Tutti concordano oggi nell'apprezzare il manifestarsi e il progredire del senso della giustizia, ritenuta un bene indispensabile per l'individuo e la collettività umana, e tutti riconoscono perciò la necessità di un conveniente apparato legislativo e di istanze autorevoli capaci di farlo rispettare. In questo la coscienza moderna si ricongiunge con i valori propugnati dalla Bibbia, che più di ogni altra tradizione culturale antica esalta il concetto di giustizia quale dovere primario di ogni soggetto, e quale desiderio e promessa della storia umana.
La convergenza tra la sensibilità odierna e la pagina biblica è invece minore quando si dettagliano le modalità attraverso le quali il diritto viene concretamente promosso o ristabilito nella società: troppo elementari e in certi casi persino brutali appaiono le forme procedurali attestate nella Sacra Scrittura, specie nell'Antico Testamento, e insoddisfacente risulta alla fine il concetto stesso di «giudizio», anche e specialmente quando è attribuito al potere divino, nella misura in cui impone la giustizia mediante coercizione violenta, senza un'adeguata attenzione ai diritti inalienabili della persona colpevole.
Non sembra allora inutile presentare, in una breve panoramica, i tratti più rilevanti della procedura forense dell'Israele biblico, così da accoglierne la proposta di senso e, al tempo stesso, maturare una valutazione critica più rispettosa di questo patrimonio culturale. La Bibbia stessa ci guiderà nel nostro percorso di approfondimento.
Giudicare con giusto giudizio
Ogni società è interpellata dall'insorgere della violenza; ogni sistema civile predispone dunque opportune normative perché l'offesa contro il diritto non degeneri in sistematico disordine e sopruso. Ciò si applica anche al mondo biblico. Troviamo perciò nella Scrittura codici legislativi differenti (Esodo 20-23; Levitico 17-26; Deuteronomio 12-26), frutto di una secolare esperienza ispirata anche da principi religiosi: l'incessante cura per la giustizia imponeva infatti periodiche integrazioni o revisioni delle leggi vigenti.
Nella tradizione biblica, un posto di rilievo è riservato all'istituzione del corpo dei giudici. Nel libro dell'Esodo il racconto che ne descrive l'origine e ne fornisce le motivazioni è addirittura premesso all'evento della promulgazione del Decalogo (cfr Esodo 18, 13-27). Ciò significa che la legge richiede intrinsecamente l'esercizio concreto della sua interpretazione, ed esige altresì che a un organismo autorevole venga attribuito il potere di farla osservare da tutti.
Riguardo all'atto del giudicare, la Scrittura raccomanda la sollecitudine dell'intervento, che, in linguaggio non solo figurato, doveva essere effettuato allo spuntare del giorno, appena cioè era possibile far luce sui fatti e ripristinare il diritto là dove fosse stato calpestato (Geremia 21, 12). D'altro canto, si prescrive l'accuratezza delle indagini (Deuteronomio 13, 15; 19, 18) per evitare giudizi sommari o precipitosi che possono comportare la condanna di persone innocenti. Il diritto della difesa è pienamente garantito dai codici dell'Antico Testamento, con una specifica attenzione a tutelare le classi sfavorite (gli orfani, le vedove, gli immigrati, ecc.), quale segno di rispetto per i diritti soggettivi di tutti, e quale monito a non sottostare a pressioni dei ceti abbienti o dominanti.
Un simile dispositivo, sommariamente descritto, viene applicato dalla Scrittura all'azione giudicante di Dio nella storia, là dove il giudizio degli uomini risulta corrotto o insoddisfacente. Tutti i valori di giustizia racchiusi ed esigiti dalla procedura penale formulata nei codici trovano piena e sublime realizzazione nella perfetta condotta del Signore dell'universo. Questa è l'affermazione di fede che fonda la speranza dei credenti. Ora, è proprio la consacrazione del modello processuale dell'Antico Testamento, assurto a unico e onnipresente modulo operativo, a costituire un problema alla coscienza contemporanea, almeno per qualche aspetto che non appare adeguato né al senso di giustizia, né all'idea stessa di Dio.
