Funzionare o esistere?

Miguel Benasayag
Vita e Pensiero, Milano 2019, pp. 104, € 13
Scheda di: 
Fascicolo: dicembre 2019

Una spassionata difesa della nostra fragilità: potremmo sintetizzare così il messaggio che Miguel Benasayag ci lancia dalle pagine del suo recente lavoro. Noto in Italia per il celebre Le passioni tristi (scritto con G. Schmidt, Feltrinelli 2004, cui fa seguito Oltre le passioni tristi, Feltrinelli 2016, recensito in Aggiornamenti Sociali, 10 [2016] 694-696), l’A. è un acuto indagatore della nostra condizione esistenziale nel presente, ovvero in quella società capitalistica, in quel moderno mondo accelerato, che sembra non sapere più che farsene dello spessore dell’esistenza umana, del suo bisogno di senso. Che cosa ci stiamo perdendo, dunque, in questa illusione collettiva che ci separa dai nostri bisogni più profondi, dalle nostre attese più vere? E insieme: che cosa resta, che cosa oppone resistenza a tale riduzione? Quali risorse è possibile attivare?

Funzionare o esistere: questo è il dilemma. I due termini definiscono un aut aut, ci pongono a un bivio, e anche la struttura dell’agile saggio del filosofo e psicanalista argentino rispecchia una simile dicotomia.

I primi due capitoli («Cos’è accaduto» e «La tabula rasa della tecnica») sono dedicati a una ricognizione degli effetti che gli imperativi tecnologici imprimono alla vita, riducendo l’esistere al funzionare.

Lo scenario è complesso: il funzionare può servirsi senza dubbio dell’apparato delle tecnologie che si insinuano sempre più in profondità nei recessi della vita (dagli smartphone alle innumerevoli app che scandiscono le nostre relazioni), ibridandosi con l’esistenza, così come dell’onnipresente informatica che tende a scomporre la complessità dell’esistere in «pacchetti di dati» controllabili e manipolabili attraverso algoritmi. A ciò si aggiungono inoltre le scienze cognitive, che forniscono un’immagine della mente umana come processore e calcolatore di informazioni, ma è indubbiamente il sistema economico del consumo il responsabile della vittoria del funzionare sull’esistere.

In effetti, la nostra vita quotidiana viene progressivamente costretta a rientrare in uno schematismo preordinato che la rende funzionale alla società dei consumi: in termini di «risorse umane», ormai di uso comune, ritroviamo il tentativo di ridurre la vita a materia prima utilizzabile dagli apparati di consumo. Smettetela di vivere, cominciate a funzionare: riassumiamo in questo motto la natura di un mondo che, dosando sapientemente la paura, instilla nel cuore dei cittadini-consumatori gli imperativi del corretto funzionamento.

A farne le spese sono in primo luogo i giovani, nei loro percorsi di formazione. L’educazione della paura si esprime innanzi tutto nell’invito a farsi amministratori e imprenditori della propria esistenza: devi essere performante, devi essere efficiente, la tua vita è una risorsa che non puoi permetterti di sprecare, anche perché qualsiasi ritardo o malfunzionamento non può che essere tua responsabilità. Se infatti la tua vita è la tua impresa, il fallimento non può che essere colpa tua. Di qui l’inquietante divisione tra winners e losers, e ancor più lo stato di «valutazione permanente» cui è implacabilmente sottoposto il lavoratore-consumatore; in luogo del normale corso di una biografia dotata di senso, il curriculum di un’esistenza si riduce rapidamente al bilancio di competenze e skills spendibili sul mercato, sul quale la società tende ad appiattirsi.

Ecco che per realizzare questa «calcolabilità dell’esistenza» l’individuo viene ridotto al proprio profilo; un profilo «modulare» (p. 56), si badi, cioè un insieme di caratteri e di dati componibili e scomponibili a piacere, in funzione degli imperativi economici. L’individuo è allora prodotto in serie, come assemblaggio di determinate caratteristiche, ridotto a risorsa efficiente.

Il linguaggio e la logica del business diventano così il criterio di orientamento dell’esperienza: l’A. si sofferma su termini quali «investimento affettivo o amoroso» (p. 22), che lasciano trasparire come il rischio e l’avventura di quell’esposizione radicale all’altro vengono sempre più percepiti come un dare-avere paritario, valutato in termini di costi-benefici, in modo che la «cosiddetta vita» sia epurata da quella dimensione di azzardo, di imprevisto, di non-sapere e non-potere che tuttavia costituisce il luogo in cui emerge per noi il senso. Anche la nostra corporeità viene assorbita dalla medesima logica: è il culto del corpo efficiente, ma anche manipolabile e modificabile, potenziabile attraverso gli artefatti tecnologici, ed è anche il delirio di una circolazione di informazioni pure, «disincarnate», che sappiano fare a meno del pesante fardello di corpi «obsoleti», necessitando unicamente di supporti locali per i dati (p. 48).

