Digiuno

Fascicolo: marzo 2015
Con l’arrivo della quaresima o del mese del ramadan, le pagine dei giornali propongono puntualmente qualche articolo sulla pratica del digiuno, presentandone spesso e volentieri gli aspetti più di colore, come se non ci fosse bisogno di spendere parole per spiegare di cosa si tratti. In effetti, il digiuno – l’astenersi in tutto o in parte dal mangiare e dal bere per un certo lasso di tempo – è una pratica religiosa antica e diffusa, presente in tante tradizioni religiose: prima ancora dei cristiani e dei musulmani, era per gli ebrei l’espressione attiva della loro fede, insieme alla preghiera e all’elemosina.

Invece nella nostra società occidentale, opulenta e secolarizzata, la pratica del digiuno pare scomparsa, o trova al limite posto fra le curiosità per riti e usi di popoli lontani o gruppi minoritari. Al suo posto, è sempre più diffuso il ricorso alle diete per migliorare il proprio aspetto fisico, espressione di un rapporto con il cibo attento più all’immagine che alla dimensione spirituale. Questo è uno dei tanti aspetti contradditori che caratterizzano le nostre società rispetto al cibo, al suo consumo e al suo valore simbolico (cfr TINTORI C., «I paradossi del cibo», in Aggiornamenti Sociali, 1 [2014] 12-16). Ma davvero il digiuno non ha più senso in una società avanzata? Per rispondere, dobbiamo tornare a mettere a fuoco tutto il valore di questa pratica religiosa, così come emerge dalla lettura della Bibbia, per riscoprirne gli effetti positivi sul piano individuale e collettivo.


Digiunare per restare vivi

La Bibbia indica vari motivi e significati del digiuno: può essere un segno di cordoglio per la morte di una persona cara o importante (come nel caso dei sette giorni di lutto per la morte del re Saul, 1Samuele 31,13); o un modo per fare penitenza e chiedere a Dio il perdono dei peccati (come gli abitanti di Ninive, cfr Giona 3); o un mezzo per conoscere la volontà di Dio (cfr Daniele 9,3); o, più in generale, per ottenere qualche grazia (ad esempio la protezione dai nemici, cfr Ester 4,16); o, infine, una forma di devozione personale, la cui bontà dipende dalle intenzioni di chi la vive (è il caso del fariseo che si vanta agli occhi di Dio perché digiuna due volte alla settimana [Luca 18,12], mentre Gesù insegna a vivere con discrezione questa pratica [Matteo 6,16-18]).

Quest’ultima modalità, relativa alla sfera privata, individuale del digiuno, pur essendo contemplata dalla Bibbia, non è la più rilevante, anzi, è decisamente più marcata la dimensione pubblica e sociale. Secondo la visione biblica, infatti, i riti e le pratiche religiose sono un servizio reso a Dio per affermarne la signoria sull’uomo e sul mondo e quindi hanno senso e si rivelano validi solo se contribuiscono a convertire i cuori e a instaurare il Regno sulla terra. Per questo, soprattutto nei testi profetici, si trovano spesso veementi critiche a una religiosità ridotta a pura formalità e così privata del suo potere trasformante. Un brano esemplare in questo senso si trova nel libro del profeta Isaia (Isaia 58,1-8).

Rientrato dall’esilio, nella seconda metà del VI sec a.C., Israele sperimenta molte difficoltà nella ricostruzione del Paese, come se Dio gli avesse tolto il suo favore, e perciò si chiede: Perché digiunare, se tu non lo vedi, mortificarci, se tu non lo sai? (v. 3). Il Signore risponde con un’altra domanda, retorica e provocatoria: È forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica? Piegare come un giunco il proprio capo, usare sacco e cenere per letto, forse questo vorresti chiamare digiuno e giorno gradito al Signore? (v. 5). Se fosse così, si tratterebbe solo di una pratica esteriore da compiere per conformarsi a quanto richiesto dalla società o per ingraziarsi il favore di Dio.

Un simile modo di digiunare è inefficace, dice il Signore, perché è slegato dal resto della vita, che continua a scorrere fra soprusi e ingiustizie: Ecco, nel giorno del vostro digiuno curate i vostri affari, angariate tutti i vostri operai. Ecco, voi digiunate fra litigi e alterchi e colpendo con pugni iniqui (vv. 3b-4). Il profeta dice – anzi grida – che ben altro è il digiuno gradito da Dio: «Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo? Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare quello della tua stessa carne?» (vv. 6-7). Le parole del Signore mettono in luce il vero significato e scopo del digiuno: un esercizio che apre l’uomo alla comunione con Dio e con gli altri.