Giudicare e punire
Il punto di fragilità del sistema di procedura penale attestato nei codici e nella prassi dell'antico Israele è costituito dall'apparato sanzionatorio. Certo, è ammesso da tutti che un giudizio non debba solo stabilire chi sia innocente e chi sia colpevole; è pure indispensabile che la vittima venga in qualche modo risarcita, e che al reo venga irrogata una pena proporzionata al suo crimine. Anche il nostro codice penale si attiene a questi principi, applicando di fatto quella che è stata impropriamente chiamata la «legge del taglione» (occhio per occhio, dente per dente, mano per mano, piede per piede: Esodo 21, 23-25; Levitico 24, 19-20; Deuteronomio 19, 21), che nella tradizione biblica non autorizza affatto la vendetta (privata), ma - prendendo a modello diverse offese corporali - prescrive piuttosto che vi sia una sorta di simmetria, o meglio di ragionevole proporzione tra la colpa (il danno inferto) e la pena (il danno da subire come sanzione).
La punizione comunque, a ben vedere, è sempre una sconfitta della relazione interpersonale; la sofferenza inferta a una persona, anche se colpevole, ferisce profondamente pure colui che la infligge, e costituisce peraltro una magra soddisfazione per chi ha patito un torto. Per queste ragioni la sanzione, quale esito ultimo del procedimento di giustizia, ha lasciato insoddisfatti gli uomini sensibili ai diritti umani, specie se, come è riportato nelle pagine bibliche, essa assume la forma della punizione corporea, crudele e umiliante (quale la fustigazione o la mutilazione: Deuteronomio 25, 1-12), e soprattutto quando diventa pena capitale (Deuteronomio 13, 10-11 e molti altri passi). Su quest'ultimo punto, ma più in generale su tutta la questione penale, la Bibbia è lo specchio di ciò che venne praticato presso tutti i popoli fino a qualche tempo fa, e che, con rammarico e disapprovazione di molti, è ancora oggi prassi legale in alcune nazioni, talvolta persino in obbedienza a dettami religiosi. Anche Dio, il Dio della Bibbia, è allora posto in questione per ciò che ha comandato di fare, e per ciò che nel libro sacro a Lui si attribuisce quale attuazione del suo compito di giudice della storia. Il principio della sacralità della vita e quello, altrettanto fondamentale, dell'assoluto rispetto della dignità di ogni persona non sembrano concretamente propugnati dal testo scritturistico, che apparentemente porta con sé il carattere dell'imperfezione storica. Il principio vita per vita della legge del taglione, scrive P. Rémy, «ha una grandiosità etica tragica», perché «per affermare il valore incomparabile della vita umana si è paradossalmente indotti a distruggerla» (in Sciences Ecclésiastiques, 19 [1967] 329).
Le finalità positive dell'azione sanzionatoria, quelle che la filosofia del diritto ha esplorato come giustificazione della sanzione, non mancano di suscitare perplessità. Si parla spesso, ad esempio, del dovere di «fare giustizia» conferendo la «giusta retribuzione» per il male perpetrato (ad esempio Geremia 32, 19), così che il reo non solo non tragga vantaggio dal suo misfatto, ma anzi espii con la sofferenza per ciò che è stato causa di sofferenza negli altri (cfr Genesi 9, 6). Anche se oggi ufficialmente non si ricorre più a supplizi crudeli, anche se in alcune nazioni in cui viene applicata la pena capitale si tenta di rendere la morte fisicamente indolore, rimane l'intrinseca violenza dello stesso atto di giustizia, che rende insoddisfacente e, secondo molti, persino intollerabile questa «vendetta pubblica». Si sono abbandonati i procedimenti sanzionatori prescritti dalla Bibbia e quelli delle civiltà arcaiche perché troppo esplicitamente violenti; ma l'immagine di un Dio che ne fa uso, secondo la lettera biblica, continua a perdurare nell'immaginario religioso, creando un pericoloso sdoppiamento di coscienza.
Si ritiene che un'altra finalità positiva della pena sia l'emendazione del colpevole (cfr Deuteronomio 30, 1-2); si suppone infatti che la sofferenza del castigo favorisca il cammino interiore che porti il reo a un più adeguato comportamento nel futuro. Non sono senza critiche i procedimenti concreti che, nei vari ordinamenti statuali, dovrebbero servire alla rieducazione del reo e al suo inserimento nella società. Se la sanzione si limita infatti a contenere la pericolosità sociale di qualche individuo non realizza appieno il suo intento. Se poi la pena non lascia spazio alla speranza di una vita sociale ripristinata - e questo è il caso della pena di morte o della detenzione a vita - la finalità emendativa risulta quasi inconsistente. Punire appare così inutilmente crudele, e se chi lo fa nella Bibbia è Dio, tendendo così a divenire una procedura dai caratteri «eterni», il suo giudizio sembra non tener conto della proporzione tra delitto e pena, e pare inoltre avere scarsa utilità per le vittime e nessuna per il colpevole.
