Il filosofo americano H. Tristram Engelhardt
jr., uno dei grandi nomi della
bioetica internazionale, è noto soprattutto
per il suo Manuale di bioetica. In esso si
sostiene che la filosofia morale non è in
grado di giustificare razionalmente una
concezione canonica del valore della vita
e, più in generale, che nessuna concezione
del bene può aspirare a una validità
universale. Ne segue che la bioetica dovrebbe
rinunciare a fornire indicazioni
sostanziali per la gestione dei nuovi poteri
biotecnologici, come quelli relativi
alla manipolazione del patrimonio genetico,
al prolungamento artificiale della
vita o alle diverse forme di procreazione
assistita, assumendo un atteggiamento
puramente procedurale. Questo conduce
a conclusioni libertarie, ossia a considerare
valide tutte le scelte liberamente attuate
da individui dotati di capacità decisionali;
non perché si possa considerare l’autonomia
individuale come il valore supremo,
razionalmente stabilito, ma perché questa
è l’unica soluzione procedurale che può
salvarci dal più pericoloso nichilismo.
In questo nuovo volume, pubblicato
in lingua italiana prima ancora che esca
l’edizione americana, la medesima dottrina
viene presentata da una prospettiva significativamente
diversa. Il testo rielabora
otto conferenze tenute dall’A. nel nostro
Paese, nelle quali Engelhardt illustra da
vari punti di vista il tema della secolarizzazione
della morale, l’emergere di quello
che egli chiama lo “Stato laico fondamentalista”
e il suo difetto di autorità morale
alla luce del declassamento e ridimensionamento
della morale seguito alla fine del
cristianesimo. Soprattutto il primo capitolo
presenta un tono decisamente autobiografico.
Engelhardt racconta la propria
esperienza di credente, cresciuto nella fede
cattolica e poi progressivamente allontanatosi
da essa, fino alla conversione e al
battesimo nella Chiesa greco-ortodossa,
avvenuto nel 1991.
Fornendoci i dettagli del proprio
travaglio spirituale, tra cui il resoconto
dell’esperienza di membro del direttivo
del gruppo di studio sulla bioetica della
Federazione internazionale delle Università
cattoliche, l’A. mostra le profonde radici
religiose del suo pensiero, gettando
così sulla sua proposta teorica una luce
quanto meno inedita.
Filosofia e fede, si
potrebbe dire, vivono per Engelhardt in
una sorta di circolarità ermeneutica, dove
però la seconda sembra svolgere un ruolo
prevalente. Il volume contiene infatti
numerose pagine di riflessione storica e
teologica, nella quale l’A. articola alcuni
tratti canonici della polemica ortodossa
contro il cattolicesimo. Più che insistere
su punti dottrinali specifici, Engelhardt
addebita al cristianesimo occidentale
una scellerata e, a lungo andare, mortale
alleanza con la ragione e la filosofia; da
Agostino in poi, l’Occidente ha abbandonato
Gerusalemme a favore di Atene
e, a partire da Carlo Magno, ha stabilmente
posto l’alleanza col potere politico
al centro del suo programma. Ciò
ha condotto il cattolicesimo a non essere
più «la Chiesa degli apostoli e dei padri,
bensì una religione occidentale plasmata
dalle preoccupazioni culturali che avevano
dominato l’Europa occidentale verso
la fine del primo millennio e l’inizio del
secondo» (p. 35). Soprattutto, il cattolicesimo
ha scelto una via razionalista all’etica,
sostenendo che Dio comanda ciò che
è di per sé giusto e che la ragione può
accertare come tale, mentre l’ortodossia
ha costantemente adottato la posizione
alternativa, secondo la quale è giusto ciò
che è comandato da Dio. Questa opzione
razionalista del cristianesimo occidentale
ha condotto a una progressiva emarginazione
del ruolo della religione: ha fatto
apparire plausibile che si possa «conoscere
e amare la natura della vita morale senza
fare riferimento a Dio e ha avallato la
tesi che la filosofia morale possa essere
affrontata come un’impresa completamente
laica» (p. 175). Parallelamente, ha
trasformato i teologi da credenti che esercitano
un’attività sapienziale basata sulla
preghiera e sull’ascesi ad accademici che
dissertano sui contenuti della fede come
se fossero filosofi.
