La storia del prelievo fiscale è antica quanto quella delle società
umane, pur nella varietà delle forme con cui esso è stato organizzato;
altrettanto antichi sono l’uso della forza per ottenere il pagamento
delle imposte, e i tentativi, più o meno ingegnosi, di sottrarvisi:
anche la “resistenza” alla tassazione è fenomeno consolidato e le
ricorrenti polemiche non devono destare eccessiva sorpresa; piuttosto
segnalano l’opportunità di tornare a riflettere sulle ragioni
dell’esistenza del fisco.
Socialità e bene comune
Non si dà vita autenticamente umana al di fuori di una società
organizzata: questa almeno è la convinzione di una impostazione
antropologica che affonda le sue radici tanto nel pensiero classico
quanto nella tradizione biblica. Le società umane esistono per un fine
ben preciso: assicurare la disponibilità del bene comune. Secondo le
parole della Gaudium et spes, esso è «l’insieme di quelle
condizioni della vita sociale che permettono tanto ai gruppi quanto ai
singoli membri di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più
speditamente» (GS, n. 26). Poco dopo, il medesimo testo concretizza
questa definizione formale aggiungendo: «Occorre perciò che sia reso
accessibile all’uomo tutto ciò di cui ha bisogno per condurre una vita
veramente umana, come il vitto, il vestito, l’abitazione, il diritto a
scegliersi liberamente lo stato di vita e a fondare una famiglia, il
diritto all’educazione, al lavoro, alla reputazione, al rispetto, alla
necessaria informazione, alla possibilità di agire secondo il retto
dettato della sua coscienza, alla salvaguardia della vita privata e alla
giusta libertà anche in campo religioso» (ivi). Questo elenco è
indubbiamente aperto, e non è difficile immaginare quali voci
aggiungere: sanità, sicurezza, ambiente salubre, partecipazione
politica, pari opportunità di genere, ecc. Si tratta di quei tanti beni
che oggi vengono reclamati come diritti, cioè come qualcosa di dovuto a
tutti i cittadini.
Assicurare la disponibilità delle risorse per fornire alla
collettività questi beni, oltre che per procedere a interventi
redistributivi, è lo scopo del prelievo fiscale, che trae senso e
giustificazione proprio dall’essere strumento per la realizzazione del
bene comune. Così non può non risultare piuttosto schizofrenica una
società che da un lato reclama la tutela di diritti sempre crescenti
(basta pensare alle richieste rivolte al sistema sanitario) e dall’altro
si ribella all’idea di farsi carico del relativo costo: si tratta di un
esempio di quel problematico disaccoppiamento fra diritti e doveri che
segna la cultura contemporanea. Su questo punto insiste purtroppo anche
una propaganda politica che punta ad assicurarsi un facile consenso,
promettendo prestazioni crescenti e insieme un mondo senza tasse.
Quale bene comune?
Il riferimento al bene comune non giustifica sic et simpliciter
qualsiasi livello di imposizione fiscale. Da questo punto di vista, la
questione fiscale chiama direttamente e profondamente in causa la
politica. In primo luogo, infatti, occorre definire concretamente il
perimetro di quel bene comune che la società intende garantire ai propri
membri: quali farmaci e trattamenti sanitari rientrano in quella tutela
del diritto alla salute che fa parte del bene comune e quali possono o
debbono essere lasciati a carico del singolo? Quanti anni di istruzione
sono necessari per garantire il diritto all’educazione? A che età è
giusto permettere ai cittadini di ritirarsi dal lavoro percependo una
pensione? Come si vede, si tratta di questioni di bruciante attualità,
dalla cui risposta dipende la determinazione del costo dei diversi
servizi e quindi delle esigenze fiscali.