Digiunare, infatti, significa privarsi di qualcosa di necessario ed essenziale per la vita. Così facendo, l’uomo sceglie volontariamente di non essere sazio e si mette nella condizione di sperimentare un vuoto. Proprio questa condizione di mancanza permette di avere uno sguardo più consapevole su se stessi, su ciò che solitamente si ha e molte volte si dà per scontato e dovuto, su ciò di cui si ha veramente bisogno e sul modo di procurarselo. Rinunciando alla soddisfazione immediata e ad ogni costo di una necessità così basilare come mangiare, l’uomo si mette in condizione di poter riconoscere che la sua autosufficienza è illusoria e spesso fondata sull’ingiustizia, sullo sfruttamento dell’altro. A questa situazione può porre rimedio condividendo le risorse liberate dal digiuno.

L’astensione dal cibo come genuina pratica religiosa, quindi, genera una fame che va oltre la dimensione fisica e individuale. Ecco perché nell’VIII sec. a.C., in un periodo di prosperità, ma anche di profonde ingiustizie sociali, il profeta Amos vede in essa un segno dell’azione di Dio: Ecco, verranno giorni – oracolo del Signore Dio – in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore (Amos 8,11).

La reazione di Dio alla lontananza del popolo dal rispetto della legge, a una religiosità superficiale e alla continua ricerca del proprio interesse economico è la fame della sua Parola. Non si tratta certo di un digiuno – il popolo non lo sceglie, ma lo subisce –, però la dinamica è la stessa: la privazione di qualcosa di essenziale serve a percepire un vuoto. Dio non si sostituisce all’uomo rimediando dall’alto alle sue mancanze, ma agisce nell’interiorità, risvegliando il desiderio – di cui la fame è un sintomo – con una logica simile a quella del digiuno: togliere qualcosa per non restare intorpiditi a causa della sazietà e così fare spazio alla novità e alla vita.


Digiunare per essere pronti

Un’altra indicazione sul senso e l’utilità del digiuno così come inteso dalla Bibbia si trova in un episodio degli Atti degli Apostoli.


Atti 13,1-3
1 C’erano nella Chiesa di Antiochia profeti e maestri: Barnaba, Simeone detto Niger, Lucio di Cirene, Manaèn, compagno d’infanzia di Erode il tetrarca, e Saulo. 2 Mentre essi stavano celebrando il culto del Signore e digiunando, lo Spirito Santo disse: “Riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati”. 3 Allora, dopo aver digiunato e pregato, imposero loro le mani e li congedarono.


La comunità non solo è riunita in preghiera, ma sta anche digiunando, cioè come abbiamo visto in precedenza si mette in una condizione di maggiore disponibilità per lasciare spazio – attraverso il vuoto creato dalla privazione del cibo – al risuonare della parola di Dio. E in effetti un appello inatteso si fa strada: riservare alcuni per una missione speciale. La centralità della preghiera e del digiuno è ancor più sottolineata dalla seconda menzione: prima di congedare Barnaba e Saulo, i due prescelti, la comunità prega e digiuna ancora una volta per prepararsi a vivere questa missione.

È un modo di procedere che mette in questione il nostro per due aspetti. Il primo riguarda come progettiamo, organizziamo e svolgiamo la nostra missione nel mondo. La razionalità scientifica ci insegna a organizzare il lavoro in modo da renderlo efficace ed efficiente in vista di un obiettivo da conseguire. La domanda principale da questo punto di vista è se ci sono i mezzi materiali necessari a portare a termine un progetto. Inoltre, il criterio ultimo per decidere è quasi sempre la convenienza economica. La prima comunità cristiana di Antiochia, invece, innanzitutto prega e digiuna: paradossalmente, prende distanza proprio da quei beni materiali necessari a sostenere la missione. Certo non saranno mancati i preparativi di natura pratica per equipaggiare i due inviati di quanto avevano bisogno, ma il racconto non fa riferimento a una programmazione accurata, che include anche il procurarsi i mezzi materiali e finanziari necessari, bensì al privarsi del cibo come pratica che radica sempre di più nella disponibilità verso la missione. La priorità, infatti, è data al “capitale umano”: è più importante scegliere le persone adeguate per quel dato compito che disporre degli strumenti.