Alcuni giuristi hanno giustificato il sistema repressivo penale a motivo del beneficio della deterrenza, che si può definire come il giusto timore del castigo, efficace nel prevenire in futuro l'atto criminoso. Come afferma Deuteronomio 13, 12: quando tutto Israele verrà a conoscenza della sanzione, avranno paura e non si continuerà più a commettere una simile azione. Se alcuni difendono lo strumento punitivo quale dispositivo educativo, altri ne criticano aspramente il ruolo di freno al diffondersi della violenza, perché la minaccia del castigo non si è affatto dimostrata di pubblica utilità. Anche su questo punto dunque l'insegnamento biblico sul «giudizio» non convince pienamente. E per quanto concerne l'immagine di Dio che castiga per insegnare la giustizia (Isaia 26, 9), sono gli stessi testi della Bibbia a introdurre correttivi e critiche al sistema del terrore sanzionatorio: la moderazione del Signore nel suo agire storico che lascia spazio alla conversione (Sapienza 11, 15-12, 22), la sua divina «pazienza» che esprime la natura benevola del Re dell'universo (solo come esempio Esodo 34, 6 o Sapienza 15, 1), la sua incessante offerta di perdono (come nel caso emblematico di Ninive che si pente dopo la predicazione di Giona), sono ripetutamente attestate e diventano prevalenti nel Nuovo Testamento. Come allora tenere assieme l'idea di un Dio giudice che non lascia nulla di impunito e quella del Padre indulgente che assolve tutte le colpe? Come, a partire da questo sublime modello, prospettare un'azione giudiziaria umana che si preoccupi di riconciliare più che di condannare?
Giudicare e salvare
Le riflessioni finora condotte hanno inteso mostrare l'intrinseca problematicità del concetto di «giudizio». Per quanto si cerchi di rendere ragionevole la procedura penale e umano il dispositivo sanzionatorio, permane un senso di incompiutezza nell'atto di giustizia modulato esclusivamente secondo la forma del tribunale. La Scrittura, in realtà, suggerisce di inserire il momento penale in un quadro più ampio, e invita ad assumere il «modello» divino del ristabilire la giustizia. Secondo la Bibbia il modo di far fronte al comportamento delittuoso non è esclusivamente quello che ha luogo nelle aule giudiziarie. Nella famiglia, là dove le relazioni sono improntate all'amore, chi assume il compito di correggere ha costantemente di mira non la vendetta, ma la riconciliazione. La fase punitiva è una tappa intermedia, dolorosamente problematica, che ha senso solo se aiuta a ripristinare la relazione d'amore, nella verità e nel reciproco rispetto.
Dio, nella storia, è come un padre che castiga suo figlio quando gli strumenti di parola si sono rivelati improduttivi; l'intento costante rimane sempre quello di salvare la relazione, o meglio di salvare il colpevole liberandolo dal suo proprio perdersi. Nella storia, finché vi è spazio per un atto di libertà da parte dell'uomo, ogni azione divina, ispirata essenzialmente dall'amore, avrà di mira il toccare il cuore del colpevole, perché solo dalla ritrovata adesione al bene, in vera libertà, l'uomo è ridonato alla sua piena dignità. Nella storia, il giudizio di Dio è quello esercitato in modo autorevole dal Signore Gesù, che non è venuto per condannare, ma per salvare (Giovanni 12, 47): egli accusa, esorta e minaccia, pone anche gesti di sanzione, che sono finalizzati a favorire la conversione e a permettere l'abbraccio della riconciliazione. In modo analogo, anche l'azione umana di giudizio dovrà inserire l'aspetto penale nel progetto più ampio e sempre perfettibile di promozione della «salvezza» del colpevole, attraverso il perdono.
Finché c'è storia Dio non giudica, ma si serve anche del castigo per correggere le umane perversioni e riportare tutti al bene. Alla fine della storia, invece, si profila la figura estrema e davvero terrificante del Dio giudice, che separa i buoni dai malvagi, assegnando a ciascuno il salario delle sue opere (Matteo 25, 31-46). Ma senza la prospettiva del giorno ultimo del giudizio, del dies irae, sarebbe annientata la differenza tra l'atto giusto e quello ingiusto; senza la profezia del giudizio finale non sarebbe apprezzata l'umile ricerca di giustizia da parte della libertà umana. Il timore santo che può scaturire dalla visione escatologica del Cristo sul trono del giudizio è uno strumento di bene; ma più efficace ancora è la via che vede in tutte le manifestazioni storiche di Dio l'attuarsi di un amore che, là dove vi è uno spiraglio di accoglienza, redime da ogni colpa. All'uomo è stato dato il compito di significare e attuare questo medesimo progetto.