"Eighth Grade"

di Bo Burnham
A24 – Scott Rudin, Stati Uniti 2018, Commedia, Durata: 94 min
Scheda di: 
Fascicolo: ottobre 2020

Le sfide quotidiane di una ragazzina di 14 anni durante l’ultima settimana di scuola media, nell’America politicamente ed economicamente instabile del 2017: una premessa che ci suona molto familiare, forse persino prevedibile; dai primi anni del 2000, il panorama cinematografico e televisivo è stato invaso da storie che si proponevano di raccontare le molteplici sfumature dell’esperienza adolescenziale o preadolescenziale, prevalentemente in ambiente statunitense. Alcune lo hanno fatto con successo; film come The edge of seventeen (2016), Call me by your name (2017), Lady Bird (2017), Love, Simon (2018) e Booksmart (2019), show come SKAM (2015) e più recentemente Euphoria (2019) hanno ottenuto rapidamente il consenso della critica e del pubblico, mettendo in scena in modo convincente le diverse storie di coming-of-age dei loro protagonisti. Altre produzioni invece non sono riuscite a cogliere nel segno, spesso perché hanno scelto di affidarsi a rappresentazioni stereotipate e limitate dagli schemi del genere.

Questa abbondanza di storie rivela però chiaramente la curiosità del mondo degli adulti nei confronti delle generazioni più giovani: che cosa pensano, che cosa fanno, come percepiscono il mondo che li circonda, in che modo le loro esperienze sono influenzate dalla presenza ormai consolidata dei social media. In questo panorama si inserisce Eight Grade, uscito in sala negli Stati Uniti nel 2018 ma disponibile per il pubblico italiano solo dalla primavera 2020, su Netflix, una piattaforma ultra-saturata, in cui è sempre più difficile distinguersi e lasciare il segno.

Il film comunica la propria unicità fin dai minuti iniziali. Si apre, infatti, con una breve ripresa sfuocata, chiaramente effettuata con una videocamera molto economica dalla quattordicenne Kayla Day (interpretata da Elsie Fisher), che sta registrando un video per il suo canale YouTube sul tema “essere se stessi”.

Kayla spiega, con voce incerta e in modo sconnesso, che «la cosa difficile di essere se stessi è che spesso non è facile», ma è importante saper resistere alle pressioni esterne e non cedere alla tentazione di cambiare per integrarsi meglio. Un monologo che suona incredibilmente spontaneo ed efficace per accogliere lo spettatore nell’universo in cui si svolge la storia. Da una parte, cattura l’attenzione e fa sorridere con il chiaro rimando ai numerosi video di self-help che affollano piattaforme come Instagram, YouTube e Tik Tok. Dall’altra, però, fa trasparire, attraverso vari elementi (la postura, il linguaggio del corpo, l’incertezza della voce) che Kayla on line interpreta un ruolo che non le appartiene nella vita di ogni giorno. Paradossalmente, il video finisce per mettere in scena proprio la difficoltà di Kayla ad accettare se stessa.

Questo conflitto tra essere e voler essere è un elemento fondamentale della storia, sempre espresso in modo sottile.

Mentre osserviamo Kayla che si prepara a iniziare il primo giorno dell’ultima settimana di scuola media, notiamo che lo specchio che usa per truccarsi è quasi completamente coperto di post-it che sembrano riassumere, con frasi dallo stile ispirato, la sua identità “ideale”: più sicura di sé, più rilassata in pubblico, più amichevole. Tuttavia, per i compagni Kayla è «la più silenziosa della classe». È così che viene definita durante una cerimonia scolastica, aumentando la frustrazione della ragazza, che infatti nel video iniziale afferma: «Molti mi dicono che sono timida o silenziosa perché non parlo molto a scuola. Non è che io abbia paura di parlare, è solo che non voglio farlo».

In realtà, niente di quello che vediamo nel corso del film contraddice l’idea che Kayla sia una persona introversa. Conduce una vita molto solitaria; a scuola non ha amici ed è invisibile ai suoi coetanei che, seppur immaturi, sembrano avere molto più successo a livello sociale, sia on line sia off line.

Poiché Kayla ha una personalità molto ansiosa, che spesso le provoca gravi attacchi di panico, partecipare agli eventi sociali tipici dell’adolescenza è una fonte di stress. A casa passa il tempo da sola in camera sua, al computer, con le cuffie o scorrendo freneticamente Instagram, lasciandosi sommergere e stordire da quanti più stimoli mediali possibili. Cerca di evitare il confronto con suo padre (Josh Hamilton), che percepisce come troppo presente, troppo affettuoso, troppo attento a ogni cambiamento di umore della figlia. È in parte per tranquillizzare il padre che Kayla continua a mettersi in gioco, nonostante le continue esperienze fallimentari e la frustrazione che le provocano.

