Il verbo entrare, unitamente ai verbi connessi uscire e camminare, fa parte dello specifico schema letterario dell'esodo
(cfr SPREAFICO A., Esodo. Memoria e promessa, EDB, Bologna 1985),
attraverso cui vengono illustrate le tre dimensioni fondamentali che
contrassegnano il passaggio dalla terra
della schiavitù (uscita dall'Egitto) alla terra della libertà (ingresso in Canaan), passando per il lungo cammino nel deserto. Il verbo entrare
è presente spesso nei testi fondatori della Bibbia (la Torah),
che non riportano aneddoti secondari, ma intendono mettere a fuoco ciò
che, sulla base dell'esperienza
emblematica di Israele, risulta essere costitutivo della condizione
umana. Quanto detto ci porta ad affermare che la dinamica dell'uscire ed entrare
riveste nella
Scrittura una particolare rilevanza antropologica, e una forte valenza
simbolica. Si rimanda, infatti, all'esperienza connessa all'attraversare
una soglia, al passare da una determinata
posizione ad un'altra. Ciò trova riscontro nel linguaggio corrente, in
cui si usano espressioni quali "uscire di senno" quando si perde
l'equilibrio razionale o
"entrare nell'idea" a significare il convincersi progressivamente di una
determinata cosa; "uscire dal seminato" o "entrare nel vivo
dell'argomento",
per indicare che si perde il filo del ragionamento o si passa ad
affrontare il cuore di una tematica.
La fatica a uscire e ad entrare
Deuteronomio 1, 21-28
21 «Ecco, il Signore, tuo Dio, ti ha posto la terra dinanzi: entra, prendine possesso, come il Signore, Dio
dei tuoi padri, ti ha detto; non temere e non ti scoraggiare!».
22 Voi tutti vi accostaste a me e diceste: «Mandiamo innanzi a noi uomini che esplorino
la terra e ci riferiscano sul cammino per il quale dovremo procedere e sulle città nelle quali dovremo entrare». 23 La proposta mi piacque e scelsi dodici
uomini tra voi, uno per tribù. 24 Quelli si incamminarono, salirono verso i monti, giunsero alla valle di Escol ed esplorarono il paese. 25 Presero
con le loro mani dei frutti della terra, ce li portarono e ci fecero
questa relazione dicendo: «Buona è la terra che il Signore, nostro Dio,
sta per darci». 26
Ma voi non voleste entrarvi e vi ribellaste all'ordine del Signore, vostro Dio; 27 mormoraste nelle vostre tende e diceste: «Il Signore ci odia, per questo ci ha
fatto uscire dalla terra d'Egitto per darci in mano agli amorrei e sterminarci. 28
Dove possiamo andare noi? I nostri fratelli ci hanno scoraggiati
dicendo: Quella gente
è più grande e più alta di noi, le città sono grandi e fortificate fino
al cielo; abbiamo visto là perfino dei figli degli anakiti».
La carica simbolica del verbo entrare trova espressione in modo particolarmente efficace nel primo capitolo del Deuteronomio.
Il libro si presenta come una serie
di discorsi solenni che Mosè, prima del passaggio del Giordano, rivolge
agli israeliti nell'intento di spingerli a fare memoria degli eventi
passati (esodo e cammino nel
deserto) perché siano in grado di riappropriarsi del senso della storia
che hanno vissuto. Nel primo di questi, Mosè ricorda l'ordine dato da
Dio di entrare
nella terra di Canaan (Io vi ho posto la terra dinanzi, entrate... Deuteronomio 1, 8) e di salire nel territorio degli amorrei, una delle popolazioni che abitavano
nella terra di Canaan (Il Signore ti ha posto la terra dinanzi, sali... 1, 21).
Subito
dopo aver richiamato il comando del Signore, Mosè si ferma sulla
reazione
degli israeliti. Fin dall'inizio non appaiono entusiasti di prendere
possesso di questa terra. Sono titubanti e chiedono di inviare degli
esploratori, che tornano riferendo della
bontà della terra donata da Dio. Malgrado ciò, gli israeliti si
rifiutano di entrare in Canaan. La terra promessa, infatti, si presenta
come una realtà ambigua:
da una parte appare ospitale, piena di frutti eccellenti; ma,
dall'altra, è percepita come minacciosa, popolata da gente agguerrita e
potenzialmente ostile.
