Il titolo del libro di Antonio Spadaro è estremamente sfidante e, nel contempo, potenzialmente fuorviante. Sfidante perché unisce in una sola parola qualcosa di potentemente nuovo (il mondo digitale) e qualcosa di antico e radicato nella tradizione (la teologia), identificando una direzione entusiasmante per affrontare il presente e il futuro. Ma Cyberteologia è anche un titolo che potrebbe condurre fuori strada e far pensare a qualche branca iperspecializzata della teologia, un territorio di nicchia per pochi tecnofili con il pallino della religione o per religiosi appassionati di tecnologia. Ma non è così. Cyberteologia è un libro per tutti: parla del mondo in cui viviamo, e di come l’appartenenza ad esso, del quale i media sono parte integrante, orienta il nostro approccio alla fede, aprendo nuove possibilità di comprenderne la profondità inesauribile. Riguarda il modo in cui noi, uomini e donne ormai “digitali”, con il nostro bagaglio di esperienze, accediamo alla fede; e come queste esperienze possono aiutarci a penetrare più a fondo, con una nuova “intelligenza”, l’oggetto stesso della nostra fede. Questa premessa tocca alcune questioni importanti, non ancora pienamente metabolizzare dal senso comune, che il volume di Spadaro, nell’insieme, aiuta a chiarire. In sei capitoli, l’A. riesce così a esplorare il legame tra teologia e tecnologia, aiutando il lettore a comprendere quale impatto i mutamenti nel modo di comunicare portati dalla seconda avranno sulla prima, attraverso una «riflessione sulla pensabilità della fede alla luce della logica della rete» (p. 35). Il volume si apre indagando il rapporto tra teologia e media. La rete infatti – per utilizzare un’espressione del teologo Romano Guardini – è uno dei «concreti contenuti dell’esperienza del mondo» (Religione e rivelazione, Vita e Pensiero, Milano 2001 [ed. or. 1958], 11) che la teologia deve esplorare, con curiosità e senza pregiudizi. Un contenuto tutt’altro che settoriale, dotato di un potenziale retroattivo di illuminazione sulla stessa teologia, perché – precisa l’A. –, la cyberteologia non è semplicemente «contestuale» (p. 35), relativa a un contesto circoscritto in cui fede e tecnologia si intersecano, ma è, piuttosto, antropologica e ambientale. Antropologica, perché in un certo senso, siamo tutti cyborg, organismi biologici su cui sono stati innestati organi artificiali: i confini tra noi e i nostri dispositivi tendono a sfumare, poiché non ce ne separiamo mai e li lasciamo sempre attivi. I media digitali sono ormai protesi incorporate, «porte aperte che raramente vengono chiuse» (p. 9), che estendono nello spazio e nel tempo la nostra possibilità di comunicare, tenendoci perennemente connessi alla rete. In questo senso, la cyberteologia è la teologia dell’essere umano iperconnesso. I media digitali, poi, sono parte integrante del nostro ambiente: dagli schermi urbani alla musica nei centri commerciali, dai cartelloni pubblicitari alle molteplici interfacce touch. Il cyberspazio non è un mondo parallelo per pochi iniziati, ma è il nostro mondo, dove reale e virtuale, materiale e immateriale, corpi e “profili” convivono e si definiscono a vicenda. La rete non è dunque uno strumento, ma il mondo che abitiamo, che estende i confini di quello che già conosciamo e ne cambia la percezione. Ma, soprattutto, è un un luogo antropologico: uno spazio in cui incontrarsi, fare esperienza, elaborare significati comuni, allargare gli orizzonti. Ciò è possibile solo a una condizione, che l’A., pur nella sua visione positiva di ciò che la rete offre, esplicita in maniera chiara nel secondo capitolo: Internet non può essere l’orizzonte ultimo di riferimento. Anche se può contenere virtualmente tutto, la rete è tanto più potenziante quanto più indica fuori di sé la direzione della pienezza della quale suscita il desiderio. Vale a dire, per usare le parole dell’A., che «ci sono realtà capaci di sfuggire sempre e comunque alla logica del “motore di ricerca” e che la googlizzazione della fede è impossibile perché falsa» (p. 44). Per capire questo aspetto ci viene in aiuto il sociologo canadese Marshall McLuhan, quando sostiene che ogni medium insieme “abilita” e “disabilita”, creando nuove aree di percezione e di cecità. Certamente la rete ha creato nuove aree di percezione e ha valorizzato aspetti della comunicazione che si erano persi, “disabilitati” dal modello monodirezionale e tendenzialmente passivo del broadcasting: in particolare la componente attiva, creativa (espressa al grado più alto nell’etica hacker, a cui è dedicato il quarto capitolo, p. 73 ss.); e poi la reciprocità, la costruzione cooperativa del sapere, lo scambio, la partecipazione a una sorta di «intelligenza collettiva» (come la chiama il filosofo francese Pierre Lévy, p. 120 ss.) o «connettiva» (come preferisce definirla il sociologo canadese Derrik De Kerkhove, p. 123). L’attività creativa può però esercitarsi in modo prometeico, secondo un «assolutismo della tecnica», come afferma