Una vita dunque disincarnata, un’esistenza intessuta di presenze rassicuranti, che non esprime più il lavorio incessante dell’esperienza, la quale scolpisce la persona nella sua fisionomia unica, delineando il volto inconfondibile di ciascuno. Per adeguarsi alle esigenze della nostra società, l’esistenza dev’essere depurata da tutto ciò che appartiene all’esperienza del limite e del negativo, quando invece ciò che costituisce incertezza e impotenza, ciò in cui si incarna la nostra fragilità, meriterebbe di essere custodito come il luogo in cui il senso si manifesta per noi, come l’occasione in cui possiamo essere interpellati da altro, da ciò che è significativo, da ciò che ci supera. Ciò non conta per la società del funzionare: il suo ideale è la potenza pura della macchina, e dinanzi a essa queste esperienze non possono che essere trattate come difetti tecnici, da risolvere meccanicamente, non importa se a spese del senso che avrebbero potuto avere. L’esperienza dell’invecchiare e del morire non potranno più riguardarci come forme di eredità, come condivisione tra le generazioni, ma soltanto come limiti da superare attraverso la specializzazione medica, come se non ci riguardassero nel vivo della nostra esistenza. Ma attenzione: se ci si ostina a non identificare e a non prendersi cura di quel «resto» che si ostina a non funzionare, che continua a non risolversi nei circuiti del funzionamento, il negativo farà ritorno in forme perverse e distruttive, come già intuiamo nelle odierne manifestazioni di odio identitario.

La soluzione? Non sarà a buon prezzo. L’A. illustra la sua proposta nella seconda parte (capitolo «Cosa possiamo scegliere»), dedicata all’esistere, riprendendo sollecitazioni sartriane e assumendo una prospettiva tutto sommato esistenzialista. Subito a portata di mano troviamo la possibilità della cosiddetta «malafede» (p. 67), cioè la decisione di identificarci immediatamente con il nostro ruolo, all’ombra di un’etichetta rassicurante che ci giustifica: «sono avvocato», «sono medico», «sono impiegato». Tanto basta per crederci esonerati dall’assumere le sfide che l’esistenza ci sottopone. Il passaggio è delicato: l’A. ha saputo delineare lo scenario dei condizionamenti attuati dalla nostra società, salvo poi spostare l’attenzione sui dinamismi esistenziali «conniventi» con la crisi di senso che attraversa la nostra epoca. In tal senso, siamo noi, ora, a lasciarci sedurre dalla logica del funzionare. Quest’ultimo infatti è completamente prevedibile, tranquillamente razionale, senza imprevisti e senza sorprese, laddove l’esistenza è invece radicalmente temporale, un’incessante uscita-esilio verso le varie situazioni che via via ci si propongono e all’interno delle quali ogni volta dobbiamo costruirci, inventarci, scoprirci. Se la prima, più ampia parte del testo è dedicata quindi all’analisi delle strutture sociali, la seconda assume l’orientamento di un’indagine sulle risorse esistenziali a disposizione per decostruire la gabbia della crisi.

Saremmo cioè noi che tendiamo a evitare la vita e la sua imprevedibile dinamica, ad adattarci al posto preconfezionato dalla società, a congelarci nelle nostre credenze e abitudini, sedotti dagli imperativi dell’adattamento, del fitness e della performance. Il prezzo? L’annientamento del nostro singolare desiderio di esistere. Di fronte a questa soluzione più comoda, sta invece la possibilità di osare l’esistenza, di imboccare il divenire che rimette costantemente in causa quanto già acquisito e sedimentato, l’occasione della cura e della custodia di ciò che non si riduce all’efficienza della performance, alla chiarezza del dato. E questo non perché ci illudiamo di essere al centro dell’universo, signori arbitrari in grado di scegliere fra innumerevoli offerte di senso. La partita dell’esistere si gioca infatti nel vivo delle concrete (e limitate) situazioni storiche che via via ci si offrono, nel vivo degli incontri contingenti in cui capita che ci imbattiamo. E questo non ci condanna alla prigione di una situazione fatalmente limitata: qui si apre l’unica occasione possibile perché i desideri e le aspirazioni che ci abitano possano effettivamente prendere corpo, acquisire realtà, realizzazione e spessore.

Ora, se l’A. ha magistralmente raffigurato i pericoli che incombono sull’esistenza, che rischia di finire inglobata negli ingranaggi del funzionare, l’ultima parte, che occupa una porzione minore nell’economia del testo, si risolve tutto sommato in un appello in difesa della fragilità esistenziale e per l’elaborazione di un’etica situazionale. È lecito chiedersi quale sia la prospettiva politica in cui una simile sfida possa essere affrontata, così come quali siano i concreti orizzonti sociali in cui l’invito all’etica della situazione può effettivamente essere raccolto; dinnanzi all’analisi della distorsione (sistemica, sociale) cui le nostre esistenze sono sottoposte, necessitiamo di una più definita ricognizione degli impegni concreti che ci sono sottoposti. Allo stesso tempo, è in un contesto simile che l’assunzione della nostra finitudine ci dischiude il «dono dell’esistere» (p. 103), così come è alla luce di tali intuizioni etiche che diveniamo capaci di «inventare il quotidiano», per dirla con una formula cara a Certeau.

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