Questa terra
è metafora della vita. È dono di Dio, come riferito dagli esploratori e
come attestato ripetutamente dal testo biblico. Ma bisogna aggiungere: è
un dono problematico.
Il senso (positivo) della vita, come la bontà della terra, non è di
immediata evidenza. I dati, presi in se stessi, nella loro mera
fattualità, si presentano
come contraddittori e orientano verso due interpretazioni contrastanti.
C'è chi si pronuncia per la bontà della vita e chi la considera alla
stregua di una condanna
a morte, come fanno gli israeliti, posti di fronte alle difficoltà del
cammino verso la terra di Canaan: Il Signore ci odia, per questo ci ha fatto uscire dalla terra
d'Egitto per darci in mano agli amorrei e sterminarci (1, 27).
La situazione presentata nel primo capitolo del Deuteronomio
ha così valore paradigmatico: descrive
un'esperienza universale. Che essa rifletta una problematica comune a
ogni essere umano è confermato dal fatto che costituisce un motivo
ricorrente anche nei libri dell'Esodo
e dei Numeri, i quali, con il Deuteronomio, si rifanno ampiamente alle tradizioni esodiche. È significativo che in tutti questi libri ritorni l'interrogativo
sul senso dell'uscita dall'Egitto, il che non significa altro che
misurarsi con l'interrogativo (universale) sul senso del venire al
mondo. L'esodo, infatti, può essere
visto come «il grande parto di Israele» (RAVASI G., Esodo e Giobbe,
EDB, Bologna 1985, 5), dato che il verbo uscire è il verbo tecnico
della nascita (rimanda
all'uscita dal seno materno). Si esce dal ventre (dell'Egitto/della
madre) per entrare nel mondo. Tale passaggio è accompagnato da una
promessa di vita e di felicità,
la cui affidabilità viene immancabilmente messa in questione dalle
vicende che segnano l'esistenza concreta.
Vediamo più in dettaglio
questa problematica, ritornando
alla testimonianza scritturistica. Subito dopo l'uscita dall'Egitto, gli
israeliti si trovano in una situazione che sembra senza sbocco: davanti
c'è il mare, dietro l'esercito
egiziano. In preda alla paura, protestano nei confronti di Mosè: Forse
perché non c'erano sepolcri in Egitto ci hai portati a morire nel
deserto? Che hai fatto
facendoci uscire dall'Egitto? Non ti dicevamo in Egitto: «Lasciaci stare
e serviremo gli Egiziani, perché è meglio per noi servire l'Egitto che
morire nel deserto»?
(Esodo 14, 11-12). Simili rimostranze si ripetono come un ritornello lungo la traversata del deserto (Esodo 16, 2-3; 17, 3; Numeri
11, 4-6; 14, 2-4; 20, 2-5;
21, 5). La mancanza di cibo e di acqua fa rimpiangere l'Egitto e spinge
alla rivolta contro Mosè. E puntualmente si ripropone la stessa domanda:
perché uscire dall'Egitto
per morire nel deserto? Detto in altri termini: perché uscire dal grembo per entrare in un mondo ostile?
Fiducia per poter entrare
Numeri 14, 2-9
2 Tutti gli Israeliti mormorarono contro Mosè e contro Aronne e tutta la comunità disse
loro: «Fossimo morti in terra d'Egitto o fossimo morti in questo deserto! 3 E perché il Signore ci fa entrare in questa terra per cadere di spada? Le nostre
mogli e i nostri bambini saranno preda. Non sarebbe meglio per noi tornare in Egitto?». 4 Si dissero l'un l'altro: «Su, diamoci un capo e torniamo in Egitto».
5
Allora Mosè e Aronne si prostrarono con la faccia a terra dinanzi a tutta l'assemblea della comunità degli Israeliti.
6 Giosuè, figlio di Nun,
e Caleb, figlio di Iefunnè, che erano stati tra gli esploratori della terra, si stracciarono le vesti
7 e dissero a tutta la comunità degli Israeliti:
«La terra che abbiamo attraversato per esplorarla è una terra molto, molto buona. 8 Se il Signore ci sarà favorevole, ci introdurrà in quella
terra e ce la darà: è una terra dove scorrono latte e miele. 9 Soltanto, non vi ribellate al Signore e non abbiate paura del popolo della terra, perché
ne faremo un boccone; la loro difesa li ha abbandonati, mentre il Signore è con noi. Non ne abbiate paura».
