Dominare la violenza (3)

Fascicolo: gennaio 2018

Quale risposta può essere data da parte di Dio e degli uomini alla violenza che dilaga nel mondo, mettendo a repentaglio le relazioni personali e i legami sociali? Nella Genesi tale questione si pone fin da subito in tutta la sua serietà con il racconto della vicenda di Caino e Abele (Genesi 4,1-16). Ciò testimonia il carattere originario rivestito dall’esperienza della violenza perpetrata e subita, il peccato che da sempre mina la fraternità a tutti i livelli. L’episodio del diluvio (Genesi 6,5-9,17) prosegue e approfondisce questa tematica, mostrando che la terra sommersa dalle acque non è altro che una conseguenza della dilagante violenza. Il diluvio non è perciò un atto distruttore di Dio, il cui intento è piuttosto di aprire una breccia nel muro di violenza che domina il cuore dell’uomo per operare un radicale rinnovamento (Teani M., «Dominare la violenza (2)», in Aggiornamenti Sociali, 12 [2017] 854-858). Soffermarsi sul lungo racconto permetterà di cogliere come tutto ciò si realizza.

Un disastro annunciato

In Genesi 6,14-16 è contenuto un insieme di istruzioni meticolose, impartite da Dio a proposito della costruzione dell’arca. Sembrerebbe un testo di poco interesse, che rasenta quasi la pedanteria. In realtà, dilungandosi su tali istruzioni, il passo vuole sottolineare che ci si salva obbedendo alla Parola di Dio e non basandosi principalmente sulle proprie analisi o facendo conto sulle proprie forze. La salvezza si trova facendo ciò che Dio dice di fare, come Noè che si fida della Parola rivoltagli: eseguì ogni cosa come Dio gli aveva comandato: così fece (6,22). Inizia dunque a costruire l’arca, esponendosi allo scherno dei suoi contemporanei, che ritenevano assurda l’idea della prossima rovina del mondo: nei giorni che precedettero il diluvio mangiavano e bevevano, prendevano moglie e prendevano marito, fino al giorno in cui Noè entrò nell’arca, e non si accorsero di nulla finché venne il diluvio e travolse tutti (Matteo 24,38-39). Noè è in grado di sfidare la derisione della gente perché si fonda sulla Parola del Signore, come mette bene in luce il passo di Ebrei 11,7: Noè, di fronte all’annuncio di cose che ancora non si vedevano, si impegnò nella costruzione dell’arca con piena docilità e disponibilità (è questo il significato del verbo eulabéomai qui utilizzato) a quanto indicato da Dio.

La minuziosità delle istruzioni suggerisce un’altra considerazione: la costruzione dell’arca richiede tempo. Tra il decreto della fine e la sua esecuzione c’è un intervallo: è il tempo della pazienza di Dio e, correlativamente, il tempo della (possibile) conversione dell’uomo. È il tempo della decisione, in cui si è posti di fronte alla scelta se entrare o meno in un processo di cambiamento profondo. È significativo che in Genesi 7 ricorra più volte il verbo “entrare” (vv. 1, 7, 9, 13 e 16), dando risalto all’esecuzione dell’ordine divino (il redattore biblico attira l’attenzione su questo aspetto anche in altri passi, cfr Teani M., «Entrare, uscire», in Aggiornamenti Sociali, 4 [2012] 340-344). Non è sufficiente la costruzione dell’arca, è necessario entrarvi finché c’è tempo (Genesi 7,16: il Signore chiuse la porta dietro a Noè). Decidersi a entrare, equivale a decidere della propria vita.

Dio ha a cuore la sorte dell’umanità

Il capitolo 7 della Genesi descrive le acque che, in un crescendo impressionante, sommergono la terra intera. Nella concezione (prescientifica) del tempo, la terra è rappresentata come un “disco” al di sotto del quale si trovano le acque dell’abisso (che danno origine al mare e alle acque di sorgente), mentre al di sopra, nel cielo, si trova un grande serbatoio (da cui provengono le acque piovane, la neve e la grandine). L’opera creatrice di Dio aveva separato le acque che coprivano la terra, imponendo loro un argine al di sopra e al di sotto del disco terrestre. Tale argine è ora travolto, perché si aprono le sorgenti dell’abisso e le cateratte del cielo (7,11). Il diluvio è perciò descritto come un ritorno al caos primordiale, una sorta di de-creazione. Nella tradizione biblica, del resto, le “grandi acque” rappresentano la forza devastante del male e rimandano proprio alle acque del caos che ricoprivano la terra prima dell’intervento di Dio. In base a tale valenza simbolica, il testo di Genesi 7 lascia intendere che la terra, corrotta a causa della violenza dilagante, è inghiottita dal male a cui essa si è consegnata. La violenza si autodistrugge.

