Diritti per forza

Gustavo Zagrebelsky
Einaudi, Torino 2017, pp. 150, € 12
Scheda di: 
Fascicolo: novembre 2017

Cosa significa avere un diritto nell’epoca della saturazione degli spazi, delle risorse, nel mondo globalizzato in cui l’esercizio di diritti riconosciuti come universali trova ostacoli tali da rendere ormai retorico ogni discorso o convegno che li promuova? Siamo certi che dietro l’impasse che sembra caratterizzare la cosiddetta “età dei diritti”, in cui istituzioni nazionali e non si ergono a paladine impotenti del loro ampliamento e della loro diffusione, non si celi un vero e proprio fraintendimento sul significato di una parola per sua natura ambivalente? Gustavo Zagrebelsky, giurista ed ex presidente della Corte costituzionale, parte da queste domande per mettere a fuoco, in un libro alieno da ogni retorica e compiacenza, il sottinteso di una parola che non può essere trascurato, altrimenti di diritti rischiano di essere piene le bocche ma vuoto il mondo. In quell’Occidente che pretende di trasformare la felicità da compito morale dell’uomo virtuoso, com’era nel mondo antico, in diritto universale e oggettivabile, «chi oserebbe negare che la povertà, l’analfabetismo, la schiavitù, la violenza, le persecuzioni, la tortura, le sparizioni dei non integrati e degli oppositori, le migrazioni forzate, l’ammassamento di milioni di persone in slum e bidonville, lo sfruttamento, le desertificazioni siano oggi diffuse su larga scala e, sommandosi, colpiscano innocenti in misura che forse mai si è conosciuta in passato?» (Prologo). La causa di tutto ciò «è da cercare presso presunti nemici dichiarati dei diritti», che negandoli impedirebbero l’opera di questi strumenti di felicità, «oppure la causa è diversa ed è intrinseca nella concezione stessa dei diritti, in un mondo come l’attuale, che si rivela sempre più piccolo e complesso?» (ivi).

Questa concezione, nata in un’epoca che non è più la nostra, se ben analizzata rivela sfaccettature che al momento della sua apparizione erano senz’altro libertarie, ma che oggi si mostrano addirittura violente, tanto da far nascere il sospetto che i diritti siano spesso la maschera con cui “chi può” cela il proprio sopruso nei confronti di “chi non può”. Il diritto al proprio stile di vita, a essere padroni a casa propria, alla libera ricerca della felicità (l’espressione è della Dichiarazione d’indipendenza americana), in altre parole il diritto inteso come armatura giuridica della volontà individuale ha avuto origine in un mondo dai tratti specifici: “tratti aperti”, dove la collisione fra le volontà era l’eccezione cui la norma giuridica metteva rimedio, mantenendo salvo il principio per cui “tutto ciò che non è vietato dalla legge non può essere impedito e nessuno può essere costretto a fare ciò che essa non impone”. Il presupposto di questa elevazione della libertà individuale a norma costitutiva della società, secondo cui “la libertà è la regola e i doveri l’eccezione”, risiedeva nello “spazio vuoto”, ossia nell’eccezionalità del conflitto tra le volontà grazie all’ampia disponibilità di risorse e alla possibilità di sfruttarle dell’epoca. «Il fatto che il diritto individuale alla libera ricerca della felicità abbia fatto la sua apparizione nella Dichiarazione d’indipendenza delle tredici colonie britanniche sulla costa orientale dell’America del nord non è casuale […] I colonizzatori si vedevano impiantati in un ambiente sconfinato e tutto a propria disposizione […] La frontiera dell’ovest si poteva spostare continuamente e sembrava non conoscere limiti» (p. 27).

Oggi sappiamo che nemmeno quegli spazi erano propriamente vuoti, ma piuttosto “svuotati” da chi per qualche ragione, se non altro quella della propria forza, si riteneva in diritto di occuparli. Ma il cosiddetto mondo globalizzato non conosce più nemmeno spazi svuotabili: «che cosa significa la parola globalizzazione se non che tutto il mondo costituisce uno spazio unico, totalmente occupato e, perciò, saturo?» (p. 37). Un mondo siffatto, per quanto grande, è uno spazio chiuso, che non ha un “di fuori”. Una gabbia dai larghi confini, ma pur sempre una gabbia in cui la guerra, che prima era esterna, diviene irrimediabilmente interna e ogni sommovimento locale ha ripercussioni globali. Se la concezione dei diritti che ci è pervenuta dalla tradizione si trova a operare in questo contesto, la “signoria delle volontà individuali” che la caratterizza finisce con il manifestare il suo volto aggressivo, intollerante e distruttivo, perché là dove i beni scarseggiano lo scontro delle volontà da eccezione diviene norma e il liberalismo giuridico si tramuta in una tacita e velata accettazione della legge del più forte: «nel tempo della saturazione del mondo, le esigenze della convivenza esigono che si abbassi, per così dire, la temperatura dei diritti a iniziare da quelli più pretenziosi e voraci, oppure ci si deve preparare al peggio» (p. 40).