Quale soluzione è possibile di fronte a tale domanda radicale? Tra i testi appena citati, quello di Numeri 14 sembra poter avviarci a una possibile risposta.
In
questo testo ritornano puntualmente le lamentele degli israeliti. Ma con
una novità rilevante: adesso tramano di tornare in Egitto, nella terra
dove erano schiavi, ma avevano
il cibo assicurato. Questo impulso prepotente a tornare indietro nasce
dalla paura di affrontare i rischi e i pericoli del cammino verso la
terra della libertà. Gli psicologi
parlano, a questo proposito, della nostalgia del seno materno. Di fronte
alla complessità e alle oscurità dell'esistenza, si tende a ricreare le
condizioni rassicuranti
vissute nel seno della madre. Si cerca di difendersi dalla realtà
percepita come ostile, rinchiudendosi in un mondo ovattato. Risultato:
per paura di morire si rinuncia a
vivere! Il fatto è che non si può entrare nella vita senza affrontare la
minaccia della morte. Ma per assumere positivamente tale rischio, è
necessaria la "fede",
innanzitutto quella fede elementare che si configura come atto di
fiducia fondamentale nella vita stessa. Una fede che nella Scrittura
diventa fiducia in e affidamento a una Presenza
che accompagna e sostiene ciascuno nel suo cammino, come fa un padre nei
confronti del proprio figlio. È quanto ripete qui Giosuè o ha ripetuto
più volte Mosè
(cfr Deuteronomio 1, 29-31 e Esodo 14, 13-14): Non spaventatevi e non abbiate paura.
La consapevolezza di essere stato voluto e chiamato all'esistenza da
Dio,
è ciò che sostiene la fiducia di Israele nel momento stesso in cui
sperimenta la paura di morire. Decisivo risulta, dunque, allorché si
avverte incombente la
minaccia della morte, il riferimento a Colui che è l'origine della vita e
il custode sempre vigile del nostro uscire e del nostro entrare (cfr Salmi
121, 8).
Quanto vissuto da Israele come popolo si ripropone nella
vicenda personale del profeta Geremia, il quale, in seguito a un
prolungato travaglio interiore, giunge a porsi
drammaticamente la domanda sul perché del venire al mondo: Perché sono uscito dal seno materno per vedere tormento e dolore e per finire i miei giorni nella vergogna?
(Geremia 20, 18). L'appello a entrare con fiducia nella vita è
rivolto a ogni uomo e donna. Su tutti, infatti, incombe la tentazione di
tornare indietro, di chiudersi
e difendersi a oltranza nei confronti di un mondo che appare minaccioso.
L'ordine di entrare, con una diversa accentuazione, è presente anche in un altro famoso
racconto. A Noè infatti Dio ordina: Entra nell'arca (Genesi 7, 1). La lunga narrazione del diluvio (Genesi
6, 5-9, 17) si apre con la descrizione, che
si prolunga per tutto il capitolo 6, della condizione in cui versa la
terra prima del diluvio. Due volte viene rimarcato come questa risulti piena di violenza (6, 11.13)
e irrimediabilmente corrotta (6, 11.12). La violenza - scatenata
dalla cupidigia, come illustra il racconto di Caino e Abele (4, 1-16) -
si moltiplica nei primi capitoli
di Genesi con progressione geometrica, fino ad arrivare a
occupare interamente la terra. In tal modo si innesca un processo di
corruzione della vita, che porta alla sua inevitabile
distruzione.
Di fronte a questa situazione ormai insostenibile, Dio interviene decretando la fine di ogni carne
(6, 13), cioè di ogni essere vivente. Tale decisione
non ha niente di arbitrario. Con essa Dio fa emergere in modo
incontrovertibile la forza devastante di quel processo di corruzione,
che è già in atto nel mondo a causa
della violenza dell'umanità corrotta. Del resto, l'intento divino non è
quello di procurare una distruzione fine a se stessa, ma operare un
radicale rinnovamento della
terra. Dio, appena decretata la sua totale distruzione, ordina a Noè di
costruire l'arca (6, 14), la quale permetterà di salvare ogni carne
(6, 19). Il diluvio
può essere così letto nell'ottica teologica della liberazione dalla
schiavitù d'Egitto: è visto come il grande esodo che coinvolge ogni carne.