Benedetto XVI nell’enciclica del 2009 Caritas in veritate, con effetti disumanizzanti (cfr ad esempio al n. 75). Oppure può raccogliere il mandato di portare la creazione a compimento: «la tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta l’uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo, esprime la tensione dell’animo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali. La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di “coltivare e custodire la terra” (cfr Genesi 2, 15), che Dio ha affidato all’uomo e va orientata a rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio» (ivi, n. 69). La logica della rete oggi illumina di nuovo significato la verità della fede e il modo di pensare la Chiesa, come si esplicita nel terzo capitolo, anche se non si tratta di considerare quest’ultima un semplice «spazio connettivo» (p. 58), in un’ottica puramente orizzontale. L’A. ricorre infatti all’immagine della vite e dei tralci per indicare la natura peculiare della relazione umana, che nell’era digitale acquacquista una nuova evidenza: solo se restiamo «connessi», non solo tra di noi, ma rimanendo in Cristo, avremo la vera vita. Una connessione orizzontale, quindi, che trae linfa dalla mediazione tra cielo e terra. La stessa logica della rete – dove si lasciano le proprie opinioni su musica e libri, o i propri giudizi in materia di affidabilità di un utente di siti commerciali – ci invita a farci testimoni: «la testimonianza è da considerare, all’interno della logica delle reti partecipative, un “contenuto generato dall’utente”» (p. 70), anche perché nell’era digitale i contenuti passano attraverso le relazioni, e relazioni che siano autorevoli, cioè manifestino un legame profondo tra parole e vita. Può sorgere, a questo punto, una domanda che l’A. fa propria e a cui risponde nel quinto capitolo: se il virtuale è reale – e in molti casi si tratta di una «realtà aumentata » (p. 113), più complessa di quella materiale grazie all’infinito gioco delle connessioni –, è un luogo antropologico e potenzialmente simbolico, perché allora non farne anche il luogo dei sacramenti? La risposta è molto chiara: il virtuale è reale, ma di una realtà cui manca la pienezza che si ritrova invece nella liturgia e nei sacramenti: non la esclude, ma non può contenerla. La rete può produrre sintonia emotiva o ricchezza informativa, ma la partecipazione ai sacramenti è qualcosa di più, dato che il sacramento è un segno efficace (p. 114), che produce effetti nella realtà. E che non può prescindere dal contatto intercorporeo, dalla relazione con la persona nella sua totalità. La rete non può contenere quella che Romano Guardini definisce «la libera pienezza della totalità cristiana»: essa aumenta l’accessibilità, ma riduce la qualità della presenza. La presenza che si realizza nei sacramenti è invece una “presenza aumentata”: non dalla tecnica, ma dalla Grazia, che “buca” l’orizzontalità del web. In un mondo dove, in assenza di riferimenti esterni, rischiamo di finire risucchiati dai nostri dispositivi e dal cerchio autoreferenziale di immanenza che essi costruiscono, la fede e il linguaggio della liturgia rappresentano un luogo di resistenza, e quindi di libertà, rispetto ai rischi di smaterializzazione dell’era digitale. D’altra parte la rete, se non può farsi luogo della liturgia e dei sacramenti, può però stimolare a un rinnovamento la liturgia di oggi che, influenzata dal carattere astratto e un po’ intellettualistico dell’era predigitale, rischia di veder indebolita proprio quella capacità di coinvolgimento totale che è in grado di parlare a tutti, nativi digitali compresi. La questione di come possano vivere la liturgia persone avvezze alla «realtà aumentata » è importante, specie quando la liturgia insiste troppo sulla dimensione semantica, a scapito della componente simbolica e rituale: che non è una “cerimonialità” formale, ma un linguaggio polisensoriale totale (fatto di immagini, luci, suoni, profumi, colori, gesti) in grado di mettere in comunicazione il cielo e la terra, il finito e l’infinito. In questo senso, la liturgia può essere oggi un luogo non solo di resistenza alla perdita di corporeità e concretezza, ma anche di recupero della pienezza del reale attraverso il simbolico. Come scriveva Teilhard de Chardin, autore caro a p. Spadaro, che dedica le riflessioni finali del suo volume all’intuizione del concetto di “noosfera” del sacerdote gesuita, «Niente è profano quaggiù per chi sa vedere» (L’ambiente divino. Saggio di vita interiore, Brescia, Queriniana 2003, 40-41). Anche se, come l’A. stesso dichiara, si tratta solo del primo passo di un lungo cammino a venire, questo libro riesce a individuare una via di possibile convergenza tra teologico, tecnologico e antropologico: solo se riuscirà ad aprirsi alla dimensione teologica la rete potrà diventare un luogo pienamente antropologico. È questa la sfida di libertà che siamo chiamati a raccogliere oggi.
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