Ovvietà e discorsi logori? Non molto, perché se si prova a capire con Zagrabelsky che cosa significa abbassare questa temperatura, ci si accorge che a essere minacciati sono diritti che ognuno di noi ritiene inviolabili, anzi: un’intera ideologia che permea così profondamente la nostra società da risultarci incontestabile, fino a spingerci a bollare di totalitarismo ogni tentativo di metterla in discussione. La fortuna incontrata dall’espressione Stay hungry, stay foolish di Steve Jobs, o la candidezza con cui Melania Trump, ripetendo espressioni analoghe di Michelle Obama, ha affermato: «vogliamo che i nostri figli sappiano che l’unico limite ai loro obiettivi è la forza dei sogni e la volontà di lavorare per ottenerli», testimoniano non solo quanto questo spirito ci sia familiare, ma la fede che si tratti di assunti innocui che è impossibile non sottoscrivere. In effetti, finché lo sguardo permane al livello della “dialettica” diritti-doveri per cui, al pari di un semaforo, il rosso e il verde costituiscono l’uno il presupposto dell’altro, “l’ingordigia” e la forza dei sogni non possono che assumere una valenza universale, democratica, egualitaria: sono diritti alla portata di tutti. Ma il dubbio sollevato da Zagrebelsky è che «non esistano più […] diritti il cui esercizio da parte di alcuni non riduce o non esclude la possibilità che i medesimi diritti possano essere esercitati in egual misura da parte di altri» (p. 45). In un mondo saturo, i diritti, al pari dei beni, divengono “rivali”, per cui possono essere esercitati solo escludendo altri dal farlo. In questo, però, l’espressione “ciò che mi spetta” muta di significato e assume una valenza doppiamente violenta perché sottintende il perpetrarsi di un furto e la sua giustificazione. «Che cosa significa per esempio il motto “the american way of life is not negotiable” pronunciato sistematicamente dai Presidenti, repubblicani e democratici, di una nazione che comprende una minoranza della popolazione mondiale, ma che, per vivere come vuole in assoluto consuma un quarto delle risorse a disposizione dell’umanità intera?» (p. 80).

Spostare la bilancia sul piatto dei doveri è cosa che hanno provato a fare in molti negli ultimi tempi. Il primato di questi ultimi sui diritti non è mera questione formale, ma un completo ribaltamento del quadro: si passa da una visione in cui ciò che non è vietato è concesso a una in cui ciò che non è esplicitamente concesso è vietato. Si delineano cioè due etiche opposte che «nelle loro manifestazioni estreme, portano all’individualismo che disconosce le ragioni dell’insieme come tale, oppure al totalitarismo che disconosce le ragioni dell’individuo come tale» (p. 100). Eppure negli spazi pieni le ragioni dei doveri prevalgono su quelle dei diritti, «ciò non per scelta ideologica, come poteva essere un tempo neanche troppo lontano da noi, ma per ragioni di sopravvivenza delle società umane in un mondo in cui ogni rottura di equilibri locali si ripercuote sugli equilibri generali» (ivi).

L’età dei diritti ha comprensibilmente in sospetto la cultura dei doveri: espressione della società divisa in caste dell’Ancien Régime prima e dei totalitarismi di vario colore poi, l’esaltazione del dovere è sempre stata connessa all’obbedienza agli dèi, al sovrano e a tutte le forme assunte dal potere costituito. Tuttavia «una cosa è il dovere come soggezione al potere; un’altra cosa è il dovere come risposta a una chiamata di responsabilità nei confronti della condizione dei propri contemporanei e nei confronti di coloro che dovranno poter venire dopo di noi» (p. 94). In questo senso «oggi è di nuovo tempo di doveri, ma doveri verso i nostri simili» (p. 95), tanto che lo stesso costituzionalismo ne sta rivalutando il ruolo: non più contropartita dei diritti, ma «posizioni giuridiche autonome che vivono di vita propria, senza presupporre necessariamente l’esistenza (attuale) delle corrispondenti situazioni di vantaggio e dei relativi titolari» (p. 96). Questo perché oggi i titolari di quei vantaggi o non ci sono ancora o non sono nelle condizioni di farli valere: dal punto di vista giuridico le generazioni future (la cui esistenza è minacciata dall’ingordigia delle attuali) non godono di alcun diritto, mentre l’universalità dei diritti fondamentali, garantiti dai singoli Stati entro i propri confini, vale solo astrattamente per quella massa di “sradicati” che oggi si contano a centinaia di migliaia.

Per queste ragioni si aspetta che il costituzionalismo, «pur senza rinunciare alla sua aspirazione centrale di essere al servizio della resistenza all’arbitrio e dunque dei diritti» (p. 125), riscopra i doveri, intesi in senso “assoluto”, ossia come risposta a una domanda di giustizia oggettiva e non come contraltare di diritti soggettivi. Di fronte a diritti che mostrano un volto libertario e uno sopraffattore, «ciò che occorrerebbe è una giurisprudenza che cercasse di rendersi consapevole di una domanda disorientante: se le ingiustizie e i mali del mondo, un mondo che solo tragicamente e ironicamente potremmo definire “dei diritti”, siano a onta o a causa dei diritti; una giurisprudenza che mettesse in rapporto le pretese dei diritti con il problema della giustizia: problema che dovrebbe venire per primo» (p. 144).


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