Nonostante l’evidente influenza sulla vita quotidiana dei social media e di Internet, il film sceglie di incorporarli come elementi di fondo, onnipresenti e integrati nel mondo in cui Kayla è nata e cresce, ma senza soffermarsi particolarmente sui potenziali pericoli intrinseci che il loro uso spesso comporta. I pericoli, i traumi e le umiliazioni, per Kayla, non provengono direttamente dall’ambiente on line, dove, nonostante le sue speranze e i suoi sforzi, è praticamente invisibile nel vastissimo panorama di adolescenti che, come lei, tentano di rivendicare un’identità. Il pericolo è più ordinario: risiede nel panico di essere completamente fuori posto a una festa dove non si conosce nessuno o nell’umiliazione di sentirsi insultare da un ragazzo più grande dopo averne respinto gli approcci.

Il corso della storia è scandito dai video motivazionali di Kayla, che segnano le tappe del suo travagliato percorso di accettazione di sé e ci tengono aggiornati sui suoi pensieri e sugli obiettivi che si pone per “migliorare”; agiscono anche da motivatori, come un dialogo costante tra la Kayla della vita quotidiana e la Kayla on line. A volte, persino, la giovane parla di se stessa in terza persona, con distacco, come di «una ragazza che conosce» e che ha aiutato a uscire dal suo guscio. È un ruolo che chiaramente la conforta, ma che contrasta bruscamente con la realtà dove, come tanti altri teenager, si ritrova alla deriva, bloccata a cavallo tra adolescenza ed età adulta ma incapace di fare il salto definitivo.

Particolarmente vincente è la scelta di assegnare il ruolo principale a un’attrice che al tempo aveva effettivamente l’età, l’aspetto fisico e gli atteggiamenti di una quattordicenne. È una scelta decisamente insolita: la consuetudine, per i ruoli così giovani, infatti è selezionare un attore più vecchio, come nel caso di Lady Bird, la cui protagonista diciassettenne è interpretata dalla 23enne Saoirse Ronan; mentre Timothée Chalamet aveva 22 anni quando ha interpretato il diciassettenne Elio in Call me by your name.

Non è difficile per un attore più anziano interpretare con realismo un ruolo così giovane. Ma l’autenticità del messaggio di Eighth Grade risuona con forza proprio perché il “messaggero” non ha solo la voce di una normalissima teenager (che non parla, quindi, nel linguaggio fittizio o stereotipato spesso utilizzato da molti sceneggiatori di film e serie teen) ma ne ha anche l’aspetto, con i suoi lineamenti infantili, l’abbigliamento anonimo e la pelle imperfetta. Quando Kayla ha un attacco di panico al pensiero di unirsi ai compagni di scuola per una festa in piscina, è credibile; il suo corpo e le sue incertezze sono quelli di una quattordicenne. Se la storia di per sé ci è familiare – un classico coming-of-age, in cui il giovane protagonista deve affrontare svariate sfide e ostacoli per ottenere una nuova comprensione di sé e del mondo che lo circonda – è proprio la credibilità di Kayla a fare la differenza.

C’è una vulnerabilità speciale nell’interpretazione di Elsie Fisher che sembra mettere in risalto la fragilità stessa dell’adolescenza nel nostro tempo ed eleva la storia, regalando allo spettatore diversi gradi di immedesimazione: per chi è stato un adolescente timido, ansioso, a disagio con se stesso, è un grande déjà-vu, emozionante e terribile nel suo realismo; ma vi si può riconoscere anche, in generale, chiunque si sia mai sentito messo in imbarazzo, ignorato e senza speranza per il futuro.

Guardando Kayla che crea un video-messaggio pieno di riluttante speranza per la futura Kayla diciottenne, ci sentiamo come se avessimo seguito questo difficile percorso al suo fianco, arrivando alla stessa catarsi: un po’ più cresciuti, confusi e audaci allo stesso tempo, confortati dalla consapevolezza che, eventualmente, tutto ha una fine e tutto cambia, nel bene o nel male; pronti ad affrontare il futuro con la certezza che ci saranno sempre nuovi giorni difficili e nuove delusioni, ma anche con la speranza di qualcosa di nuovo, di diverso e di migliore.

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