Il secondo aspetto è collegato a questo. Una comunità già ben organizzata – ci sono profeti e maestri – è chiamata a non tenere per sé i suoi uomini migliori, ma a inviarli in altri luoghi dove c’è più bisogno. Da parte loro, Barnaba e Saulo rinunciano al ruolo che potrebbero svolgere ad Antiochia, dove sono conosciuti e apprezzati, per recarsi in altre città dove dovranno iniziare da capo. In questo senso il digiuno significa per i singoli saper rinunciare al proprio interesse in vista del bene comune; per l’istituzione gestire al meglio le risorse, in particolare quelle umane, affidando gli incarichi più delicati agli uomini migliori; per le comunità locali sostenerne l’azione con i mezzi materiali, spirituali e culturali liberati astenendosi dall’usarli solo per sé, in modo autoreferenziale.

Del resto, non è stato proprio questo il modo di procedere di Gesù nella sua missione? Infatti, narrando questo episodio negli Atti degli Apostoli, Luca istituisce un parallelo fra l’azione comunitaria dei primi cristiani di Antiochia e i 40 giorni trascorsi da Gesù nel deserto, vissuti nella preghiera e nel digiuno (cfr Luca 4,1-13). È questa la via attraverso cui Gesù si svuota per poter accogliere appieno la missione affidatagli dal Padre. Le tentazioni vanno proprio contro questa logica di svuotamento, prospettando, invece, un modo diverso di vivere.

Luca presenta un crescendo che va dalla trasformazione delle pietre in pane alla prospettiva dell’esercizio di un potere immenso, per finire col mettere alla prova la fiducia in Dio. Un filo rosso percorre le tre tentazioni: interrompere la relazione che intercorre tra Gesù e il Padre spostando l’attenzione su altri beni, come il cibo o il potere. Il digiuno previene questo rischio, perché fa sperimentare una condizione fisica di bisogno che espone all’ansia di procurarsi da sé quanto occorre a soddisfarlo, ma proprio per questo smaschera la logica dell’esercizio autoreferenziale del potere, il cui risultato è sempre il dominio e la riduzione in schiavitù dell’altro.

A partire dall’esperienza del deserto, si capisce perché Gesù invita i suoi discepoli a praticare il digiuno, la preghiera e l’elemosina in modo sobrio, non cercando il consenso della gente, ma l’intimità col «Padre tuo, che è nel segreto» (Matteo 6,18). Tali pratiche religiose, infatti, perdono il loro senso e la loro efficacia se le si adotta a livello personale per averne un qualche tornaconto per sé o come gruppo – vedi i farisei criticati da Gesù – per marcare la propria identità e differenza. Restano esemplari, da questo punto di vista, i digiuni per la pace, come quello chiesto qualche tempo fa da papa Francesco per la Siria.


Digiunare di sé

Da tutto questo si coglie che per la Bibbia il digiuno non è una mera pratica ascetica volta a rafforzare la volontà – pur essendo questo aspetto presente – o una forma di mortificazione del corpo. Rientra piuttosto tra quegli strumenti spirituali volti ad assicurare l’unione tra l’uomo e Dio e ad aprirsi all’attenta cura degli altri.

Il digiuno è associato tradizionalmente al cibo, ma in un senso più ampio serve ad astenersi da tante altre realtà che, pur belle e utili, possono diventare nostre nemiche se si resta travolti dalla loro abbondanza: immagini, notizie, beni di consumo, potere. Per questo bisognerebbe fare attenzione a non viverlo e presentarlo in termini rinunciatari, un atteggiamento sempre meno comprensibile per l’uomo contemporaneo, abituato a realizzare quanto per lui è possibile grazie al potere della scienza, della tecnica e del denaro. La pratica del digiuno è un utile rimedio contro lo stordimento causato da un eccesso di “nutrimento”.

Digiunare, invece, permette di accogliere positivamente la dimensione di non-autosufficienza costitutiva dell’uomo, di superare l’individualismo e aprirsi alla relazione di aiuto reciproco, alla comunione come rimedio all’ingiustizia e alla condivisione di quanto di buono c’è, senza lasciarsi prendere da una sazietà solo illusoria perché mai soddisfacente. Significa interporre un tempo fra stimolo e risposta, bisogno e soddisfacimento, per valutare le conseguenze delle proprie scelte e ponderare le proprie decisioni.

Digiunare è creare quell’apparente vuoto che in realtà permette di ritrovare il senso, così come il silenzio tra le parole o le pause fra le note musicali permettono di distinguerle, comprenderle e assaporarle.


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