Mentre il capitolo 7 parla delle acque del diluvio che giungono a sommergere totalmente la terra, nel capitolo successivo è narrata la fine del diluvio. Il testo si attarda nel descrivere il lento defluire delle acque, sotto l’azione del vento mandato da Dio sulla terra. Sono necessari sette mesi prima che l’arca possa posarsi sui monti dell’Ararat. Dopo altri tre mesi appaiono le cime dei monti. Passati altri quaranta giorni, Noè fa uscire dall’arca un corvo. Successivamente, per tre volte e a distanza di una settimana ogni volta, fa uscire una colomba che, dopo la terza uscita, non torna più da Noè: è il segno che la terra è ormai tornata asciutta (Genesi 8,14). Ma ci sono voluti parecchi mesi! Questo lungo periodo di attesa costituisce il tempo della pazienza dell’uomo. La trasformazione dell’umanità – e di ogni singola persona – non si attua come per incanto, non avviene in un attimo.

Fin dall’inizio Genesi 8 mette a fuoco la causa che determina la progressiva diminuzione delle acque: Dio si ricordò di Noè e di tutti gli animali presenti con lui nell’arca (v. 1). Il verbo ricordare (zakar) riveste qui, come in diversi altri passi della Scrittura, un significato peculiare. Non fa riferimento al puro e semplice richiamare alla mente qualcosa che si è dimenticato, ma piuttosto indica il prendersi cura di persone e situazioni che stanno particolarmente a cuore. Ne risulta che Dio si ricorda di Noè perché ha a cuore la sorte dell’umanità.

L’espressione Dio si ricordò di… ritorna nelle Scritture per introdurre precisi interventi salvifici del Signore. Così, quando Egli si ricorda del suo popolo schiavo in Egitto, decide di inviare Mosè (Esodo 2,24-25) per fare uscire Israele dalla condizione miserevole in cui si trova imprigionato. Emblematico è anche il caso di Rachele, la moglie prediletta del patriarca Giacobbe, che vive l’umiliazione della sterilità, eppure le è dato di concepire e generare un figlio proprio grazie al fatto che Dio si ricorda di lei (Genesi 30,22). Lo stesso avviene per Anna, la madre di Samuele (1Samuele 1,19), il profeta chiamato a svolgere un ruolo di rilievo nella nascita della monarchia in Israele. Particolarmente istruttiva è la presenza del motivo del ricordo nel Magnificat (Luca 1,59: Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre) e nel Benedictus (Luca 1,72: Egli ha concesso misericordia ai nostri padri e si è ricordato della sua santa alleanza, del giuramento fatto ad Abramo nostro padre). In ambedue i cantici lucani il ricordo è posto in relazione con la promessa incondizionata fatta da Dio ad Abramo e, in lui, a tutto Israele. Una promessa di benedizione, che si è tradotta nell’instancabile agire misericordioso del Signore nei confronti dei padri. Dunque, il ricordo, che ha come protagonista Dio lungo tutta la storia della salvezza, è espressione della sua fedeltà alla parola data e all’impegno assunto verso Israele e tutta l’umanità.

La risposta di Dio alla sfida del peccato

Terminato il diluvio, Noè esce dall’arca, insieme con tutti gli animali che erano entrati con lui (Genesi 8,15-18). A questo punto Dio prende un impegno solenne nei confronti dell’umanità: Non maledirò più il suolo (‘adamah) a causa dell’uomo (‘adam), perché ogni intento del cuore umano è incline al male fin dalla giovinezza… Finché durerà la terra, seme e messe, freddo e caldo, estate e inverno, giorno e notte non cesseranno (8,21-22). Assumendo questo impegno in modo incondizionato, Dio mostra che il suo amore fedele è più forte del male della storia. Con la promessa del riproporsi costante delle stagioni, da cui dipende la fecondità della terra, Dio assicura la sua benedizione, ma lo fa tenendo conto dell’inclinazione verso il male di ogni uomo, tendenzialmente condizionato dalla cupidigia e dalla gelosia. In tal modo, se così si può dire, il Signore accetta la sfida del peccato! Tutto questo ha una ripercussione anche per noi oggi. Assistendo alla successione del giorno e della notte, al fatto che la terra continua nonostante tutto a produrre i suoi frutti, ci è dato di riconoscere che sull’umanità peccatrice è stata pronunciata una benedizione indefettibile, capace di contrastare e di vincere l’orientamento del cuore umano verso il male.

