Le neuroscienze oggi sono senza dubbio una punta avanzata del progresso medico scientifico. All’interno delle questioni etiche poste da questo settore affascinante della biomedicina, il libro di Massimo Reichlin,
Etica e neuroscienze, si concentra su tre tematiche, cui corrispondono tre capitoli.
Il primo di questi è dedicato agli stati vegetativi (SV). In apertura troviamo il ricordo della vicenda Englaro, occasione dello «scontro istituzionale più clamoroso degli ultimi decenni» (p. 5), che ha mostrato come lo stato vegetativo permanente (SVP) sia un caso emblematico «dell’
impasse cui può condurre il progresso scientifico e tecnologico nella biomedicina» (
ivi).
Lo stato vegetativo va distinto da altre condizioni neurologiche quali il coma, lo stato di minima coscienza (SMC) e la sindrome
locked-in (per la quale la persona è consapevole di sé, ma non può comunicare a causa della paralisi di tutti i muscoli volontari); l’A, però, mette in evidenza come sia possibile un passaggio tra questi stati che rende insieme necessaria e difficile la diagnosi – anche utilizzando le tecniche più avanzate – e quindi la prognosi e le attenzioni terapeutiche rispettive.
Sulla base della constatazione per la quale è praticamente vicina a zero la possibilità di recupero funzionale o di qualche forma di coscienza nei pazienti che nei primi 12 mesi non hanno dato alcuna risposta agli stimoli ricevuti, vengono poi esposte e discusse con franchezza le questioni etiche, il cui nodo centrale è la domanda: «ha senso una vita in stato vegetativo? Ha valore, merita di essere prolungata?» (p. 27). L’A. ritiene erronea una risposta negativa, sotto il profilo sia giuridico, sia filosofico-scientifico e morale. A questo riguardo, l’A. discute criticamente la tesi che distingue tra essere umano e persona: benché in condizioni di grave disabilità, «gli individui in SV sono delle persone viventi» (p. 34) anche se questo lascia aperto il dilemma etico e richiede ragionamenti più ampi per arrivare a conclusioni su cosa è bene fare in queste situazioni.
Reichlin discute quindi la controversa e spinosa problematica dell’alimentazione e idratazione artificiale (NIA), che da una parte, nei pazienti in SVP, è l’«ultimo livello di cure» (p. 40) e quindi è in prima battuta proporzionata, ma dall’altra, con il passare del tempo e con le eventuali dichiarazioni anticipate del paziente, potrebbe non esserlo più.
Il secondo capitolo riguarda le malattie neurodegenerative, come la sindrome della demenza, la cui forma più nota è il morbo di Alzheimer, nelle quali è in gioco la perdita stessa del sé, più ancora che la perdita della coscienza. Dopo aver esposto in termini dettagliati alcuni significativi dati tecnici relativi alle molte «promesse della medicina rigenerativa» (p. 66 ss.), l’A. si sofferma sulle questioni filosofiche e sulle scelte etiche connesse. Per quanto riguarda la domanda centrale sulla continuità e la permanenza dell’identità personale di chi è colpito da demenze, egli offre una sintesi della discussione della filosofia contemporanea sulla nozione di persona. Espone la tesi riduzionista di coloro che, come il filosofo anglosassone Derek Parfit, sostengono che il cambiamento radicale – o parziale ma significativo – dei contenuti mentali di un individuo lo porti a diventare letteralmente un altro individuo, come nel caso di molti malati di Alzheimer, anche in fase non molto avanzata. Contro queste tesi della differente identità “numerica”, per cui un individuo sarebbe letteralmente – numericamente – altro rispetto a sé, Reichlin difende quella di una identità psicologica o “narrativa”, che permane nonostante i cambiamenti procurati dalle cesure e fratture della propria storia.
Su questo sfondo nasce la domanda relativa alla perdita della capacità di agire in un tale individuo. Per rispondere, spesso si fa riferimento alla concezione liberale che attribuisce grande valore all’autonomia individuale. Paradigmatica a questo proposito è la riflessione del filosofo statunitense Ronald Dworkin, il quale, pur sostenendo che la vita umana è sacra, conclude che tutelare la dignità di un paziente affetto da demenza significa impedire che egli continui a vivere in una condizione che nega la sua capacità di agente razionale e autonomo. Questa posizione viene discussa attraverso una serie complessa di obiezioni e di controobiezioni che vengono opposte a Dworkin da diversi autori, prevalentemente di orientamento analitico e di matrice anglosassone. L’esposizione analitica del dibattito sembra complicare eccessivamente la questione, ma consente di concludere che per questo tipo di pazienti nascono situazioni di conflitto e di incertezza che impediscono di attribuire un valore decisivo alle eventuali «direttive anticipate» (p. 103). È su tale tema che si sofferma l’ultima parte del capitolo. Pur valutando positivamente le “direttive”, Reichlin giunge a ridimensionarle di molto, sia a motivo dell’ambiguità e indeterminatezza della volontà espressa, sia per l’elevato tasso di imprevedibilità delle patologie, sia per la modificabilità delle preferenze dell’individuo. Nelle direttive anticipate nel caso di demenza – in modo più complesso che per gli SV – è necessario stabilire condizioni precise per la loro attuabilità. La conclusione dell’A., cioè che «si dovrebbe dare la precedenza agli interessi attuali, in mancanza di evidenze contrarie » (p. 111), pur pienamente condivisibile, sembra risentire troppo dei termini di un dibattito astratto, nominalistico e intellettualistico. È interessante però che questa critica sembra indicata da Reichlin stesso quando afferma che occorre rivedere l’idea di autonomia, individuale, assoluta e perfettamente razionale, prevalente nella discussione contemporanea: è proprio la condizione dei pazienti affetti da demenza che mostra l’astrattezza diun tale modo di intendere il principio di autonomia.
