La questione dell’effettiva capacità degli studiosi di raggiungere un pubblico più ampio della cerchia degli specialisti è un problema aperto che riguarda molte discipline. La divulgazione, ovvero la diffusione del sapere, è o dovrebbe essere una finalità esplicita di società che si definiscono fondate sulla conoscenza. Se questo vale per ogni sapere scientifico, tanto più è vero per la storia.
Non mancano lavori che si pongano seriamente questo obiettivo. Un esempio di ciò che si può definire “alta divulgazione”, cioè la presentazione dei prodotti della ricerca storica con modalità e linguaggi comprensibili ai non addetti ai lavori ed espressi in forme e contenuti di notevole qualità, è certamente il volume di Emilio Gentile sulla Grande Guerra. L’A., uno dei maggiori storici contemporaneisti sul palcoscenico mondiale, presenta il proprio lavoro come «una esposizione dei fatti essenziali, accompagnata da fotografie e immagini, che sono parte integrante di una narrazione che si svolge simultaneamente attraverso il linguaggio verbale e il linguaggio iconografico» (p. X).
Nel volume di Gentile, come in ogni opera storiografica (e tanto più nelle opere di sintesi), emerge un taglio interpretativo che è frutto dei molti anni di lavoro dell’A. sui temi del nazionalismo, della modernità, dei totalitarismi, delle religioni della politica, sull’Italia giolittiana e sul fascismo. La narrazione proposta tiene insieme molti piani (dalla diplomazia agli aspetti militari, dalla politica dei Governi alla dimensione economica, dai mutamenti sociali alle trasformazioni prodotte sulla mentalità dei popoli coinvolti), al fine di offrire uno sguardo complessivo sul fenomeno della Grande Guerra.
La domanda alla base di questo libro è come sia potuto accadere che la civiltà europea, rappresentata come la più alta e progredita forma di civiltà umana, abbia potuto – proprio nel periodo più splendente della cosiddetta Belle Epoque, l’epoca della “modernità trionfante” – produrre la più devastante e drammatica esperienza bellica nella storia dell’umanità. Quell’Europa che stava conoscendo un lungo periodo di pace (l’ultimo conflitto sul suolo europeo risaliva alla guerra franco-prussiana del 1870), che si ergeva a emblema del progresso dell’umanità, che mostrava i simboli della modernità (l’elettricità, la scienza, il benessere) coltivava in sé, al contempo, una cultura e un’etica della guerra rintracciabili nell’idealismo hegeliano (la guerra come prova per le nazioni di fronte al “tribunale della storia”), nel positivismo darwinista, nell’idealizzazione nazionalista della virilità dell’uomo guerriero, incarnante tutte le virtù dell’umano. Accanto a queste impostazioni stava poi l’avanguardismo di movimenti quali il futurismo o dei rivoluzionari inneggianti a una guerra che ponesse fine al lassismo pacifista e borghese, all’immoralità di una civiltà percepita come corrotta e decadente. A tale fervore culturale corrispondeva anche una crescente corsa agli armamenti da parte delle potenze europee, principalmente finalizzata alla contesa coloniale.
Tuttavia «l’esplosione della guerra in Europa – afferma Gentile – fu una sorpresa che colse tutti impreparati, compresi gli Stati e gli eserciti» (p. 40). Soprattutto, essa parve a un certo punto un fatto inevitabile, un orizzonte fatalmente ineludibile, e questo perché «alla fine, non fu una ragionevole razionalità, politica, diplomatica, militare o economica, a prevalere nelle scelte e nelle decisioni dei governanti, ma una irragionevole razionalità, mossa dal senso dell’onore, dal patriottismo, dal nazionalismo e dalla ragion di Stato» (p. 41).
Il sostegno alla guerra fu in questo senso progressivamente sempre più ampio. Anche quelle forze che avevano dichiarato il proprio pacifismo, come i socialisti, finirono per appoggiare in pieno la politica dei propri Governi nazionali (ad eccezione di russi, serbi e italiani). Lo stesso mondo cattolico, nonostante le dure prese di posizione della Santa Sede (dallo sgomento di Pio X alla “inutile strage” di Benedetto XV), si allineò in grande maggioranza alle posizioni governative, fornendo peraltro utili strumenti per una sacralizzazione del conflitto e contribuendo alla rappresentazione della guerra come un conflitto tra civiltà e barbarie (impostazione comune ad entrambi gli schieramenti) e alla demonizzazione del nemico.
L’impreparazione alla guerra fu un dato evidente. All’inizio, gli eserciti finirono presto le munizioni ed ebbero equipaggiamenti del tutto inadeguati per una guerra moderna. L’illusione di una guerra lampo si trasformò nell’incubo di una vita quotidiana vissuta nelle trincee, luoghi nei quali i soldati erano costretti a convivere con l’orrore della morte, il fango, i topi, i pidocchi, gli escrementi, i cadaveri dei compagni. La guerra di trincea rivelava un volto sconosciuto, dove l’immagine romantica ed epica dei duelli “corpo a corpo” (spesso evocati dai volontari in partenza per il fronte) lasciava il posto a una morte anonima, provocata dai colpi dell’artiglieria e dai gas asfissianti.
