Marco Santarelli è regista noto nel carcere bolognese della “Dozza”. Nel 2011 ha girato tra quelle mura
Milleunanotte e ora vi fa ritorno per firmare il suo ultimo documentario,
Dustur (in arabo “Costituzione”), prodotto da Zivago Media e Ottofilmaker in associazione con Istituto Luce Cinecittà.
L’operazione è una scommessa, il rischio di fabbricare retorica è dietro l’angolo, ma il risultato è di sicuro interesse. Santarelli non vuole disorientare a tutti i costi: non suggerisce ricette, non escogita espedienti, non propina melassa. Semplicemente, racconta fatti autentici e storie di vita in carne e ossa.
Per quasi un anno, dall’autunno alla tarda primavera dell’anno scolastico 2014-2015, ha ripreso con la videocamera le lezioni di un particolarissimo corso di educazione civica destinato ai detenuti musulmani, riuniti nella biblioteca del carcere e guidati da Ignazio De Francesco, frate dossettiano della Piccola Famiglia dell’Annunziata, da Yassine Lafram, mediatore culturale, e da alcuni testimoni significativi: docenti della scuola in carcere, esponenti del mondo istituzionale, accademico e culturale. L’obiettivo è audace: instaurare un dialogo creativo tra la Costituzione italiana e gli ideali, i valori e gli orizzonti culturali degli studenti, prevalentemente marocchini e tunisini, ma anche algerini, pakistani, afghani… con qualche provocatoria incursione in dialetto campano. Si vogliono fare emergere punti di contatto, ma anche differenze significative: perché, si spiega nel volume che ripercorre l’intera esperienza, «è solo a partire da una descrizione esatta delle piste percorribili e degli ostacoli sul percorso che l’educatore potrà elaborare un programma di lavoro dotato di un minimo di efficacia nei confronti di questa porzione della popolazione carceraria» (
Diritti Doveri Solidarietà. Un’esperienza di dialogo tra Costituzioni e culture al carcere “Dozza” di Bologna, novembre 2015, disponibile sul sito del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale della Regione Emilia-Romagna <
www.assemblea.emr.it/garanti/attivita-e-servizi/detenuti/attivita/promozione/progetti/diritti-doveri-solidarieta/diritti-doveri-solidarieta>, p. 19).
Durante le lezioni, mentre si discorreva di primavere arabe, di
sharì’a e di diritti universali dell’uomo, il regista si mimetizzava tra gli studenti senza in alcun modo interferire con il lavoro in corso, restituendo con la cinepresa tutta l’intenzionalità educativa di queste autentiche prove di dialogo, con i loro alti e bassi.
Il film riferisce fedelmente tutto questo, ma non solo. La trama si snoda attraverso un ulteriore canale narrativo: la storia del giovane Samad, ex detenuto marocchino che oggi studia all’università, lavora e prova a immaginare per sé una diversa collocazione nel mondo, distante dalla prospettiva del guadagno facile e illegale. Santarelli lo accompagna nella sua quotidianità, spingendo verso lo spettatore il suo sguardo penetrante, talvolta solcato da ombre, i denti intatti e le labbra floride, le cicatrici dell’acne. Sul finire del documentario, le due storie si ricongiungeranno: Samad rientrerà in carcere, da uomo libero, per scrivere insieme a frate Ignazio, a Yassine e agli altri detenuti un
dustur ideale, una Carta contenente desideri e aspirazioni, diritti e doveri intimamente connessi per la costruzione di una società dove c’è spazio per tutti e tutti possono sentirsi a casa.
Presentato alla 33ª edizione del Torino Film Festival, proprio a ridosso dei recenti, drammatici, fatti di Parigi, il documentario di Santarelli ha conquistato i premi «Avanti» e «Gli occhiali di Gandhi» parlando di
tadàmun (in italiano “solidarietà”) e di quella polarità tra legge di Dio e legge degli uomini che, si legge sempre nel volume che raccoglie i resoconti del corso, «coinvolge non solo il macro-livello delle relazioni internazionali […] ma anche quello atomizzato nelle coscienze individuali, quello delle convinzioni profonde che accompagnano invisibilmente i singoli ovunque si trovino» (
Diritti Doveri Solidarietà, pp. 37-38), di gran peso in un cammino di integrazione. Il documentario ripercorre i principi fondamentali della nostra Costituzione, affiancando al consueto catalogo un originale ed emblematico “diritto ad aggiungere” qualcosa per sé e per la propria esperienza di vita, nella consapevolezza dell’insopprimibile valore della dignità umana.
