenute ad Harvard www.justiceharvard.org). Il testo che presentiamo ne offre il contenuto e ne lascia intravvedere lo stile didattico. Di fatto il lettore si avverte piuttosto come uditore, accanto a un pubblico partecipante e consenziente sia alle critiche, sia alla proposta che Sandel lentamente costruisce. «Chiedersi se una società sia giusta significa chiedersi come distribuisce le cose a cui diamo valore: il reddito e la ricchezza, i doveri e i diritti, il potere e le occasioni, le cariche e gli onori» (p. 27). Per rispondere a questo quesito, l’A. presenta figure della storia della filosofia o tendenze etiche contemporanee, non in ordine cronologico, ma in maniera funzionale a illuminare le diverse concezioni di giustizia, e ne rende plastiche le tesi, mostrando quali soluzioni ne derivano tramite la formulazione di dilemmi eticopolitici sull’attualità, a volte soltanto statunitense, ma spesso – sia pure a partire da un’ambientazione statunitense – più ampia. Dopo il primo capitolo introduttivo («Fare quel che è giusto»), l’indagine di Sandel prende le mosse (cap. II) dall’utilitarismo dei filosofi britannici Jeremy Bentham (1748-1832) e John Stuart Mill (1806-1873), secondo i quali è giusta quella società che accresce l’utilità, cioè il piacere, dei più. Ma «il difetto più lampante dell’utilitarismo è che non rispetta i diritti individuali» (p. 46), oltre al fatto che le azioni umane non sono animate da un piacere quantificabile in modo identico, presupposto di partenza di queste teorie. Sandel passa quindi a trattare il libertarismo (cap. III e IV), che ha come massimi esponenti il filosofo dell’economia austriaco Friedrich von Hayek (1899-1992), l’economista Milton Friedman (1912-1962) e il filosofo Robert Nozick (1938-2002), entrambi americani. Le concezioni libertarie «auspicano Un mercato svincolato da ogni forma di regolamentazione imposta dal governo, in nome non dell’efficienza economica, ma della libertà degli esseri umani» (p. 71). Ma, soprattutto, la teoria libertaria ripudia tre tipi di leggi: quelle mirate a impedire alla persona di procurarsi un danno (ad esempio l’obbligo del casco per i motociclisti, cfr p. 71), quelle fondate su principi etici (come il divieto della prostituzione) e quelle che prevedano forme di redistribuzione del reddito o della ricchezza (ad esempio politiche sociali finanziate attraverso l’imposizione fiscale). Tali tendenze «sono state portate alla ribalta con grande efficacia retorica da Ronald Reagan e Margaret Thatcher» (p. 72): il consenso individule sul modello dei contratti è davvero l’emblema unico della libertà e il criterio di liceità dei limiti e degli oneri imposti dalla legge? Si prosegue poi (cap. V) con il filosofo tedesco Immanuel Kant (1724-1804). Come i suoi predecessori, tra i quali l’inglese John Locke (1632-1704), Kant fonda la legittimità della legislazione politica su un patto di obbedienza, però diverge da loro perché lo presenta come “idea della ragione” più che come un fatto accaduto. Il contratto sarebbe dunque la fonte di giustizia tra gli uomini: perché? Non esistono contratti ingiusti? Quali sono le condizioni di un contratto ideale? Queste domande traghettano il lettore al capitolo dedicato a un grande teorico del contratto (cap. VI): l’americano John Rawls (1921-2002). A suo parere, prima di ragionare sui termini del contratto, bisogna indossare il “velo di ignoranza”: nessuno dei contraenti conosce la posizione sociale che occuperà una volta stipulato il contratto, né il proprio credo filosofico-religioso e tutto ciò che può generare divisione tra gli uomini. Partendo da una posizione originaria di radicale uguaglianza, tutti converranno sui medesimi principi, non puramente astratti, dando vita a istituzioni politiche giuste. Ma, in definitiva – si chiede Sandel –, quale ideale morale sorregge la scelta preliminare del velo? Noi cittadini di istituzioni politiche giuste come ci autocomprendiamo da un punto di vita morale? Con una terminologia piuttosto continentale si direbbe: qual è la nostra personalissima opzione morale fondamentale? Rawls ne propone una a dir poco vertiginosa: si deve creare una società in cui, quanto meno a livello di legislazione, non abbia un ruolo determinante il caso o la “lotteria della vita”, da cui dipendono non solo le ricchezze, ma anche le “doti naturali”, quali intelligenza e carattere. Per intenderci: non solo i denari necessari per l’iscrizione a Harvard, ma – poniamo – quella dose di sana aggressività innata che fa eccellere a Harvard. Ma non basta ancora: l’intransigenza ugualitaria di Rawls si spinge sino al rifiuto della «compensazione del merito morale» (p. 182), anch’esso, alla pari del carattere, parte di quelle condizioni di partenza distribuite casualmente e quindi moralmente non rilevanti. Chi nasce in qualunque modo più favorito dovrebbe impiegare le proprie doti per colmare la distanza sociale tra sé e gli altri. La critica di Sandel a questo intransigente ideale di uguaglianza inizia in modo strano (cap. VII): forse tra Rawls, che azzera anche le differenze di “merito”, e il filosofo del diritto Ronald Dworkin (1931), che per quanto riguarda il diritto di iscriversi all’Università rifiuta il criterio dei “meriti” accademici preferendo affidarsi a fatti anche puramente economici, non esiste poi una grande diversità. Pur da sponde opposte, ambedue ignorano la realtà del “merito morale” (cfr p. 197). Per spiegarsi, Sandel inventa due lettere (cfr pp. 202- 203). Nella prima, l’Università comunica il rifiuto di una domanda di ammissione a un candidato che non possiede le caratteristiche fattualmente necessarie: coloro che sono stati accettati «non hanno meritato di ricevere quel posto né sono degni di lode per le loro doti al momento dell’ammissione» (p. 203). Nella seconda, l’Università comunica una accettazione: «Lei merita le nostre felicitazioni […] ma solo nel senso in cui è lecito congratularsi col vincitore di una lotteria. Lei ha la fortuna di essersi presentata al momento giusto con le caratteristiche opportune» (ivi). Se queste lettere suonano irreali non è forse perché le Università non hanno ancora rinunciato a «onorare e premiare determinate virtù» (p. 204)? L’alternativa è costituita dalla virtù e dal suo riconoscimento, ossia – l’idea è greca – dall’onore. A questo punto si giunge ad Aristotele (cap. VIII). Una citazione più lunga ci aiuta: «La ragione per cui [secondo Aristotele] le cariche e gli uffici più elevati dovrebbero essere affidati a persone come Pericle (e Abraham Lincoln) non è semplicemente che queste persone saranno in grado di attuare provvedimenti meditati, procurando a tutti un vantaggio; è anche che la comunità politica esiste, almeno in parte, per onorare e premiare la virtù civica. Concedere il pubblico riconoscimento a chi mostra di possedere eccellenti doti civiche realizza il ruolo pedagogico della città ben ordinata; ancora una volta vediamo qui andare di pari passo gli aspetti teleologici e quelli onorifici della giustizia» (p. 219). Sandel prosegue con un richiamo all’identità narrativa, per cui noi non nasciamo in solitudine e i legami che precedono la nostra scelta non sono necessariamente un limite doloroso, e con un elogio del “patriottismo” o della “appartenenza” (cap. IX) che viene efficacemente spiegata: «Essere capaci di inorgoglirsi o di vergognarsi per le azioni compiute da persone della nostra stessa famiglia o da nostri concittadini si collega con l’essere capaci di assumersi una responsabilità collettiva; in entrambe le situazioni occorre concepire sé stessi come soggetti collocati in una specifica situazione, obbligati da vincoli morali che non abbiamo scelto e coinvolti nelle narrazioni che configurano la nostra identità di agenti etici» (p. 265). Il libro termina (cap. X) nominando con ammirazione uomini politici americani (Robert Kennedy e Barack Obama), che hanno portato le proprie convinzioni etiche e politiche a incidere sul dibattito pubblico in materia di giustizia. Rispetto a temi quali aborto o unioni omosessuali, emerge come non sia possibile assumere a riguardo un atteggiamento politico o legislativo “neutro”: discutere sull’inizio della vita umana è un «dibattito politico» (p. 284), e le questioni sull’opportunità o meno del matrimonio tra omosessuali investono «[la] rispettabilità e [il] riconoscimento che la nostra società conferisce con il matrimonio sancito dallo Stato» (p. 285). Al termine delle lettura, va sottolineata la connessione che Sandel pone tra la capacità di assumere una responsabilità collettiva e il provare orgoglio o vergogna per azioni compiute da altri: una sorta di fierezza strutturante la vita. Allo stesso modo, notiamo la riserva che l’A. formula sull’uso corrente della parola “consenso” (politico), che oscilla tra il calcolo utilitaristico e la pseudoneutralità liberal. Infine, alcune domande possono aiutarci a comprendere il senso del volume nel nostro contesto: come e dove avviene per noi italiani l’educazione alla cittadinanza? In quali occasioni possiamo avvertire, nell’incontro con altri, un riconoscimento di positive qualità di vita? In termini rigorosamente antichi: quali sono i nostri “spazi politici”?
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