L’emarginazione della fede nella sfera
pubblica ha condotto al progetto illuministico
di sostituirla totalmente con
la ragione; l’etica di Kant (1724-1804) è
da un lato espressione estrema di questo
tentativo, dall’altro attestazione implicita
del suo fallimento, in quanto riconosce la
necessità di postulare l’esistenza di Dio e
l’immortalità dell’anima per giustificare
la morale. Da Hegel (1770-1831) in poi,
l’Occidente riconosce che tutte le morali
laiche non sono che insiemi particolari di
valori storicamente determinati, sostenuti
dalla narrazione morale propria di una
specifica comunità; con il venir meno del
sostegno trascendente che solo poteva
garantire la validità universale dell’etica,
la morale è inevitabilmente declassata a
“macroscelta di uno stile di vita”. Questo
esito pone alle società postmoderne un
problema assolutamente inedito: quello
di vivere in un mondo senza Dio, un
mondo in cui le istituzioni sociali e politiche,
e quindi le leggi e i vincoli che
tali istituzioni pongono, non godono
più di una giustificazione trascendente,
ma sono, ormai scopertamente, basate
su opzioni contingenti. In particolare, il
discorso laico su dignità umana, giustizia
sociale e diritti umani, come lo si concepisce
a partire dalla Rivoluzione francese
e quale viene riproposto nelle odierne
bioetiche laiche, non è nient’altro che una
tra le tante narrazioni morali possibili,
priva di valore universale.
Engelhardt dedica uno spazio particolare
alla critica della teoria di Tom
L. Beauchamp e James Childress, la più
nota e diffusa prospettiva della bioetica
internazionale. Questi autori, espressione
del Kennedy Institute of Ethics, vera
culla della bioetica mondiale, istituito nel
1971 presso l’Università di Georgetown
(non a caso, un’università cattolica e gesuita),
propongono una bioetica basata su
quattro principi – autonomia, non maleficenza,
beneficenza e giustizia – che
rappresenterebbero la “morale comune”
dell’Occidente. Secondo Engelhardt, la
rinuncia di questi autori a inquadrare i loro principi nell’ambito di una teoria
morale complessiva esprime, da un lato,
il fallimento dell’etica filosofica che vuole
fare a meno di Dio, dall’altro l’implicita
deriva “biopolitica” della bioetica. Infatti,
in mancanza dell’autorità divina e di
quella della ragione, è solo l’autorità dello
Stato che consente di giustificare questi
principi morali. Ma se la morale è la macroscelta
di uno stile di vita, nulla autorizza
lo Stato a imporre scelte di carattere
sostanziale ai suoi cittadini, se non il suo
potere sanzionatorio.
Secondo Engelhardt, perciò, «la morale
e la bioetica laiche dominanti sono
l’equivalente laico di una religione ufficiale,
ora presentata come un’ideologia
laica stabilita dallo Stato» (p. 95); in maniera
ancor più netta, quelli occidentali
odierni sono degli “Stati fondamentalisti
laici”, ossia Stati che impongono «nello
spazio pubblico, nonché nelle istituzioni
e nelle professioni pubbliche, una particolare
visione normativa del discorso e
dell’azione appropriata» (p. 193). Queste
visioni normative non sono giustificate
né da Dio, né dalla ragione, né dal
consenso universale e perciò sono prive
di ogni autentica giustificazione. Non a
caso, tutti i sistemi politici fino a oggi
hanno riconosciuto un fondamento trascendente
della propria legittimazione:
«nessuna grande cultura ha mai affermato
che un significato ultimo non esiste»
(p. 282) e la prospettiva di un mondo e
di una politica senza Dio è genuinamente
inedita.
A fronte di questi sviluppi della postmodernità,
Engelhardt guarda con favore
alle religioni fondamentaliste, ossia, oltre
alle comunità greco-ortodosse, agli ebrei
ortodossi, ai cristiani fondamentalisti,
agli islamici: a tutte quelle comunità, insomma,
che disconoscono l’autorità morale
dello Stato e difendono gelosamente
il diritto di vivere in base alle proprie
convinzioni morali, del tutto alternative
a quelle dello Stato fondamentalista laico.
