Felicità

Fascicolo: marzo 2019

«Quando sono andato a scuola, mi hanno chiesto cosa volessi diventare da grande. Ho risposto “felice”. Mi dissero che non avevo capito l’esercizio e io risposi che loro non avevano capito la vita» (John Lennon). L’aneddoto ricordato dal famoso cantautore britannico esprime in modo arguto il desiderio che da sempre alberga nel cuore di ogni persona: trovare la felicità. Rimane però da precisare in che cosa consista la felicità stessa!

Nella cultura odierna si tende a pensare che essa comporti l’assenza di ogni difficoltà e sofferenza, la soddisfazione di tutti i desideri, l’ottenimento di un perdurante stato di euforia. Si insinua così l’idea che un’esistenza toccata dalla malattia, dall’insuccesso o da una qualche negatività sia privata di ogni gusto e valore. Ciò che appare determinante è l’ampia disponibilità di mezzi economici, il successo, la bellezza, la prestanza fisica. Tra l’altro ci troviamo di fronte a una concezione della felicità concentrata esclusivamente sulla dimensione individuale, in cui il benessere dell’intera comunità non è tenuto in considerazione se non in maniera residuale. Tale visione orienta verso una ricerca della felicità non solo votata al fallimento, ma foriera di conseguenze rovinose. Sintomatico è quanto scrive il sociologo francese Edgar Morin: «La concezione della felicità tipica della cultura di massa […] può essere detta consumistica nel senso più ampio del termine, vale a dire che essa spinge non soltanto al consumo dei prodotti, ma al consumo della vita stessa» (Lo spirito del tempo, Meltemi, Roma 2002, 142).

Le Scritture ebraico-cristiane

Non siamo certo i primi a interrogarci sulla felicità e sul modo per raggiungerla: anche nelle scritture ebraico-cristiane la questione occupa un posto di primo piano. I testi biblici intendono orientare il desiderio profondo che abita ogni essere umano, indicando la via da seguire per il raggiungimento di un’esistenza realmente compiuta e appagata, considerata la realizzazione più vera e piena dell’anelito alla felicità. Chi segue l’ammaestramento in esse contenuto, viene più volte definito beato, cioè precisamente felice. Si pensi ai Salmi 1 e 2, che costituiscono il portale d’ingresso del Salterio. Il primo si apre con il termine beato, riferito a chi non aderisce alla logica dei malfattori, a chi non si immedesima in una società ingiusta, ma opera guidato dal riferimento costante all’insegnamento del Signore. Il secondo si conclude definendo beato chi, in tempi di acuta conflittualità, si rifugia in Lui [Dio] (v. 12), sostenuto dall’attesa del suo inviato, il Re Messia. La felicità di cui ci parlano questi due salmi sta nel condurre una vita che non cede alle ingiustizie o alle facili scorciatoie, che non smarrisce la sua meta pur nelle difficoltà e negli ostacoli. La felicità presentata dal salmista consiste nel camminare in accordo con il Signore, passo dopo passo, secondo una visione dinamica della vita felice, che si realizza nel tempo. Questa declinazione dell’idea della felicità trova un fondamento anche nel termine ebraico usato nel testo per dire beato, che può essere tradotto con l’espressione “in cammino” (cfr Chouraqui A., Les psaumes. Louanges I, Éditions du Rocher, Parigi 1994, 50).

Il proclama di felicità, che fa da cornice ai primi due salmi, ha un valore programmatico. Viene infatti ripreso lungo tutto il Salterio, dove rimbalza di continuo e fa del libro intero una proposta di vita umana benedetta. Secondo il Salmo 40,5 è beato l’uomo che ha posto la sua fiducia nel Signore e non si volge verso chi segue gli idoli, verso chi segue la menzogna. È detto felice chi resiste alla mentalità dominante: continua a fidarsi del Signore, invece di contare su realtà quali il denaro, il potere, il successo e il piacere facili, le cui promesse di felicità finiscono per rivelarsi ingannevoli. Il Salmo 41,2 definisce beato chi ha cura del debole, perché nel giorno della sventura sperimenterà la liberazione del Signore. A sua volta il Salmo 84,6 proclama la felicità di chi trova in Dio la sua forza.

Salmo 84,2-8

2 Quanto sono amabili le tue dimore, Signore degli eserciti! 3L’anima mia anela
e desidera gli atri del Signore. Il mio cuore e la mia carne esultano nel Dio vivente.
4
Anche il passero trova una casa e la rondine il nido ove porre i suoi piccoli,
presso i tuoi altari, Signore degli eserciti, mio re e mio Dio. 5 Beato chi abita nella tua casa:
senza fine canta le tue lodi. 6 Beato l’uomo che trova in te il suo rifugio
e ha le tue vie nel suo cuore. 7 Passando per la valle del pianto la cambia in una sorgente;
anche la prima pioggia l’ammanta di benedizioni. 8 Cresce lungo il cammino il suo vigore,
finché compare davanti a Dio in Sion.


Il termine ebraico può essere tradotto anche con “fortezza”, nel senso di rifugio; perciò è felice colui che ha in Dio la sua protezione sicura. Questi, continua il salmista, ha le vie [del Signore] nel suo cuore. Il riferimento è alle strade del pellegrinaggio, come risulta dai vv. 7-8, in cui si parla di un cammino verso Gerusalemme. Percorse da chi trova forza e sostegno nel Signore, tali strade sono costellate da passaggi segnati da una sorprendente fecondità (cfr anche, tra gli altri, i Salmi 106,3; 119,2; 128,1; 146,5).

