Filosofia dei beni comuni
Crisi e primato della sfera pubblica
Laura Pennacchi
Donzelli, Roma 2012, pp. 184, € 17
La prima lettura di questo volume dedicato alla trattazione del tema dei beni comuni è fluente, e lo è proprio
nella meraviglia per la molteplicità dei temi affrontati e degli autori citati. Si direbbe anzi che il libro intenda
dar voce ad altri che hanno già parlato, come dimostrano le molteplici citazioni inglobate nel testo. La parola
è data a politologi, economisti, filosofi, moralisti antichi e contemporanei. Anche gli studiosi dell’ethos sono
interpellati, perché le domande «come posso agire?» e «come si deve vivere?» nutrono la vita umana. Tra le
filosofe italiane, viene dato particolare rilievo a Elena Pulcini e alle sue riflessioni sul vivere-assieme e gli
affetti o su un “legame sociale” non ridotto al giuridico (cfr pp. 73 e 92) e a Laura Boella, con una lunga
citazione sui rapporti tra etica e immaginazione intesa come “anticipazione” di un possibile (pp. 89-90) e sul
«male oscuro dell’esistenza che si radica nell’impossibilità di ridurre l’amore al possesso, il dono allo
scambio» (p. 6). Tra gli autori stranieri spicca l’economista indiano Amartya Sen: l’uomo agisce anche
senza attendersi un ritorno di privata utilità; non occorre avere una teoria rigorosa della giustizia per
discutere sul giusto (pp. 102-107). In alcune parti il linguaggio si fa tecnicamente economico e abbondano i
termini inglesi.
I contributi sono presentati in modo unificato e scorrevole, pur essendo molteplici. Del resto, non è
proprio la vita “politica” dell’uomo ciò che esercita e manifesta una molteplicità di “capacità”? Si va dalla
logica organizzativa, sempre più estesa, alla “riflessività” resa possibile dal diritto (o dal pubblico poter
discutere circa il diritto), al “riconoscimento” dell’altro di cui parla il filosofo tedesco Axel Honneth, sino a
una capacità di bene quasi indefinibile. A tal riguardo, Hannah Arendt, filosofa tedesca e studiosa delle
dottrine politiche, parlava della «gioia dell’essere con l’altro» e asseriva che si può capire il mondo solo
«considerandolo una cosa che è comune a molti» (p. 33).
Siamo dunque nella tradizione classica: la città è il luogo dove l’uomo si realizza e si conosce, dove si
può parlare assieme sul giusto e sull’ingiusto. Va però ricordato – parla ancora l’A. – che l’Illuminismo fu
una grande novità: esso fece emergere il “pubblico” o lo Stato (lo Stato di diritto), ma lo Stato non esaurisce
la dimensione sociale del vivere insieme degli uomini.
Consideriamo in modo più attento la proposta del libro e la sua formulazione teorica: tradizionalmente,
quando si parla di beni comuni ci si riferisce a quelle risorse materiali non riproducibili e necessarie a tutti
(acqua, ambiente ecc.), ma anche tali da poter essere oggetto di proprietà privata. In questo caso solo i
proprietari possono utilizzarli e questi beni possono essere acquisiti nel libero mercato. Laura Pennacchi
allarga questa nozione: i beni comuni comprendono anche «le forme della conoscenza, il capitale sociale, le
regole, le norme, le istituzioni» (p. 4), la «promozione del civismo» (p. 103). Altri autori vanno nella stessa
direzione della Pennacchi. Il filosofo e antropologo francese François Flahault («Pour une conception
renouvelée du bien commun», in Études, [giugno 2013], pp. 774-781) annovera tra i beni comuni (in
opposizione ai mercanteggiabili) non solo quelli più classici come l’acqua, ma anche la fiducia e i saperi, le
istituzioni e l’educazione. Nell’ambito della riflessione sui beni comuni, è frequente osservare che il vasto e
sempre più anonimo mondo dell’informazione, al tempo stesso istantanea e globalizzata – e al suo interno
quello della ben privata pubblicità – uniscono due caratteri decisamente contradditori: l’influire sulle menti
di tutti e l’essere oggetto di privata proprietà. Dunque i beni comuni vanno fatti rimanere tali o devono
diventare realmente comuni, ossia ci deve essere una autorità che li difenda (si pensi all’acqua o al territorio)
o che li promuova in modo attivo (la conoscenza, l’educazione)?
I beni comuni potrebbero essere la traduzione più precisa e differenziata del generico “bene comune”
caro alla tradizione cattolica che lo faceva premessa per comprendere i compiti dello Stato? Non fino in
fondo, perché la categoria dei beni comuni fa parte di una “triangolazione”: vi sono i beni pubblici – nel
senso preciso di statuale –, quelli comuni e quelli privati (cfr p. 12, nota 5 e p. 123 ss). Il linguaggio più
tradizionale conosceva soltanto due termini: il pubblico e il privato, il sovrano e il suddito, poco importa
come fosse poi intesa la sovranità.
