È della libertà e delle sue sorti nell’odierna società che questo testo tratta. La libertà, realtà magica, inattaccabile (chi si proclama, oggi, contro la libertà?), è ammalata. Qualcosa, da qualche parte, è andato storto. Il tragitto principiato dagli AA., che si cimentano con un tema che corre sempre il rischio di essere sviluppato in modo banale e scontato, traccia una parabola complessa che, partendo da una ricostruzione puntuale del contesto socio-culturale odierno, si conclude con il delinearsi di un nuovo soggetto storico: il soggetto generativo.
Punto di partenza del percorso è una constatazione semplice, eppure forse ancora poco considerata nella sua grave portata storica e antropologica: vivere la libertà in “regime di libertà” istituisce un’esperienza radicalmente diversa di quest’ultima rispetto a quella vissuta in “regime di costrizione”. Un percorso secolare ha condotto la civiltà occidentale, alla fine degli anni ’60 del Novecento, alla prima stagione storica in cui la libertà è diventata, infine, un’esperienza di massa. Benessere economico, diritti democratici e pluralismo culturale, dichiarano gli AA., sono finalmente alla portata della stragrande maggioranza della gente. Una libertà per tutti, sciolta dalle catene e dai vincoli che impedivano all’individuo di realizzare i propri desideri. Sterminati i tiranni, prese le Bastiglie, abbattuti gli dèi, siamo liberi, infine.
Ma questa stagione di apertura, di “trionfo” della libertà, che soggetto umano, quale concezione dell’io e delle sue aspirazioni ha intercettato? Si tratta di un soggetto pensato come aperto: al godimento e alle sue infinite possibilità, all’autodeterminazione, all’efficienza, alla salute, al benessere. Una monade isolata, fonte di diritti, e, nella fattispecie, proiettata in direzione di un “diritto” fondamentale, forse il diritto implicito, non normato, eppure più efficace e reclamato dei nostri tempi: il diritto a godere, il mio diritto a godere. Un io libero, sì, ma eternamente adolescente, individualista, volontaristico, beatamente immerso nel “nichilismo sorridente”, abitante inebetito del paese dei balocchi.
Il sistema tecno-economico contemporaneo, sopravvissuto al crollo delle ideologie politiche del secolo passato, accetta ben volentieri un simile concetto di libertà, poiché ne fa il carburante essenziale del suo funzionamento. «Godi! Performa! Sei libero, dunque desidera». Già, desidera: ma che cosa, e come? L’impianto consumistico si organizza così intorno a quello che gli AA. definiscono il «circuito potenza-volontà di potenza». Vale a dire: siamo liberi, desideriamo, esprimiamo una volontà di essere – cioè godere consumando: consumo, ergo sum – e a questa volontà, fondamentalmente narcisistica e autoreferenziale, il sistema non fa che rispondere con il linguaggio che gli appartiene: la merce. Oggetti, a palate. Ingiunzione a godere.
Ed ecco dunque la domanda che Magatti e Giaccardi ci rivolgono: la libertà in “regime di libertà” è davvero libera? O non è forse asservita a un padrone ancor più micidiale di quelli che la vessavano in passato, tanto più insidioso e letale, quanto più silenzioso e impalpabile?
L’insostenibilità di un modello socio-economico fondato solo sul consumo – tema di cui gli AA. hanno già avuto modo di occuparsi (cfr ad es. MAGATTI M., L’infarto dell’economia mondiale, Vita e Pensiero, Milano 2014) – ci provoca e ci interroga a scoprire nuovi percorsi. E qui troviamo, a nostro avviso, una delle più felici intuizioni degli AA., i quali prendono decisamente le distanze da un’ormai logora – ma ancor di moda – modalità di affrontare il tema del consumo. Questo, lo sappiamo, è stato sottoposto negli ultimi anni a ogni genere di critica, considerato quasi esclusivamente nel suo versante degenere, disumano, come movimento di fagocitazione distruttiva e narcisistica: lo spreco, l’opulenza, la decadenza.
Tutte critiche assolutamente legittime e non contestate dagli AA., che, tuttavia, fanno un passo indietro e prima di denunciare l’“effetto perverso” del consumo, ne focalizzano un tratto più originario. Ovvero, l’uomo non è consumens accidentalmente, perché la società odierna impone una struttura di potere che lo costringe e predispone così, e non altrimenti; egli è consumens qua talis, cioè ontologicamente. C’è una dimensione del consumare, dell’assumere, dell’incorporare, del «ricevere per poter essere, e perseverare nell’essere» che fa parte della nostra natura, che non possiamo eludere, da cui non possiamo e non dobbiamo “liberarci”. È, il consumare, una «sapienza saporosa», un tratto costitutivo dell’esperienza di sapiens, prima che una strategia dell’apparato: «Il consumo è dunque fondamentalmente un atto d’incorporazione che avviene attraverso i sensi: acquistando un oggetto, ascoltando un brano musicale, guardando una partita di calcio, facendo l’amore con il proprio partner, gustando un gelato, noi incorporiamo la realtà, ne sentiamo il sapore. […] Il problema si verifica quando si pretende di ridurre a questa sola modalità il nostro rapporto con la realtà» (p. 41). Dunque il consumo è una esperienza umana fondamentale, quindi più che combattere l’ideologia che lo propugna, inventando una contro-ideologia da contrapporgli, si deve piuttosto comprendere la portata umanizzante che esso comporta e che solo una sua unidirezionale declinazione perverte.