In secondo luogo occorre organizzare i sistemi con cui i diversi
componenti del bene comune vengono concretamente “prodotti”, scegliendo
fra le varie modalità disponibili: la dignità degli anziani è meglio
tutelata da un sistema pensionistico obbligatorio gestito dallo Stato o
da un sistema assicurativo privato, a base più o meno volontaria? I
servizi sanitari, assistenziali o educativi raggiungono meglio il loro
scopo se sono gestiti direttamente dall’ente pubblico, se sono affidati
ai privati sulla base di una convenzione o se si concede un
finanziamento al singolo (i cosiddetti voucher), che poi lo spende per
acquistare servizi sul mercato?
Ciascuna di queste opzioni ha effetti diversi da un lato sulla spesa
pubblica (e quindi sulle risorse che è necessario prelevare tramite il
sistema fiscale), dall’altro sulla vita e sulle finanze dei cittadini.
Da ultimo, occorre anche trovare criteri equi di ripartizione fra i
cittadini del costo del bene comune.
Pur condividendo l’esigenza di promuovere il bene comune, a domande
come quelle appena poste si possono dare risposte legittimamente diverse
per innumerevoli ragioni, non ultima, nelle nostre società pluraliste,
la divergenza, talvolta radicale, sulla concezione dell’uomo e della
società, e di conseguenza su quali siano i valori da promuovere e gli
assetti sociali che meglio ne danno attuazione. Nettamente diversi sono
gli esiti, anche in termini di spesa pubblica e di fiscalità, di un
paradigma fondamentalmente individualista, che condurrà a una società
caratterizzata dalla competizione, se non dal conflitto, e che accetterà
elevati livelli di esclusione, e di un paradigma di tipo personalista,
che invece tenderà a privilegiare la solidarietà e la ricerca
dell’inclusione e dell’armonia (cfr Sorge 2008).
Compito della politica è ricercare il maggior consenso possibile, non
tanto sulle diverse impostazioni di fondo, quanto sulle misure concrete
da adottare (cfr Sciola e Tintori 2007): questo lavoro di mediazione,
spesso assai faticoso, è indispensabile alla promozione del bene comune,
che in quanto tale o si dà per tutti o non si dà; la sicurezza oggi
tanto invocata ne è un buon esempio: non è possibile offrirne tanti
livelli quante sono le preferenze dei singoli in materia. Nello
svolgimento di questo compito di mediazione trova ragion d’essere e
legittimazione il sistema politico (cfr CDSC, n. 394), e di conseguenza
si giustificano i costi che la politica impone alla società per il
proprio funzionamento (salva la verifica dell’adeguatezza della loro
misura).
Da tempo si afferma che la politica è in crisi, nel nostro Paese e
non solo. Tra gli esiti e i sintomi di questa crisi vi è la crescente
difficoltà a mediare e costruire consenso intorno a un progetto
condiviso di società che costituisca la cornice al cui interno situare e
motivare le misure di promozione del bene comune. La Costituzione nei
moderni Stati democratici è il documento che condensa ed esprime quel
progetto. Non è un caso allora che molto del dibattito politico degli
anni recenti si sia concentrato sul tema delle riforme istituzionali:
probabilmente una parte almeno dell’attuale crisi di rigetto della
fiscalità non è che l’epifenomeno di una più profonda crisi della
politica e della democrazia in termini di ethos condiviso (cfr Pizzolato
2006).
Quale società?
Solo in presenza di un progetto condiviso di società, infatti, può
essere fatto valere a livello complessivo il principio del beneficio,
legando l’insieme delle risorse raccolte dal fisco all’insieme dei beni e
servizi resi disponibili alla collettività. Qualunque interpretazione
del principio in chiave individualistica o corporativa, per quanto
consonante a una mentalità diffusa, non potrà che scontentare quella
porzione di cittadini – tipicamente i ricchi, i sani, i giovani, i
“forti” – che si percepisce caricata del costo delle prestazioni
destinate ai poveri, agli ammalati, agli anziani, ai “vulnerabili”. Il
punto è che il sistema funziona esattamente così e quella frustrazione
può essere vinta solo dalla consapevolezza di farsi in questo modo
carico del bene comune di una società di cui si condivide la
progettualità di fondo, sacrificandovi l’interesse o il tornaconto
individuale o di gruppo.
