Esilio

Fascicolo: ottobre 2019

Quando si vive un tempo di profondi cambiamenti è possibile che si sperimenti un senso di confusione e incertezza, perché i punti di riferimento consolidati sembrano smarriti, rendendo difficile decifrare quanto accade e comprendere quali siano le scelte opportune da compiere. In situazioni di questo tipo – che possono essere vissute da una singola persona, da un gruppo, così come da un intero popolo – può essere forte la tentazione di ricorrere alla prima soluzione che si presenta come rassicurante e facile da realizzare, senza fermarsi a considerare le alternative esistenti e le conseguenze che possono derivarne. C’è il rischio di rifugiarsi in alcune posizioni o idee, ritenute al momento confortanti, al punto da assolutizzarle e renderle una sorta di dogma intoccabile, trasformandole – per usare un linguaggio biblico – in un idolo. In effetti nella Scrittura sono numerosi i casi in cui l’Israele biblico si è trovato a vivere situazioni difficili ed è caduto nella trappola di optare per le soluzioni apparentemente più comode, come accade ad esempio nel libro di Geremia, che offre al lettore di ogni tempo preziose indicazioni sul modo di agire di Yhwh con il suo popolo preda dell’insicurezza e della paura.

 

La crisi del regno di Giuda

Parole di Geremia figlio di Hilqia, dei sacerdoti che sono ad Anatot nel paese di Beniamino, verso il quale giunse la parola di Yhwh nei giorni di Giosia figlio di Ammon, re di Giuda, nel tredicesimo anno del suo regno. Giunse verso di lui nei giorni di Yoiaqim figlio di Giosia, re di Giuda, fino alla fine dell’undicesimo anno di Sedecia figlio di Giosia, re di Giuda, fino alla deportazione di Gerusalemme, il quinto mese (1,1-3).
Così inizia il libro intestato al profeta Geremia, che riporta parole ed eventi da situarsi alla fine del regno di Giuda, in uno dei momenti più drammatici della sua storia, un tempo segnato da una profonda crisi e da un cambio epocale. Questi versetti introduttivi evocano un arco temporale di 40 anni – dal 13° anno del regno di Giosia all’esilio babilonese – sufficienti per rendere vani gli effetti positivi della riforma di Giosia (Secondo libro dei Re 23), in particolar modo il ritorno alla Torah e il rifiuto degli idoli. Secondo il libro di Geremia, infatti, gli ultimi re della dinastia davidica, essenzialmente Yoiaqim e Sedecia, guidano il popolo alla rovina. Preferendo la facilità delle illusioni idolatriche sostenute dai falsi profeti (cfr Geremia 28), compiono scelte politiche e sociali contrarie all’esigenza di vita proposta da Yhwh a cui dà voce Geremia. Il profeta denuncia anche altre due forme d’idolatria, entrambe radicate nel rifiuto di ascoltare la Parola: rivolgersi ad altri dèi, come Baal (2,8) e Molok (32,35), e snaturare Yhwh riducendolo a un dio alla misura dei propri bisogni.

Va tenuto presente che per l’Israele biblico le scelte politiche sono un riflesso tangibile della relazione con Yhwh e dell’accettazione o meno della sua parola. In quelli che saranno gli ultimi anni del Regno di Giuda, la questione che si pone per i governanti e il popolo è scegliere tra cercare la salvezza presso l’Egitto (37,7), cioè rivolgersi ad altri uomini, oppure tornare a Yhwh (cfr ad esempio 3,14 o 4,1) e sottomettersi ai babilonesi e al loro re Nabucodonosor (38,2), come profetizzato da Geremia. Questa seconda possibilità illustra un modo concreto di rifiutare l’idolatria che porta alla morte: ascoltare la parola di Yhwh che chiama alla vita, trasmessa dal profeta, anche nei suoi risvolti politici più pragmatici e a prima vista sorprendenti: come può la resa al re babilonese essere una via di salvezza?

Il clima di tensione che abbiamo descritto si concretizza nel seguito del libro, che annuncia e poi racconta l’esilio (1,2; 39,1-9) e la venuta dei nemici del Nord (1,13-15; 32,24; 36,29). In questo tempo drammatico si rende necessario l’intervento di un profeta nella storia, perché il popolo e i governanti comprendano che non potranno uscire dalla situazione in cui si trovano senza cambiare la loro condotta. In realtà, le loro scelte non saranno comunque sufficienti per evitare l’esilio, che è in un certo senso necessario per come si sono svolte le vicende precedenti. Infatti, il lettore, procedendo nella lettura del libro profetico, scopre che c’è stato un tempo in cui l’esilio poteva essere evitato se il re e il popolo si fossero convertiti e avessero ascoltato Yhwh (26,3; 11,10; 23,22). Ma nel quarto anno del suo regno, Yoiaqim compie un gesto scriteriato che rende l’esilio ineluttabile (36,22-25): egli strappa e brucia il rotolo in cui sono consegnate le parole di Geremia, segno definitivo del suo rifiuto della parola di Yhwh. Per Geremia, popolo e governanti sono solidali nello scegliere l’idolatria e la crisi da essi vissuta si radica in questa scelta che non può avere altra via d’uscita che il giudizio.

