È stata la mano di Dio

di Paolo Sorrentino
Biografico/drammatico, Italia 2021, 130 minuti
Scheda di: 
Fascicolo: febbraio 2022

I luoghi dove nasciamo e cresciamo normalmente forgiano la nostra identità e il nostro rapporto con la realtà.

Con il suo ultimo film, il più apertamente autobiografico della sua produzione, Paolo Sorrentino torna alle sue radici, che prendono proprio la forma del rapporto viscerale con la sua città natale, Napoli. Se la Roma del pluripremiato La grande bellezza (2013) appariva onirica e forse un po’ stereotipata, la città partenopea emerge qui in tutta la sua vitalità e complessità, nei luoghi, nelle persone, nella lingua, nella cultura, e nei simboli. Fanno capolino fin dall’inizio San Gennaro, il Munaciello, e soprattutto Maradona, Mano de Dios, la cui entrata messianica, in una vibrante Napoli anni ‘80, fa da sfondo e al tempo stesso si intreccia con la narrazione autobiografica.

Il protagonista, l’adolescente Fabietto, alter ego del regista nella finzione come nella realtà, verrà davvero “salvato” dalla “Mano di Dio” (se quella calcistica o quella in senso proprio, è lasciato all’interpretazione dello spettatore). La tragedia della morte dei genitori, tratteggiata in tutta la sua “ordinaria” drammaticità, fa da spartiacque nella vita del protagonista, e il racconto apparentemente spensierato del suo variopinto universo familiare (pur già non esente dalle ben celate ombre che fanno parte della storia di ogni famiglia: «Non si sa mai cosa succede veramente nelle case degli altri», come afferma la baronessa vicina di casa) lascia spazio all’improvvisa esigenza di diventare grandi, e di (ri)pensare al futuro, che per Fabietto prenderà i contorni della sua passione per il cinema.

Vari sono dunque i temi che si intrecciano: dal tema del lutto e della perdita a quello del romanzo di formazione e della ricerca della propria “vocazione”, del proprio posto nella vita. In tutto questo, Napoli è molto più di uno sfondo: è parte della vita e della storia di Fabietto/Paolo. Il film intero, fin dalle sequenze iniziali, appare come un autentico nostos, un ritorno alla sua identità più profonda e vera, da cui il protagonista è invitato a “non disunirsi”, in un intenso dialogo con il regista Antonio Capuano.

I vari frammenti della storia e dell’anima del regista paiono ritrovare nello svolgimento del film una ricomposizione inaspettata e inedita. La città ne diviene in un certo senso lo specchio, e le sue varie “anime”, quella borghese e colta dello stesso Fabietto, quella popolana del contrabbandiere Armando, quella ruvida e artistica del regista Capuano, si incontrano e si scontrano, rappresentando i “mille colori” cantati da Pino Daniele nei titoli di coda, che stanno naturalmente e miracolosamente insieme in un unico quadro.

Napoli è Napoli, e il film è indubbiamente legato alle vicende personali del regista. La sua storia e la sua città tuttavia aprono anche noi spettatori alla possibilità di volgere uno sguardo rinnovato alle nostre vite, alle persone, ai luoghi e alle comunità che hanno contribuito a formare quello che siamo. Rivolgono anche a noi l’invito a non rassegnarci all’idea che la realtà sia semplicemente “scadente”, deludente, come Fabietto protesta nel suo dialogo con Capuano; l’invito a non disunirci dalle nostre radici, persino da quelle che affondano nelle esperienze più dolorose, perché in esse si svela il senso di un futuro ancora da costruire.

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