In particolare, apprezza la “scorrettezza
politica monumentale” degli operatori
sanitari che, reagendo al declassamento
della morale, reclamano il diritto all’obiezione
di coscienza, ossia a rispettare
i doveri verso Dio anziché quelli verso
lo stato laico. È questa preoccupazione
religiosa che sta alla base della difesa,
intrapresa da Engelhardt nelle sue precedenti
opere, dello Stato minimo. Lo Stato
minimo è lo Stato guardiano notturno,
che limita il proprio compito alla difesa
della vita e della proprietà dei cittadini,
lasciando loro la libertà di agire e concordare
azioni cooperative in coerenza
con le proprie convinzioni; diversamente
da quelli realmente esistenti, è uno Stato
che non si ritiene autorizzato a compiere
scelte sostanziali, come quelle necessarie
per finanziare un sistema sanitario, ma
lascia agli individui e alle comunità ogni
decisione in merito. La società, nella quale
ci incontriamo come stranieri morali
che parlano linguaggi diversi, dev’essere
ridotta alle regole procedurali necessarie
per garantire la pace sociale; la vita delle
persone deve svolgersi essenzialmente
nelle comunità morali, dove ci si incontra
come amici morali che condividono un
sistema di valori e una concezione complessiva
del bene.
L’opera di Engelhardt è stata spesso
presentata, soprattutto nel nostro Paese,
come un vangelo del laicismo, un’etica
laica par excellence. In realtà, è un’opera
dominata da un’intenzione essenzialmente
religiosa che, in nome della critica
alle pretese della ragione filosofica, denuncia
l’attuale cultura laica dominante.
In un capitolo dedicato ai profondi
mutamenti delle concezioni sul sesso e
la riproduzione, ad esempio, Engelhardt
stigmatizza con grande forza l’odierna
cultura “consumistica” delle relazioni
sessuali, additando la contraccezione e
l’aborto come mali fondamentali della
nostra epoca. Egli denuncia perfino l’ethos
postcristiano della famiglia e della
parità sessuale, che spinge le donne
all’appagamento sessuale e lavorativo e a
considerare i figli un optional, esaltando
invece l’ethos conservato dai tradizionalisti
cristiani ed ebrei, che suggerisce alle
donne la convinzione che «la vera realizzazione
di sé stia nell’essere madri di
molti figli e nell’allevarli per il Signore»
(p. 126). In sostanza, la maggior parte
delle idee espresse in questo volume si
collocano all’estremo opposto, rispetto
alla cosiddetta bioetica laica, della quale
Engelhardt nega addirittura l’esistenza
(p. 209); egli è piuttosto un cristiano
fondamentalista, visceralmente allergico
all’ethos laicista dominante. Politicamente,
egli è vicino alle posizione della
destra religiosa americana, un misto di
fondamentalismo biblico e liberismo capitalista;
il suo scetticismo sulle capacità
della ragione, e ovviamente anche della
ragione politica, di giustificare valori e
principi condivisi lo porta tuttavia ad
affermare posizioni libertarie in ambito
bioetico, come unica alternativa, sul piano
secolare, al puro nichilismo.
Ci sono molte buone ragioni per dissentire
sulla diagnosi e sulle conclusioni
dell’A. Molte sue affermazioni sono discutibili,
come la sua critica al cristianesimo
occidentale e la sua sfiducia radicale nelle
capacità della ragione di generare accordi,
sia pur parziali, su valori sostanziali;
inoltre, il suo atteggiamento programmaticamente
antiecumenico lascia quanto
meno perplessi; infine, la sua immagine
delle tradizioni religiose che ne lega l’autenticità
a una connotazione decisamente
fondamentalista appare senz’altro non
condivisibile. D’altro canto, va apprezzato
lo sforzo di mostrare l’impossibilità di
soffocare l’anelito umano al trascendente
e di «esorcizzare lo smarrimento innescato
dalla domanda di una ragione sufficiente
di tutto ciò che è» (p. 283). Il volume
costituisce da un lato una testimonianza
preziosa di questa tensione religiosa alla
base del percorso intellettuale di un protagonista
della bioetica contemporanea,
dall’altro una ricostruzione avvincente,
benché discutibile, di elementi centrali
della tradizione filosofica e religiosa
dell’Occidente: un testo provocatorio,
dunque, con cui è utile e opportuno confrontarsi
criticamente.
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