I bersagli polemici dell’A. sono due, in qualche modo tra loro complementari. Uno è il comunitarismo
localistico e difensivo verso tutto ciò che appare straniero (pp. 73-75). Un secondo, più vivace, è
l’“individualismo economico” (non il liberalismo politico), a cui Pennacchi dedica un’ampia trattazione, che
è interessante riportare per esteso: «L’individuo detiene in modo naturalistico diritti – in primo luogo un
diritto di libertà individuale – determinati dalla propria individuale sovranità su sé stesso, quindi dotati di
una antecedenza logica e di una superiorità morale su qualunque aspetto di relazione con la collettività [...]
La libertà individuale nasce prima, senza e perfino contro la società e lo Stato: ogni individuo è un atomo
isolato, il quale ha il diritto di tenere per sé ciò che guadagna legittimamente e di consumare ciò che
desidera, attenendosi solo alle sue preferenze. Gli interventi della collettività ammissibili, dunque, sono solo
quelli necessari per difendere i diritti negativi e soprattutto i “diritti di proprietà”: essi non possono essere
volti a garantire i diritti positivi e tanto meno i diritti sociali o a contrastare le povertà e le disuguaglianze,
effetti non intenzionali dell’agire di mercato di cui nessuno può essere considerato specificamente
responsabile» (p. 36). Mentre le motivazioni umane, come la sollecitudine per gli altri, andrebbero spiegate,
ciò non sarebbe necessario per la «propensione di ciascuno al perseguimento del proprio tornaconto» (p. 37),
detto anche “interesse”, che comanda scelte ordinate funzionalmente ma qualitativamente omogenee.
In fondo è la domanda che già si poneva nel XVII secolo Thomas Hobbes: tra i tanti casi del mondo, di
che cosa noi siamo davvero “autori”? Della nostra scelta di mercato risponde il testo appena citato, che
intende mettere in parola la filosofia di molti economisti. Ma questa filosofia (forse a differenza di altre?) –
rileva l’A. – non rimane scritta sui libri. La crisi economica del 2007-2008 e prima ancora la politica
economica di Bush ne sono la realizzazione. Gli economisti non vanno criticati per non aver saputo
prevedere la crisi, ma per aver costruito modelli secondo cui essa sarebbe stata impossibile (pp. 80-81): la
deregulation (affidare a privati molti servizi prima appannaggio degli enti pubblici), la commodification
(anche l’istruzione e la ricerca diventano merce, assieme all’acqua e ai trasporti) e la finanziarizzazione (il
ruolo, l’incidenza e la dinamica delle attività finanziarie sul complesso di un sistema economico). Il valore
dei prodotti finanziari supera di parecchio quello dei prodotti reali; ed è vero che per i singoli è più
conveniente impiegare capitali commerciando promesse di pagamento moltiplicantisi nel tempo che
investire in attività produttive. In tale prospettiva, lo Stato non avrebbe più compiti di “benessere” comune e
dovrebbe ritirarsi lasciando spazio ai privati. È quanto accaduto anche in Italia (cfr p. 127).
L’alternativa proposta è quella della rivendicazione del ruolo del pubblico. Lo Stato è il Terzo per tutti,
esso realizza la responsabilità di ciascuno, è una concretizzazione necessaria (dicibile, designabile,
simbolicamente ricca) di istanze propriamente morali. Quelle di Immanuel Kant, in fondo: autonomia non
vuota perché capace di farsi carico di persone in carne ed ossa anche se a me sconosciute (cfr il capitolo su
«Il senso e il valore della mediazione istituzionale», p. 109 ss).
A conclusione, propongo una osservazione finale in tre punti per proseguire nella riflessione. In primo
luogo, al dire di Weber – scrive la Pennacchi – vi è un ethos profondo nella burocrazia: esso è l’ethos del
civil servant «di cui è andata orgogliosa la tradizione britannica e nordeuropea» (p. 52). In quella
prospettiva, il civil servant sapeva operare in modo pienamente umano e in rapporti ben umani seguendo
criteri professionali e norme capaci di motivarlo. Per alcuni autori è di «cruciale importanza» l’avere una
burocrazia dotata di ethos e di «orgoglio per il servizio pubblico» (p. 83). È altresì importante che
l’individuo si erga al di sopra «delle relazioni personali primarie, costruendo l’intersoggettività, l’integrità,
la realizzazione di sé come attore sociale» (p. 59).
In secondo luogo, noi tutti parliamo correntemente di “istituzioni” volendoci riferire al governo politico
tutto intero, sia locale che centrale, dal Parlamento al Comune (lasciamo da parte il linguaggio, i vincoli
familiari e la moneta). Ma queste “istituzioni” non sono forse il comportamento vivo di uomini vivi? La
forza, al tempo stesso effettiva e sensata, delle “istituzioni” non sarebbe forse la forza di azione consapevole
di uomini?
Infine, in quel comportamento non vi sarebbe una “virtù” in qualche modo specifica? E tale virtù è limitata
alla sola burocrazia? Il libro parla di molte virtù (o termini equivalenti) e proprio in questo sta il suo primo
messaggio, ma non si potrebbe pensare che, alla fine, la virtù della burocrazia weberiana debba essere quella
più tipica di tutti i cittadini della città moderna? Insomma una virtù politica fondamentale (non dico la
massima pensabile)? Se quell’accenno alla burocrazia suonasse inadatto, non sarebbe perché a noi è
straniera la virtù del civil servant? Sarebbe il noto “familismo amorale” degli italiani? Saremmo insomma
degli strani premoderni senza essere affatto dei medioevali? Ne va anche della politica.
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