Ancora, ci mostra la fatica di chi tenta di rialzarsi, di recuperare fiducia dopo aver scoperto l’esperienza della “vergogna”, di invertire la rotta, costi quel che costi: «Tantissime volte all’inizio dicevo: ma chi me lo fa fare? Potevo organizzare un viaggio. […] Due o tre viaggi, mi sarei messo in sella e vado in Marocco, vivrei per sempre là. Chi me lo fa fare? A lavorare per 800 euro, svegliandomi alle sei, tornare a casa alle sette. Vivo in una casa grande quanto una cella, non è che c’ho un castello fuori… solamente che c’ho il privilegio che ho io le chiavi. Quindi decido io quando entrare e quando uscire. Questo per me significa libertà: il fatto di studiare e di lavorare, di essere cosciente della situazione in cui sono io. Essere sobrio, soprattutto: da qualsiasi forma di droga, anche dall’alcol. Per me, quella è libertà».
Queste parole di Samad riecheggiano quelle dei due prigionieri del film
A trenta secondi dalla fine di Andrei Konchalovsky, evasi e lanciati in una folle corsa a bordo di un treno privo di macchinista, mentre discutono di un plausibile futuro fuori dal carcere: «Te lo dico io cosa farai!», dice uno dei due. «Ti troverai un lavoro, uno di quei lavori che può trovare uno come noi. Passare le giornate a lavare le tazzine in un bar o pulire i cessi. E ti aggrapperai a quel lavoro come se fosse oro perché è oro!». «Io non voglio fare quella vita, allora me ne rimanevo in galera! Tu la faresti?», replica l’altro. «Magari potessi, magari potessi…», conclude il primo, denunciando nello sguardo una profonda amarezza per quello che non è stato e non potrà più essere.
I due fuggiaschi di Konchalovsky, con toni deliberatamente esasperati e grossolani, colgono nel segno. Anche Samad coglie nel segno. Proprio per questo, possiamo essere onesti: probabilmente il documentario di Santarelli confessa una “pietosa bugia”. Del resto, non sarebbe il primo, né l’unico, a rappresentare il carcere come un luogo nel quale risulta effettivamente possibile la sperimentazione di un progetto pedagogico, la revisione critica del proprio passato. Pensiamo al recente documentario di Filippo Vendemmiati,
Meno male è lunedì, girato sempre all’interno della “Dozza” di Bologna e centrato sul significato educativo del lavoro e della formazione professionale.
Eppure noi sappiamo che la storia di Samad non è la regola, che nei fatti l’esperienza detentiva contribuisce ad accentuare (e non a ridurre!) i
deficit economici, culturali e sociali di chi delinque. Sappiamo che, nonostante la buona volontà, solo raramente il “trattamento penitenziario” ha rappresentato un antidoto efficace alla recidiva. Perché insistere allora nella rappresentazione dello sforzo individuale e collettivo per produrre effettivo reinserimento nella società a partire dall’esperienza carceraria? Non sarebbe meno retorico portarsi nel solco di quanti denunciano, anche attraverso il cinema, tutta l’insufficienza di questa pratica segregativa e provare a immaginare “qualcosa di meglio”?
Al regista di
Dustur tutto questo sembra non interessare minimamente. Non denuncia oscenità e crudeltà, non costruisce nemmeno un lieto fine. Non provoca strappi, né anticipa gli eventi. Non sappiamo se Samad riuscirà a laurearsi, né se il corso pensato e realizzato da frate Ignazio produrrà effettivamente qualche germoglio di bene. Ai tempi del conclamato declino dell’ideologia inclusiva, Santarelli ci parla di uomini che provano a darsi una mano tra loro. Non è mica poco, né scontato.
In un passaggio del film, Samad dichiarerà: «Ma io sono stato fortunato». Fortunato perché lungo la strada ha incontrato qualcuno che ha creduto in lui, che ha speso del tempo per lui, aiutandolo a sfuggire alla necessità di individuare “soluzioni biografiche a contraddizioni sistemiche”.
Dustur ci comunica che, nonostante tutto, la nostra fortuna non dipende solo da noi o dalla consistenza del nostro patrimonio sociale. Ci comunica che dobbiamo provare a rimetterci in piedi, sempre. Che è possibile farcela, insieme. In fondo, esattamente a questo pensavano i nostri Padri costituenti, quando hanno inserito «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» nell’articolo 2 della nostra Carta fondamentale.
Questo documentario ha molti meriti: rende pubblico un esperimento che rischiava di rimanere confinato nei lunghi pomeriggi della detenzione bolognese. Spiazza lo spettatore offrendo alla sua visione una bizzarra Assemblea costituente intenta a proclamare che «per creare una società buona è necessario che i suoi individui siano in stretta relazione, si consultino tra loro e agiscano in base a ciò su cui si sono accordati». Una società “buona”. Questo è un compito che spetta a tutti noi, sembra volerci dire Santarelli.
Hannah Arendt, nella sua
Vita activa, sosteneva che «la sfera pubblica, in quanto mondo comune, ci riunisce insieme e tuttavia ci impedisce, per così dire, di caderci addosso a vicenda». Allora, scrivere un dustur ideale «sarà solamente una perdita di tempo, nessuno andrà mai, di qua e di là… ma intanto noi lo scriviamo. Cerchiamo di fare del nostro meglio... e poi Dio ci aiuti nelle nostre scelte!».