Allo stesso modo, solo in presenza di un riferimento chiaro a un bene
comune effettivamente e consapevolmente condiviso l’adempimento dei
doveri fiscali può trovare motivazioni che vadano oltre la paura delle
sanzioni, per quanto necessarie. Questo è di cruciale importanza in una
materia come quella fiscale, in cui si presenta come particolarmente
allettante la posizione del free rider: chi riesce a non pagare le tasse
mentre tutti gli altri lo fanno può godere di benefici senza farsi
carico dei rispettivi costi e massimizza il proprio tornaconto. Il
paradosso che manifesta la debolezza di tale posizione è che il
vantaggio dei free rider diminuisce al crescere del loro numero, fino ad
annullarsi in una collettività di soli free rider (ammesso e non
concesso che essa possa esistere). Alla base di tale vantaggio vi è
infatti un privilegio non giustificabile e per questo la posizione del
free rider è condannata da tutte le impostazioni etiche, anche le più
individualiste. Resta, purtroppo, una posizione molto diffusa, sia nelle
diverse forme di evasione fiscale, sia per il fatto che alcune
tipologie di reddito (tipicamente quelli da capitale) possono oggi
spostarsi alla ricerca del regime fiscale più conveniente (CEI 2004),
occultandosi al fisco del proprio Paese d’origine in un modo che ai
redditi da lavoro, specie dipendente, o da proprietà fondiarie non è
possibile: il risultato è che il costo del bene comune di un certo Paese
ricade solo su una parte di coloro che ne godono.
Il costo dello Stato
Ma il nesso fra politica e fisco è oggi al centro dell’attenzione
soprattutto in relazione al cosiddetto costo della politica, cioè alle
risorse consumate dal funzionamento delle istituzioni e del sistema
politico nel suo complesso. Strettamente collegata è poi la questione
dell’efficienza della pubblica amministrazione, cioè dell’apparato
incaricato dell’attuazione delle decisioni assunte a livello politico, e
della produttività di coloro che vi lavorano.
È certamente sano
che una società chieda conto del funzionamento di ciò che è pubblico e
la trasparenza, soprattutto in questo campo, è un requisito fondamentale
di maturità democratica: come già affermato, il fatto che la promozione
del bene comune abbia un costo ineliminabile non significa che
qualunque ammontare di tale costo sia giustificato, né tanto meno
legittima abusi e sprechi che giustamente suscitano indignazione.
Tuttavia, quando infuria la polemica, crescono il rischio di fare di
ogni erba un fascio, misconoscendo coloro che in politica e nella
pubblica amministrazione si comportano in modo serio e onesto, e quello
di buttare il bambino con l’acqua sporca. Il problema dell’efficienza si
fa sentire in modo particolarmente acuto in un contesto macroeconomico
in cui le risorse disponibili tendono ad assottigliarsi, ma non per
questo bisogna dimenticare che si tratta di una questione complessa e
sfaccettata.
In primo luogo la considerazione dell’efficienza
(cioè dell’ammontare di risorse utilizzate per raggiungere un
determinato scopo) non può essere disgiunta da quella dell’efficacia
(cioè della capacità di raggiungere davvero l’obiettivo prefissato).
Alcuni esempi possono aiutare a chiarire la questione: una drastica
riduzione dei compensi di coloro che occupano cariche pubbliche farebbe
certamente diminuire il costo della politica, ma le renderebbe
accessibili solo ai più abbienti, svuotando nei fatti quanto previsto in
linea di diritto e riproponendo forme di democrazia censitaria che la
storia dell’Occidente ha abbandonato da tempo; oppure accrescerebbe la
sudditanza dei politici nei confronti di lobby di potenziali
finanziatori (esperienza tutt’altro che rara anche nelle democrazie più
mature). Passando ai servizi sociali: il tentativo di una piena
integrazione di quanti vivono forme di emarginazione è operazione
certamente più costosa del garantire loro la sussistenza in chiave
sostanzialmente assistenzialista. Ma si tratta solo apparentemente di un
problema di costi, cioè di efficienza: in realtà la questione verte
sugli obiettivi che la società intende affidare ai servizi sociali,
quindi sull’efficacia. E talvolta l’efficienza può costituire un
paravento per giustificare l’accontentarsi di obiettivi meno ambiziosi
(cioè di un minor bene comune).
