Riproduciamo qui uno stralcio di una più ampia riflessione pubblicata nel numero di aprile di Aggiornamenti Sociali, con il titolo «Dalla pandemia alla guerra. Spunti per attraversare un tempo turbolento»; la versione integrale è disponibile per gli abbonati.
Lo scoppio della guerra in Ucraina ci ha fatto nuovamente sperimentare una sensazione di paura per una minaccia incombente, analoga a quella che proprio due anni prima marcava le settimane di lockdown. Questa sensazione ci segnala che siamo di fronte a un rischio reale. Ce lo ricordano le molte, troppe vittime che siamo costretti a registrare: sarebbe potuto toccare a ciascuno di noi. Nel 2020 era un rischio reale lo sconosciuto SARS-CoV2, il virus che provoca la COVID-19, quando ne ignoravamo l’aggressività, la velocità di circolazione e persino le modalità di trasmissione. La storia ha conosciuto pandemie ben più gravi, ma allora non potevamo saperlo. È un rischio reale il conflitto oggi: un errore e un’incomprensione, più probabili di una scelta deliberata di distruzione, potrebbero provocare una escalation incontrollata (uno sconfinamento di truppe o missili) o un evento catastrofico (il bombardamento di una centrale nucleare o di altri impianti industriali potenzialmente inquinanti).
Per decenni, almeno in Occidente, grazie al progresso tecnologico, ci eravamo illusi di aver eliminato il rischio dall’orizzonte della vita, almeno collettiva. Restava quello legato alle scelte e alle fatalità delle biografie individuali (un incidente, una malattia, ecc.). La realtà degli ultimi anni ci avverte che non è vero. Come società dobbiamo riprendere in mano il rapporto con la dimensione del rischio, uscendo dall’ossessione per la sicurezza come reazione impulsiva alla paura, nel cui alveo si collocano anche le rapidissime decisioni di riarmo e aumento delle spese militari.
La strada è tornare a praticare la cultura della prevenzione, come l’umanità ha fatto per secoli quando disponeva di una tecnologia meno potente. La prevenzione richiede di ragionare su orizzonti di medio-lungo periodo, uscendo dallo schiacciamento sul breve e brevissimo termine: essere più formiche e meno cicale, per usare una immagine classica. Se, come ha dichiarato la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, servono cinque anni per uscire dalla dipendenza dal gas russo, è troppo tardi occuparsi di diversificazione delle fonti energetiche quando le truppe varcano il confine. Esattamente come è troppo tardi occuparsi di medicina preventiva e sanità territoriale quando gli ospedali sono prossimi al collasso come effetto della pandemia. Ed è troppo tardi occuparsi di dissesto idrogeologico quando i fiumi esondano e le montagne franano. La prevenzione non può eliminare i grandi rischi con cui ci confrontiamo, ma contribuisce a mitigarne l’impatto.
Adottare strategie preventive è una questione politica, non tecnica, perché la prevenzione costa e bisogna costruire consenso intorno a misure la cui utilità può apparire remota: chi avrebbe giustificato ingenti spese per la ricerca sui coronavirus nel 2019? Soprattutto se si tiene conto che bisogna investire per prevenire anche rischi che potrebbero non presentarsi mai. Anzi, che speriamo che non lo facciano!