La trama del film
Louis, giovane scrittore che da tempo ha lasciato la sua casa di origine per vivere appieno la propria vita, torna a trovare la sua famiglia con una brutta notizia. Ad accoglierlo il grande amore di sua madre e dei suoi fratelli, ma anche le dinamiche nevrotiche che lo avevano allontanato dodici anni prima.
«Da qualche parte, un po’ di tempo fa» (così leggiamo nei titoli di testa), il giovane drammaturgo Louis (Gaspard Ulliel) decide di far visita alla propria famiglia (madre, sorella, fratello e una cognata), dopo un decennio d’assenza: ha una grave malattia e ha bisogno di sentirsi addosso, ancora una volta, l’amore che gli è riservato e di misurare la straziante nostalgia che lo lega ai suoi cari. La voce narrante del protagonista enuncia subito il tema della pellicola: «Nonostante la paura… esistono motivazioni, che ci appartengono e riguardano soltanto noi e che ci spingono a partire senza voltarci indietro… o a tornare… Intraprendere il viaggio per annunciare la mia morte, annunciarla di persona, e magari dare agli altri e anche a me stesso un’ultima volta l’illusione di essere fino alla fine padrone della mia vita. Vediamo come andrà».
La classica questione dell’etica medica se dire o no la verità al malato viene ribaltata dal racconto: il punto di vista non è quello dei medici o dei familiari, ma del paziente, consapevole del suo stato, che vorrebbe parlare di sé, della fine incombente, del dolore di una separazione. Vorrebbe rivisitare i luoghi della sua adolescenza e cercare i modi, le parole e i gesti più propizi per raccontarsi. Ma non ci riesce. Incomprensioni, antiche rivalità, un’atmosfera irrequieta e spaventata impediscono al gruppo familiare di maturare una premura affettuosa, di rallentare e personalizzare il tempo della confidenza.
In effetti, si può “sentire” e intendere la confessione dell’altro se si è disposti a stare con lui, a identificarsi nelle sue attese, a lasciarsene trasformare, ad apprendere dalla vita quello che lui sta faticosamente imparando. Se si è “veri” con l’altro, se si accetta di dimorare un poco nel suo mondo interiore, la “verità” può essere detta, compresa, condivisa, espressa insieme con parole nuove. Altrimenti, anche una verità può diventare una falsità sul piano esistenziale, travisando le paure e distogliendo l’attenzione dalle speranze che contano. Così, Louis enuncia vagamente: volevo dirvi una cosa importante; tornerò a trovarvi più spesso, ora devo andare. «Devo andare», questa frase incompleta, brusco presagio di un distacco amaro, non viene capita o è addirittura fraintesa dal gruppo come una cesura offensiva, un fastidioso tradimento. L’enunciato non genera in tutti la commozione che meriterebbe, ma innesca soluzioni pragmatiche («ti porto io in aeroporto, su, dai, muoviti») tese a liquidare l’imbarazzo, a superare lo stallo.
Più leale è il commento della mamma: «la prossima volta che tornerai, saremo più pronti, vedrai, più preparati ad accoglierti e ascoltarti». La frase, nella sua spontaneità femminile, dischiude un’altra interpretazione dell’evento, e cioè che il gruppo ha capito, più o meno consapevolmente, quello che conta. Al di là delle parole di circostanza, prima delle informazioni di dettaglio, la famiglia ha letto negli occhi commossi di un figlio inquieto, nelle sue strane assenze, nei suoi immotivati silenzi, nell’imprevista decisione di tornare al nido d’infanzia, gli indizi di una notizia grave, di un declino sconvolgente, di un itinerario doloroso, che riguarderà tutti, ma che il gruppo – almeno per ora – non vuole o non può accompagnare. Ciò che viene taciuto e rimosso come un tabù, in realtà deflagra come la fine del mondo di prima, ma mancano lacrime e simboli per celebrare il rito di un passaggio crudele.
Il talentuoso regista canadese Xavier Dolan (classe 1989) conserva l’originario impianto teatrale del testo di Jean-Luc Lagarce, autore teatrale francese morto per AIDS nel 1995, a soli 38 anni, e delinea un ritratto di interni: volti accostati, emozioni a fior di pelle, contrasti caratteriali, paure reciproche, l’invidia per un geniale letterato, il senso d’abbandono, il sospetto verso chi ha rotto con la provincia e ha reso pubblico, attraverso la scrittura, un disagio esistenziale. I dettagli, i primi piani, la fotografia delle piccole cose, i dialoghi insistiti, sospesi, disordinati, documentano l’analisi appassionata, coraggiosa e assieme impietosa, che ogni regista (Ingmar Bergman insegna) deve condurre in nome della verità. Come in altri film di Dolan, quali Laurence Anyways (2012) o Mommy (2014), la famiglia non riesce a contenere e intrecciare la diversità delle vocazioni, dei temperamenti spirituali, delle nuove identità di genere. La discriminazione corrode i rapporti se la comunità rifiuta d’imparare a vivere, prendendo in considerazione lo sguardo imbarazzato e curioso di un figlio o di un partner, che sperimentano una nuova possibilità d’amare e cercano di portare a parole la gioia di una relazione sentimentale o il dramma della malattia.
Il film di Dolan parla anche del cinema come viaggio di ritorno verso casa, come esplorazione di affetti dimenticati e come difficile comunicazione di verità. Louis non riesce a parlare liberamente del proprio dolore, eppure la sua presenza innesca strani fermenti, inquiete curiosità. Così accade anche quando si confezionano storie per lo spettatore: l’arte di dar corpo alle immagini è mossa dal desiderio di disegnare un buon finale e di condividerlo con la “famiglia” del pubblico, con quella comunità anonima che accetta di immedesimarsi in biografie lontane e di venir ospitata nella “casa” dei personaggi. Non tutto però può essere detto. Ogni film, nel mostrare qualche verità, ne taglia o vela un’altra, operando un montaggio azzardato e persino crudele. Non solo: il tempo incalza. Come nella mente di Louis c’è un’incombente, tragica separazione, così anche la compagnia vissuta tra autore e spettatore dura troppo poco. La loro “amicizia” è caduca, frammentata, inconclusa, impotente. La narrazione accende una speranza di prossimità, e assieme prepara al dubbio, al distacco, all’addio.