Viene fortemente rimarcata la necessità per l'umanità intera di passare
attraverso un cambiamento sostanziale. Ma perché ciò si realizzi è
indispensabile
entrare nell'arca, come evidenzia l'ordine che riceve Noè.
Curioso e significativo al contempo è il dettaglio che il termine
ebraico utilizzato per designare
l'arca ricorra solo un'altra volta nella Bibbia, là dove indica
la cesta di papiro nella quale era stato posto il piccolo Mosè per
essere salvato dalla strage
dei bambini ordinata dal faraone (Esodo 2, 3.5). Anche qui il passaggio dal mondo regolato dalla violenza e dalla morte - allora il faraone diede quest'ordine a tutto
il suo popolo: «Gettate nel Nilo ogni figlio maschio che nascerà, ma lasciate vivere ogni femmina» (Esodo 1, 22) - ad un altro orizzonte, di vita,
avviene attraverso un'arca. Così, l'appello pressante dei nostri testi è proprio quello di uscire da un mondo dominato dalla bramosia e dalla violenza,
che riduce tutto e tutti a oggetto da manipolare a proprio vantaggio, per entrare in un modo alternativo di rapportarsi agli altri e alle cose.
Una dinamica sempre presente
Dai testi presi in esame, risulta che umani si diventa attraverso un itinerario che comporta un uscire e un entrare.
E questo secondo un duplice movimento. Si tratta,
innanzitutto, di uscire da tutti i luoghi protetti in cui ci si
rinchiude in cerca di (illusoria) sicurezza, per entrare con una fiducia
di fondo nello spazio aperto del mondo,
accettando di misurarsi con le conflittualità e le oscurità della
storia. Questo decisivo esodo di liberazione da ogni ambito che
schiavizza si deve poi tradurre nella
presa di distanza dalla logica della cupidigia, generatrice di violenza,
per entrare in una nuova rete di relazioni, segnata dalla logica del
rispetto e del dono. Abbiamo visto
quanto ciò sia vero a livello individuale. Vale la pena tuttavia
sottolineare anche la portata sociologica della dinamica, descritta non a
caso nella Bibbia, come una dinamica
di popolo.
Si parla spesso, di questi tempi, di uscire dalla crisi, senza tuttavia mai specificare bene quali siano le prospettive insite all'entrare,
né
verso quali "terre", verso quali luoghi si è chiamati ad andare. La
facile analogia fra la crisi che stiamo attraversando e il deserto del
popolo di Israele, avendo
alle spalle un certo "Egitto" (un certo modello finanziario e di
relazioni industriali capitalistiche e consumistiche, un individualismo
sfrenato che ci ha schiavizzati
al punto da lasciarci in una situazione di sfiancamento, ecc.), può ben
farci guardare a questa stagione come alla promessa di un ingresso in
una nuova terra. Tuttavia non
bisogna sottovalutare la fatica insita a ogni dinamica di uscire ed
entrare, come si è cercato di illustrare sopra. Ciò che si vede nella
"nuova terra" ha
spesso il volto dell'inimicizia, bene descritto dalla lamentela degli
israeliti di Deuteronomio 1, 27-28: Il Signore ci odia, per
questo ci ha fatto uscire dalla terra
d'Egitto per darci in mano agli amorrei e sterminarci. Dove possiamo
andare noi? I nostri fratelli ci hanno scoraggiati dicendo: Quella gente
è più grande e più
alta di noi, le città sono grandi e fortificate fino al cielo; abbiamo
visto là perfino dei figli degli anakiti, popolo di statura
proverbialmente gigantesca.
Così è facile che la paura e la mancanza di fiducia paralizzino, e ci si
rifugi in una nostalgia delle strutture economiche, lavorative e
strutturali del passato che
ci ha condotto a questa situazione. Solo guardando con fiducia al futuro
sarà possibile entrare in una nuova fase economica e politica che aiuti a giungere a un nuovo
benessere sostenibile per tutti.