Le conseguenze prodotte da questa nuova guerra furono devastanti. L’Europa perse il suo primato economico mondiale, conobbe profonde trasformazioni nei suoi confini (sparirono gli imperi austro-ungarico, ottomano e russo, crollò il Reich tedesco e nacquero nuovi Stati, tra i quali la Polonia, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia), l’inflazione salì a livelli inauditi e la ricostruzione fu un problema di enorme portata per vincitori e vinti. Soprattutto, il numero di morti fu impressionante. Dieci milioni di persone furono uccise (per dare un’idea della portata di questo dato, si consideri che furono più del doppio dei morti di tutte le guerre ottocentesche) e si calcolarono circa 20 milioni tra feriti, invalidi e mutilati. A ciò si devono poi aggiungere i morti per fame e malattia, direttamente connessi alle conseguenze prodotte dalla guerra nei singoli Paesi. Una devastazione senza precedenti, che ha fatto parlare di “generazioni perdute” e che ha lasciato un tragico legato ai Governi postbellici, impegnati a dover gestire in qualche modo l’assistenza di un elevato numero di mutilati, invalidi, vedove e orfani di guerra.
Le conseguenze della Grande Guerra non si esaurirono, però, nei dati politico-istituzionali, sociali o economici. L’esperienza della trincea, la violenza e la brutalità del conflitto avevano profondamente influenzato la mentalità dei soldati. I reduci portarono questa nuova mentalità, fatta di cameratismo e di sentimento comunitario, nelle società postbelliche e diedero vita, in modo certamente diseguale nei vari contesti nazionali, al fenomeno del combattentismo e della militarizzazione della politica. Il combattente appariva ora come l’uomo nuovo forgiato dalla guerra. Così Gentile descrive le caratteristiche di questo fenomeno: «ciò che caratterizzò queste aggregazioni paramilitari nazionaliste fu l’adozione del cameratismo delle trincee come esperienza vissuta di una nuova identità comunitaria, assunta a modello di coesione nazionale, fondata sul Mito della Grande Guerra come fattore di rigenerazione della politica e della società» (p. 185).
Si apriva così un nuovo capitolo della storia europea, segnato dall’impossibilità di un ritorno alla situazione precedente. La mobilitazione di massa, la richiesta di combattere per la nazione sino al sacrificio della propria vita, il coinvolgimento di tutti gli strati della società in una guerra a carattere “totale” non permettevano il semplice ripristino di un contesto che non esisteva più.
La Grande Guerra aveva spazzato via un mondo. Le certezze su cui l’uomo europeo aveva fondato la sua visione dell’esistenza si erano improvvisamente dissolte. Così, infine, Gentile sintetizza il suo denso ed esaustivo affresco: «durante l’estate del 1914, nel corso di poche settimane, le popolazioni del continente più progredito, più evoluto, più colto, più civile, più ricco e più potente del mondo precipitarono nell’abisso di una guerra immane, con un’improvvisa esplosione di odio, di crudeltà, di massacri e di orrori, che non aveva eguali nella storia del genere umano. […] In pochi mesi, l’epoca bella della modernità trionfante si era tramutata nell’epoca tragica della modernità massacrante» (p. 197).
La ricostruzione della Grande Guerra proposta da Gentile può considerarsi un’ottima esemplificazione del valore e della peculiarità della produzione storiografica, che, come ha sostenuto il celebre storico olandese Johan Huizinga, «si distingue dal resto della produzione scientifica per il fatto che in nessun altro campo tanta parte di ciò che si scrive è diretta a un vasto pubblico di non specialisti. È privilegio e prezioso dovere della storia rendersi comprensibile a tutte le persone colte. Ogni scienza cerca, entro certi limiti, di sviluppare, accanto a un lavoro accessibile esclusivamente agli specialisti, anche una produzione a carattere divulgativo. Per lo più, questa resta una produzione secondaria. Per la storia è invece una attività essenziale» (La scienza storica. Il suo valore, la sua attività, Res Gestae, Milano 2013, 90).
Questa osservazione, scevra di qualsiasi concezione finalistica della storia – alla quale non viene, dunque, riconosciuta alcuna funzione pedagogica sul piano sociale – interroga implicitamente tutti gli storici. Quanto gli approfonditi e spesso minuziosi dibattiti storiografici entrino in circolo nei giornali, nelle radio, in televisione o nei nuovi media, quanto condizionino le idee e le rappresentazioni del passato del pubblico più o meno colto, è questione difficile da misurare con certezza. La sensazione è che molto spesso si proceda su binari paralleli e che davvero poco della produzione storiografica finisca per incidere sul dibattito pubblico, offrendo a più ampi settori dell’opinione pubblica i risultati scientifici della disciplina.
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