Gesù, prolungando l’insegnamento delle Scritture, consegna ai suoi discepoli quello che può essere definito il suo “manifesto della felicità”: le beatitudini (Matteo 5,1-12). Nella prima, fondamentale, dichiarazione proclama felice chi è interiormente povero: colui che è aperto nei confronti dell’Altro e degli altri, pronto a ricevere e a ridonare. È la persona aliena da ogni forma di presuntuosa autosufficienza, capace di lodare Dio per i beni elargiti agli altri e di ringraziarlo per i doni che da Lui ha ricevuto. La figura del povero assume, nel vissuto, diverse manifestazioni, che Gesù richiama quali illustrazioni di una stessa disposizione di fondo. Parla di coloro che sono nel pianto, perché il progetto di Dio fatica ad affermarsi nella storia; dei miti, che, di fronte al dilagare del male, resistono a ogni violenza di sentimento e di azione; di coloro il cui desiderio profondo è orientato verso la giustizia; dei misericordiosi e degli operatori di pace; di coloro che sono disposti a pagare di persona per l’avvento del Regno di Dio e della sua giustizia. Gesù afferma che tutti costoro possono assaporare già oggi quella felicità che un giorno gusteranno in maniera piena e continua. Ancora una volta la felicità è declinata in riferimento alle relazioni, a partire da quella con Dio, e non agli status o beni posseduti. Significativa è anche la prospettiva temporale delle beatitudini. Più volte, infatti, è impiegato il futuro, quasi a ribadire che la ricerca della felicità non può essere schiacciata dal qui e ora di un presente senza orizzonti ulteriori, ma va vissuta all’interno di un cammino.

Quale felicità?

I testi richiamati appena sopra vanno controcorrente rispetto al sentire comune. Almeno in prima istanza, suscitano perplessità, obiezioni, forti riserve. Non si tratta di reazioni solo recenti: nella stessa Bibbia emergono queste resistenze, talora venate di disillusione e cinismo. Ne è prova un passo del profeta Malachia, in cui è registrata la reazione immediata che si prova di fronte a quanto spesso accade nella vita concreta: È inutile servire Dio: che vantaggio abbiamo ricevuto dall’aver osservato i suoi comandamenti o dall’aver camminato in lutto davanti al Signore degli eserciti? Dobbiamo invece proclamare beati i superbi che, pur facendo il male, si moltiplicano e, pur provocando Dio, restano impuniti (Malachia 3,14-15). Accanto alla Parola che annuncia la felicità di coloro che confidano nel Signore e nel bene, sentiamo risuonare in noi un’altra voce, che ripete: beati sono gli egoisti, i furbi, gli arrivisti! La domanda si ripropone: dove si radica la felicità? La narrazione biblica non ha dubbi: essa affonda le radici nella consapevolezza che la vita è un dono e si conserva solo se è donata. Decisiva è la ferma convinzione che l’esistenza ha un senso perché ha un fondamento: l’amore incondizionato di Dio, che ci sostiene in ogni momento. «Il segreto della gioia non consiste nel successo delle nostre imprese o nella riuscita dei nostri progetti, ma nell’accoglienza di quel dono di vita, che in ogni circostanza ci è offerto» (Molari C., «L’intreccio ideale delle beatitudini», in Balducci E. – Bovati P. et al., Il mondo dell’uomo nascosto. Le beatitudini, Borla, Roma 1991, 18).

Nel mondo greco-romano il termine “beato” era una designazione riservata agli dèi. Erano ritenuti felici in quanto vivevano lontano dalla terra e dalle sue contraddizioni. Opposta è la visione biblica. La Scrittura tutta, e in particolare le beatitudini, orientano verso una felicità che si sperimenta dentro le oscurità della vita, perché non fondata sulle circostanze esteriori (mutevoli), ma sulla vicinanza (continua) di Dio. «La forza di Dio è in mezzo a noi nella capacità di accogliere l’esistenza come dono, di sperimentare la verità delle beatitudini evangeliche, di leggere nelle stesse avversità un disegno di amore, di sentire che il discorso della croce rovescia le opinioni correnti, vince le paure ancestrali e permette di accedere a una nuova comprensione della vita e della morte» (Martini C.M., Alla fine del millennio, lasciateci sognare. Discorso per Sant’Ambrogio, 6 dicembre 1996). Questa forza permette di non abbattersi di fronte alle avversità, che pur possono far vacillare, e di rimanere saldi nel cammino intrapreso, scoprendo che la felicità consiste proprio in questo avanzare, alle volte a grandi passi, altre con grande sforzo, verso una vita piena e autentica. Quando si pensa la felicità in questo modo, quando non si lega più l’essere felice a successi o ricchezze, allora si è liberati anche da una visione individualistica: la mia felicità non è più incompatibile con quella degli altri, non ne è preclusa, ma si completa e si arricchisce se anche chi mi è vicino, se la società in cui vivo è in cammino verso la stessa meta.


Ultimo numero
Leggi anche...

Rivista

Visualizza

Annate

Sito

Visualizza