Il motivo della benedizione divina che si fa strada in una storia di peccato di Genesi 8,21-22 è ripreso e sviluppato nel capitolo successivo. Il testo si apre con le parole che Dio rivolge a Noè e ai suoi figli (Genesi 9,1: Siate fecondi e moltiplicatevi e riempite la terra), le quali, puntando alla propagazione della vita, sono segno inequivocabile della volontà di Dio di benedire l’umanità uscita dall’arca. Sono parole che ricalcano quelle che Dio stesso aveva pronunciato quando aveva benedetto Adamo (Genesi 1,28). C’è però una differenza rilevante, introdotta nel versetto immediatamente seguente: Il timore e il terrore di voi sia in tutti gli animali della terra e in tutti gli uccelli del cielo (9,2). Rispetto al progetto originario che prevedeva il dominio pacifico della terra (Teani M., «Il vangelo della creazione», in Aggiornamenti Sociali, 2 [2016] 165), ora è come se Dio prendesse atto che il mondo resta segnato dalla conflittualità e che, almeno sulle prime, a dominare nelle relazioni è la paura dell’altro (la relazione uomo-animale è specchio della relazione tra gli umani). L’umanità, chiamata a governare con mitezza il mondo animale (in primo luogo la propria animalità!), deve sempre nuovamente fare i conti con la violenza.

Come contrastare il male della storia?

In questo quadro, diventa significativo che, secondo Genesi 9,3, il cibo concesso all’uomo non sia più solo vegetale, come in Genesi 1,29-30 (cfr Beauchamp P. – Vasse D., La violence dans la Bible, Cerf, Paris 1991, 7-15; Wénin A., Perché tanta violenza?, San Paolo, Cinisello Balsamo [MI] 2011, 27-39). Introducendo questo nuovo regime alimentare, Dio, in qualche modo, concede spazio alla violenza, ma per poterla contenere, nella speranza di aprire una via per il suo superamento. Come è possibile arginare la violenza? Per farlo è necessario il ricorso alla legge, che secondo Genesi 9,4-6 ha una duplice finalità. La prima, espressa in maniera simbolica al v. 4 (Non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue), è di porre un freno alla cupidigia e all’avidità, che tendono a occupare il cuore umano lasciando libero corso alla violenza. La seconda funzione della legge, indicata nei vv. 5-6, è di contrastare l’aggressività nei confronti dell’altro (Del sangue vostro, ossia della vostra vita, io domanderò conto… [v. 5]), stabilendo una pena proporzionata al reato commesso (chi sparge il sangue dell’uomo, dall’uomo il suo sangue sarà sparso… [v. 6]). È la cosiddetta “legge del taglione”, la cui formulazione classica si trova in Esodo 21,23-24. Essa, contrariamente all’immagine diffusa, non instaura affatto la legge della giungla. Al contrario, intende disinnescare il meccanismo della vendetta, regolando la sanzione comminata in relazione alla gravità della colpa.

La legge non ha perciò lo scopo di far trionfare nel mondo la mitezza, in conformità con il progetto originario del Creatore. Essa, infatti, non ha il potere di liberare il cuore umano dall’invidia e dalla bramosia. Il suo scopo è di impedire lo scatenamento della violenza, prendendo tempo per trovare modi più umani di relazionarsi agli altri, facendo leva sulla vocazione ricevuta da ‘adam in principio. Dunque, la legge, pur necessaria, risulta insufficiente e inadeguata a sradicare la violenza. È richiesta una trasformazione del cuore (cioè della profondità personale), in modo tale che gli umani imparino a dominare la propria animalità e si realizzino a immagine del Dio di mitezza. Ritroviamo così la pazienza di Dio, che sa attendere aspettando e confidando nella conversione, e la pazienza dell’uomo, consapevole che un profondo cambiamento interiore non si coniuga con l’assillo di giungere velocemente ai risultati desiderati.

Alla volontà divina di benedire l’umanità, espressa in Genesi 9,1-7, fa da contrappunto, nei successivi vv. 8-11, l’alleanza unilaterale che Dio stringe con Noè (e con tutti i viventi). L’impegno che Egli assume (vv. 11 e 15) è incondizionato. Tutto è legato al suo agire assolutamente gratuito. Segno di questa alleanza è l’arcobaleno (9,12-17). Esso, allorché appare nel cielo, annuncia la fine della tempesta. Comparendo qui alla fine del diluvio, diventa segno della volontà divina di non distruggere più la terra. È anche possibile che l’arcobaleno rimandi all’arco di guerra della divinità, di cui si parla nelle mitologie orientali. In questo caso, il testo intende affermare che Dio depone le armi! Rinuncia a contrastare con la forza la violenza. Sceglie di combattere con le armi dell’amore “inerme”, senza perdere la speranza nel desiderio di salvezza dell’umanità. È la via che Gesù, manifestazione compiuta di Dio, ha percorso fino al dono estremo della sua vita. Una via che ha permesso di riscattare la malvagità stessa che lo ha ucciso.


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