Ed è a questo punto del percorso che gli AA. introducono la parola che costituisce il nucleo della pars construens del testo: generatività. Il termine costituisce uno dei due lemmi tramite i quali lo psicologo sociale Erik Erikson delinea i due fondamentali, possibili sviluppi della personalità adulta. Da una parte la stagnazione, la progressiva autocentratura del soggetto su se stesso, l’incapacità di aprirsi a una dimensione esistenziale che comporti una responsabilità verso l’altro, verso gli altri. Una personalità narcisistica, incapace d’immaginare un futuro, di progettare e di proiettarsi fuori dagli angusti limiti dell’io (cfr p. 37). Si realizza qui il rifiuto di accettare il limite contro il quale, inevitabilmente, vado a sbattere, nella misura in cui procedo un passo oltre me stesso: un limite che, se non vissuto come quel «reale che resiste alla mia presa» e che mi costringe a riconfigurare la percezione che ho di me stesso, si configura come il nemico dal quale schermarmi. Ma lontani dai limiti, ci suggeriscono gli AA., diventiamo illimitatamente soli, percorsi unicircolari d’atomica solitudine, sterilità, vacuità.
Alternativa alla tomba dell’io autocentrato e autocefalo – e per questo microcefalo – della stagnazione è la generatività. La personalità generativa accetta la sfida del limite e della resistenza contro cui si scontra. L’io generativo, limitandosi, si apre all’illimite dell’altro, e così diventa, infine, se stesso. Decentrato, si riassesta. Perdendosi, si ritrova. Donandosi – Magatti e Giaccardi contrappongono takers e givers – riceve. Gli AA. propongono così una via alternativa alla battaglia contro l’ideologia consumistica. Un programma che è espresso in maniera chiara nel titolo stesso: Generativi di tutto il mondo unitevi! Ovvero: non è necessario lottare contro, ma impegnarsi per; non denunciare indignati, ma generare, generosi e grati, qualcosa d’altro, per l’altro, insieme.
Ed è, questa, una buona notizia e una strada bella: contrastare e contestare non tanto con le parole dell’utopia e nemmeno con proclami moralistici. È, questo della generatività, un cammino concreto, una vera e propria rivoluzione antropologica: «Il generare ha quindi la forza per contrastare il dominio uniformante del consumare. La cosa interessante, però, è che tale contrasto non avviene sul piano normativo – indicando quello che si deve o non si deve fare – quanto piuttosto sul piano della disposizione antropologica. In questo modo, la nostra capacità generativa acquista uno straordinario potenziale di risanamento di molti fallimenti della libertà contemporanea» (p. 43).
Si tratta dunque di riscoprire e lasciar essere una disposizione antropologica originaria. E per farlo non è necessario sovvertire il sistema. L’uomo è un essere generativo, è costruito così: consuma e genera. Trascendentali antropologici, il consumare e il generare si scoprono infine come coessenziali. Si è ritenuto possibile e legittimo consumare senza generare, ma questo modello ha mostrato tutta la sua fallacia nel corso degli ultimi anni: scommettere solo sul consumo ha prodotto la crisi globale entro la quale siamo tuttora avvinti. Consumare senza generare è stato possibile per un periodo in cui il vento in poppa spingeva le rapaci navi del business verso vergini isole da saccheggiare. Ora questo movimento si è esaurito e se ne vedono ovunque gli effetti. Come ripartire? Scommettendo sulla spinta – mai inerte – della generatività, non come atto semplicemente contrapposto al consumo in senso polemico, ma come suo necessario e ineludibile contro-movimento.
E l’equilibrio tra i due movimenti antropologici originali non è “predisposto”: siamo noi che possiamo, e dobbiamo, decidere come gestire le polarità che ci abitano, come ordinare l’una all’altra, quando, e in che misura. Una libertà in itinere.
Irriducibile al suo portato meramente biologico – anche se a esso certamente connesso –, il movimento del generare è anche «simbolico, politico, antropologico. È, cioè, farsi tramite perché qualcosa che vale, grazie a noi […], possa esistere. In questo senso, mettere al mondo include ogni atto di filiazione simbolica» (p. 44). A partire da tali coordinate fondamentali, gli AA. dettagliano la loro proposta in un cammino dove si intersecano approfondimenti teorici ed esempi concreti. Una proposta che si realizza entro gli argini di una soggettività contrassegnata da limiti, difetti, traumi, ferite; ma anche da slanci, generosità, guizzi d’ingegno e propositività.
Update RequiredTo play the media you will need to either update your browser to a recent version or update your
Flash plugin.
© FCSF 