Dayton, 1995. Che cosa successe in questa città dell’Ohio nel novembre di quell’anno? Quel nome e quella data probabilmente non risvegliano la memoria collettiva, ma sono associati alla firma degli accordi di pace che posero fine alle guerre infuriate nella ex Jugoslavia dal 1991 al 1995, uno dei conflitti più cruenti della storia recente, le cui conseguenze, 25 anni dopo, ancora sono ferite aperte nel cuore della penisola balcanica e della costruzione europea.
Raccogliendo le testimonianze dirette di diversi protagonisti dei fatti dell’epoca, rappresentanti imparziali e liberi di tutte le parti in causa, i curatori di Dayton, 1995, Luca Leone e Silvio Ziliotto, esperti conoscitori di quella vicenda e di quella terra, riescono a tracciare un quadro chiaro della guerra prima e della pace dopo, mettendo in luce i nodi irrisolti di un dramma che si è concluso solo sulla carta. A queste voci, si aggiungono quelle di diversi rappresentanti degli Stati limitrofi, dell’Italia e del mondo anglosassone, che a vario titolo hanno partecipato a questo itinerario di “pace artificiale”, oltre a quelle di alcuni giovani, affacciatisi sulla scena successivamente alla fine della guerra e negli anni più recenti.
Tratteggiare il conflitto balcanico non è semplice, ma nel volume vi sono accurate analisi della cronologia e delle motivazioni che portarono all’aggressione della Bosnia Erzegovina da parte della Serbia nel 1992, iniziata con l’assedio della capitale Sarajevo, che durerà quattro anni, e culminata nel genocidio di Srebrenica del luglio 1995, in cui rimasero uccisi 8.600 musulmani bosniaci, secondo i dati ufficiali. Dopo quattro anni di sangue, di soprusi, di stupri di massa, sotto gli occhi assenti dei caschi blu dell’ONU, furono gli Stati Uniti dell’allora presidente Bill Clinton, a dare il via alle trattative di pace. A condurle fu Richard Holbrooke, il vicesegretario di Stato, che riuscì nell’ardua impresa di trovare un accordo per il cessate il fuoco tra le parti in causa: i musulmani bosniaci, i croati bosniaci e i serbo-bosniaci. Come scrive nel suo contributo Mirko Pejanović, scrittore e membro della Presidenza della Bosnia Erzegovina durante la guerra, «Il momento storico degli Accordi di Dayton fu rappresentato dalla cessazione di un conflitto quadriennale e dall’uccisione dei civili. L’accordo consentì la costruzione dello Stato bosniaco in pace. Se non fosse stato siglato l’accordo, sarebbe continuata la strage dei civili in tutto il territorio. Si correva il rischio del genocidio dei musulmani bosniaci. Nella sola città di Sarajevo durante l’assedio sono morti 12.000 civili, di cui 1.600 bambini. La pace in Bosnia Erzegovina rese ancora più stabile tutta l’Europa sud-orientale. Il quadro geopolitico fu garantito dagli Stati Uniti come nazione leader nel mondo alla fine del XX e all’inizio XXI secolo» (p. 129).
Gli autori non nascondono le critiche agli Accordi di Dayton, sebbene sia unanime il riconoscimento del fatto che riportarono la pace, o forse sarebbe più corretto dire assicurarono la fine del conflitto armato. In realtà, dal punto di vista politico e sociale essi non hanno fatto altro che congelare il Paese, bloccato in una macchinosa amministrazione che, per garantire la coesistenza delle tre componenti principale della Bosnia Erzegovina, rende vano qualunque tentativo di sviluppo e di riforma. Basti pensare che il Paese, con 3,5 milioni di abitanti in circa 52mila km quadrati, «possiede due entità, un distretto autonomo, 14 costituzioni, un governatorato internazionale, 14 governi, circa duecento ministri (a seconda delle scelte del momento). La stessa identica divisione è riscontrabile nel potere giudiziario, il che complica enormemente l’amministrazione della giustizia, nella sanità e in ogni ambito amministrativo» (p. 19).
Secondo il vescovo ausiliare di Sarajevo, Pero Sudar, si gioca qui la partita della pace e della stabilità dell’Europa: «questo Paese, proprio a causa della sua storia, della sua posizione geografica e della composizione etnico-culturale-religiosa, merita di diventare interesse privilegiato di tutti coloro che oggi in Europa e nel mondo osano sperare in un futuro di pace. Temo che la nostra sfida possa trasformarsi nel nostro fallimento se non sarà in grado di diventare una “sfida europea”. La Bosnia Erzegovina un quarto di secolo dopo l’insensata guerra del 1992-1995 ha bisogno di tante cose. Ma più di tutto e prima di tutto ha bisogno di una soluzione politica in grado di generare un domani di pace vera costruita sulla verità e sulla giustizia» (p. 157).
Tra i meriti di questo volume spicca quello di richiamare l’attenzione sul fatto che se non si riesce a vincere la partita della fraternità, della comunione, del dialogo, difficilmente potrà esserci un futuro per la pace e la stabilità non solo della piccola Bosnia Erzegovina, ma della stessa Europa e del mondo. La guerra ha fallito, la pace a tavolino anche, ma la speranza di risollevarsi nella società civile non si è spenta. Se le istituzioni internazionali sapranno prendersi cura di questa situazione, creando un terreno favorevole perché la popolazione bosniaca possa tornare a sognare, sarà un passo avanti verso un mondo di pace.