In secondo luogo, specie quando
si procede a valutazioni comparative, sorge la questione dei parametri:
non è automatico che le condizioni valide nel mondo dell’impresa privata
(che può liberamente definire la propria offerta a partire da
considerazioni di convenienza) valgano anche per gli apparati obbligati a
rendere un servizio universale. Il divario digitale geografico di cui
soffre il nostro Paese in termini di servizi di banda larga (forniti da
imprese private dove lo ritengono remunerativo) ne è una prova, in
particolare in confronto con la copertura del tradizionale servizio
postale, pur con le sue proverbiali inefficienze. Analogamente non è
esente da problemi la comparazione dei livelli di efficienza fra ambiti
geografici, a livello nazionale o internazionale, caratterizzati da
differenti dotazioni di capitale umano (formazione delle persone) e
sociale (fiducia nelle istituzioni, cultura del rispetto della cosa
pubblica): anzi, promuovere il bene comune risulta spesso più costoso
proprio là dove ce n’è più bisogno.
Redistribuzione del reddito La
domanda sul senso della convivenza sociale e sui valori che stanno alla
sua base investe anche la questione della redistribuzione del reddito
operata dal combinarsi di prelievo fiscale e spesa pubblica. Da un lato
la progressività delle imposte sui redditi delle persone fisiche le
rende percentualmente più onerose per i percettori dei redditi più alti
(quelli minimi sono addirittura esenti), dall’altro molte voci di spesa,
sia per trasferimenti sia per erogazione di servizi, sono destinate, di
diritto o di fatto, ai cittadini meno abbienti. Risulta difficile
giustificare tale situazione in base al principio del beneficio («le
imposte sono equamente distribuite quando ciascun contribuente concorre
al finanziamento della spesa pubblica in ragione dei benefici che ne
trae», Galmarini e Giarda 2004, 315) e infatti da molte parti se ne
contesta la legittimità.
Su questo punto è opportuna una
riflessione più approfondita: innanzi tutto la cura perché le
disuguaglianze sociali non superino soglie critiche in termini di
conflittualità ben può rientrare nella promozione del bene comune;
inoltre la considerazione del principio del beneficio non può mai essere
disgiunta da quella dei doveri di solidarietà. Ma soprattutto trova
spazio una fondamentale considerazione di giustizia. «Il frutto del
lavoro deve appartenere a chi lavora» (RN, n. 8): questo principio,
tradizionalmente utilizzato a tutela della proprietà privata, deve
essere ricompreso nel contesto dei nostri sistemi economici
caratterizzati da interdipendenza e interrelazioni ormai inestricabili.
Così, in senso complessivo, il frutto del lavoro (cioè il reddito
nazionale) appartiene a tutti coloro che a vario titolo partecipano al
processo produttivo. La quota che tocca a ciascuno (cioè il reddito
individuale) dipende da un complesso di
circostanze e i meccanismi di mercato ne assicurano la proporzionalità al valore del contributo
effettivamente recato solo nel caso, praticamente teorico, della concorrenza perfetta. Quanto più ce ne si
distacca, tanto più si introducono distorsioni nella distribuzione del reddito, ad esempio a causa di un
maggiore potere di alcuni operatori, che godono di una rendita di posizione.
Vi è dunque spazio per una azione correttiva anche attraverso lo strumento fiscale, almeno per tutte quelle
impostazioni antropologiche e sociali che ritengono la giustizia un valore da perseguire (cfr CDSC, n. 355).
Certamente lo è per la Costituzione italiana, forse non altrettanto per una certa mentalità corrente: anche in
questo caso il problema fiscale ci rimanda alla questione dell’ethos condiviso.
Risorse
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