Quello che conta dopo questo gesto è l’atteggiamento di conversione e di ascolto nell’accettazione del giudizio. Questo modo di presentare le cose, ovviamente frutto di una rilettura teologica della storia, permette di capire le ragioni per cui Geremia chiama alla sottomissione al “servo di Yhwh” (25,9; 27,6 e 43,10) Nabucodonosor, salito al trono lo stesso anno del gesto del re Yoiaqim, visto come uno strumento divino il cui ruolo è quello di riportare ordine nel caos creato dagli ultimi re di Gerusalemme e dal popolo. Accettare il dominio caldeo significa acconsentire alla punizione e quindi ascoltare e accogliere la Parola proclamata dal profeta.

 

L’esilio: dramma o opportunità?

La venuta annunciata di Nabucodonosor porta alla conquista di Gerusalemme e all’esilio di una parte della popolazione, dato che il re caldeo lascia in Giudea i più poveri (39,9-10). Questo gesto è il segno di una restaurazione possibile fin da subito e apre la via a un nuovo inizio grazie a un “resto” del popolo sotto la guida del governatore Godolia, che riesce a riportare pace e stabilità, conformemente alla parola del profeta (40,7-12). Il suo assassinio, però, conduce a un nuovo capovolgimento: il popolo rimasto in Giuda rifiuta ancora una volta di ascoltare il profeta e decide di fuggire in Egitto (42-44), invertendo il movimento originario di salvezza dell’Esodo. La scelta del popolo è chiara: esso non rifiuta solo l’alleanza e Yhwh, ma anche la comune storia della salvezza, dato che ritornare in Egitto significa compiere un esodo al contrario, un vero e proprio “contro-esodo”.

Nel frattempo, a Babilonia, gli esiliati che hanno obbedito all’ingiunzione di Geremia hanno di fatto accettato la punizione annunciata dal profeta: l’esilio durerà settant’anni, cioè il tempo necessario a recuperare i Sabbat che il popolo dell’alleanza non ha osservato (25,11-12 e 29,10). Benché lunga, la punizione non è eterna. Si tratta in realtà di una parentesi necessaria della storia. Nuova “traversata del deserto” lontano dalla Terra promessa, l’esilio permette di prendere distanza dalle abitudini e dai comportamenti mortiferi per tornare ai valori essenziali che fondano il popolo, in particolare l’alleanza.

Attraverso una lettera rivolta agli esiliati (29,1-7), il profeta indica un orientamento per aprirsi a un avvenire concreto, che tiene conto allo stesso tempo di quanto vissuto e dei giusti compromessi, necessari non solo alla sopravvivenza ma al ben più fondamentale vivere insieme. Questa via va oltre la semplice accettazione dell’esilio e il rigetto di idoli e falsi profeti, si tratta di essere proattivi nella terra dell’esilio: stabilirsi, sposarsi, coltivare e, soprattutto, lavorare per il benessere di Babilonia, poiché da questo dipende il proprio (29,7.10-14).

Provocatoria e pragmatica, questa via propone di uscire dalla rassegnazione e di abbandonare la vendetta per la pace. L’inevitabile sottomissione, che porterà comunque gli esiliati a lavorare per la prosperità di Babilonia, si trasforma in una scelta volontaria e consapevole, tale da rendere gli schiavi (cfr Esodo 1) persone libere, che sanno cogliere questa esperienza negativa come una opportunità nella quale esercitare la propria responsabilità. È così rifiutata la violenza che tale situazione sembra rendere inevitabile per ritrovare il proprio posto nella storia: il popolo si riallaccia in questo modo alla sua missione primordiale, affidata in un primo tempo ad Abram (Genesi 12,3) poi al popolo stesso (Esodo 19,5-6), di portare la benedizione alle famiglie della terra, di essere mediatore tra le Nazioni e Yhwh. In altre parole, il profeta, che cerca malgrado tutto di guidare e orientare il popolo per uscire dalla crisi, afferma che, vissuta positivamente, questa tragedia può diventare il crogiuolo di vita nuova per tutti, profondamente segnata dallo shalôm, la pace, il benessere (fisico e sociale), la salvezza e la felicità. Al contrario, se gli esiliati si chiudono su loro stessi e sulla loro disperazione, morranno.