Il terzo capitolo affronta una questione cruciale nelle neuroscienze: la pretesa naturalistica che esse possano legittimare l’assunto che «noi siamo il nostro cervello » (p. 115), «nient’altro che il cervello» (p. 118). Reichlin procede, anche su questo aspetto del dibattito, a una esposizione analitica degli autori che sostengono l’ipotesi che, pur con approcci differenti, in sostanza riduce i fenomeni “mentali” – psicologici, culturali, religiosi – ai meccanismi biologici spiegati dalle scienze naturali. In questa luce i giudizi morali vengono ricondotti ai meccanismi neurologici che essi suppongono.
L’A. descrive con precisione gli studi fatti da molti scienziati per scoprire le basi neurali dei giudizi morali, a partire dagli studi di Antonio Damasio su un caso restato famoso in letteratura (il caposquadra delle ferrovie del Vermont a cui un incidente distrusse parte del cervello e che continuò a vivere, ma con una personalità radicalmente mutata), fino alle recenti indagini che utilizzano le tecniche più avanzate per visualizzare le attivazioni delle diverse aree cerebrali di persone che stanno affrontando problemi etici (neuroimaging).
L’interesse di tali esperimenti, giustamente, consiste nel mettere in questione l’immagine tradizionalmente intellettualista del sapere morale proposta dalla filosofia occidentale: «è dalla passività del sentire, infatti, che si genera l’attività del volere, ovvero è attraverso emozioni e sentimenti che ci si manifestano le ragioni per agire» (p. 140). Sullo sfondo di tali problematiche – la cui posta in gioco è teoricamente e praticamente di grande rilievo – l’A. si concentra sulla critica che le neuroscienze hanno operato nei confronti dell’idea di libertà e di responsabilità. Egli mette bene in rilievo come la prospettica neurofilosofica interpreti «le correlazioni tra stati mentali e stati cerebrali come affermazioni di identità» (p. 161), fornendo un’immagine troppo semplificata e riduttiva della mente umana.
Da ultimo, Reichlin si sofferma sul progetto di “neuroetica applicata” costituito dal potenziamento delle capacità cognitive (neuroenhancement, anche se il termine ha un senso più generale dell’uso che se ne fa nelle neuroscienze), da alcuni considerata «una delle tappe fondamentali sulla strada del postumanesimo» (p. 164) o transumanesimo (p. 172). Esso consiste nel provocare il cambiamento di desideri, motivazioni e credenze attraverso l’intervento sui corrispettivi processi cerebrali. Contro l’obiezione di coloro che vedono in queste manipolazioni la pretesa prometeica (hybris) di sostituirsi a Dio, prendendone il posto (playing God), viene ricordato che è «parte integrante della stessa natura umana il progetto costante di andare oltre se stessi, o meglio oltre la propria condizione attuale» (p. 173) e dunque simili interventi normalmente non creerebbero un “uomo post-umano”. Nel quadro di una considerazione generale positiva di tali possibilità, l’A. sottolinea però le ragioni che spingono alla cautela e che richiedono una regolamentazione sociale e politica, al fine di evitare gravi disuguaglianze tra gli uomini.
Nel suo complesso, il volume è agile, approfondito e ben argomentato. Le questioni affrontate richiedono un approccio interdisciplinare che è pienamente rispettato. L’accurata ricostruzione dello status quaestionis scientifico si accompagna a una capacità espositiva e didattica che nulla toglie alla correttezza dei temi trattati. Il dibattito bioetico è ricostruito con accuratezza, dando un forte rilievo a quello di matrice anglosassone, e le opzioni personali vengono giustificate con acume e acribia. Sullo sfondo, si stagliano con chiarezza alcune grandi tematiche teoriche, di carattere etico e antropologico, che da sempre stanno al centro del sapere filosofico e che oggi non appassionano soltanto i cultori specialisti di etica e di neuroscienza.