 

Geremia guida del lettore

Quanto abbiamo fin qui visto ci rende attenti al ruolo cruciale del profeta. Da subito, Geremia è presentato come un personaggio dalla personalità singolare, la cui esperienza originale di vocazione sarà fondamento delle parole che dovrà proclamare (Geremia 1,1-19). Il fatto che sia proprio il profeta a raccontare il suo incontro con Yhwh induce nel lettore un sentimento di fiducia nei suoi confronti (cfr 32,6-25). Si instaura così un rapporto particolare tra Geremia e il lettore, in cui il primo diventa in certo qual modo guida del secondo quando si tratta di capire i tanti risvolti del dramma in atto. A questo proposito, è necessario esplicitare un altro elemento.

L’arrivo dei Regni del Nord annunciato dal profeta sarà di certo causa di caos in Giuda e Gerusalemme. Rispetto a questo, la parola profetica – scritta nel libro – può rappresentare un punto fermo, stabile, sul quale fondarsi per tornare alla vita. Questo elemento fondamentale viene abbozzato alla fine del capitolo 1, in particolare al v. 18, e si lega al senso della preposizione ebraica ‘al, ripetuta diverse volte nella seconda parte del versetto. Questa può significare “per, a favore” ma anche “contro”. Pertanto, si può capire che Geremia e la sua parola sono “a favore” dei re, dei principi, dei sacerdoti e del popolo o “contro” di essi. In realtà, le due interpretazioni non si escludono. La seconda esplicita la missione del profeta che deve affrontare – se non addirittura combattere – il popolo e i suoi governanti, nel tentativo di riportarli sul cammino dell’alleanza. Proclamando però una parola il cui scopo essenziale è il ristabilimento dell’alleanza, facendo in modo che i giudei abbandonino gli idoli per tornare a Yhwh, Geremia in realtà “protegge” i suoi destinatari. E se questi lo ascoltano, lui e la parola da lui proclamata e consegnata nel libro diventeranno per loro un punto di riferimento irremovibile, una protezione più stabile e più solida ancora della stessa Gerusalemme che cadrà (cfr 39,1-3). Infatti, se le colonne e le mura del tempio e della città saranno distrutte (cfr 39 e 52), la parola del profeta scritta nel libro resterà per le generazioni di lettori che le daranno corpo, permettendo così alla missione del profeta di portare frutto.

Il lettore sarà in grado di capire la metafora qui abbozzata solo dopo aver concluso il libro, quando avrà misurato pienamente il ruolo svolto dal profeta nel libro e potrà ricominciare da capo la sua lettura sapendo come si svolge e come finisce. Man mano che il dramma si addensa, infatti, il personaggio Geremia si nasconde quasi impercettibilmente dietro le sue parole, che prendono la forma di uno scritto, fino al momento in cui si dilegua in Egitto, dopo essersi scontrato un’ultima volta col popolo. Questo esito è quanto mai significativo: in un tempo di sbandamento per il popolo, Geremia non può portare a termine da solo la missione che Yhwh gli ha affidato ma ha bisogno di qualcuno che lo aiuti e gli dia il cambio. Primo tra tutti il fedele amico e segretario Baruc (32,6-15; 36 e 45) che mette per iscritto le profezie positive e negative, divenendo man mano testimone della realizzazione delle parole di Geremia. In questo senso, Baruc è un elemento essenziale nella trasmissione della parola profetica anche quando il profeta è assente: le sue parole divenute libro continuano a operare e a riecheggiare per il lettore, purché accetti di prenderle sul serio e di lasciarle “lavorare” in lui.

I fatti evocati dal libro di Geremia alludono a uno dei periodi più neri della storia dell’Israele biblico. L’esilio, prima annunciato nella speranza di vedere il popolo tornare all’alleanza, diventa realtà che porta agitazione e caos. Di fronte a questo il profeta tenta di far intendere la parola di Yhwh, qualunque siano le difficoltà legate alla sua missione. Attraversandole, Geremia dimostra una fede, una fiducia e un coraggio incrollabili. Cerca di portare a termine la missione, proponendo delle vie che, pur essendo frutto di scelte pragmatiche, si rivelano portatrici di vita e di opportunità inaspettate.

Raggiunto da questa parola fortemente ancorata nella storia ma sempre attuale, il lettore ne diventa a sua volta testimone ed elemento portante nella catena di trasmissione. Essa, spesso difficile da intendere, interpella sulle scelte di vita o di morte e invita a trovare soluzioni concrete di fronte alle possibili (e talvolta inevitabili) crisi. Queste soluzioni, lungi dall’essere evidenti o facili da realizzare, devono essere in accordo con la parola di Yhwh, che chiama a rifiutare qualsiasi forma di idolo e di violenza per una vita compiuta in alleanza. Come per i governanti e il popolo al tempo di Geremia, anche per il lettore di oggi l’essenziale è non avere una visione ristretta, resa chiusa da quanto si suppone ineluttabile, nella consapevolezza che la minaccia dell’idolatria è sempre d’attualità e deve essere smascherata in tutti i comportamenti che portano alla schiavitù propria o altrui, alla sofferenza e alla morte.

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