Cristianesimo e potere
Paolo Prodi
Il Mulino, Bologna 2012, pp. 225, € 12
«Il dualismo tra il potere sacro e il potere politico ha introdotto nella società europea la fibrillazione, la
tensione che ha portato alla nascita della politica come progetto e ha generato il moderno Stato di diritto e la
laicità. […] L’Occidente nella sua storia ha imparato a tenere a bada il sacro senza scacciarlo e questa è la
nostra conquista della laicità […]» (p. 7). Al centro dell’indagine di Paolo Prodi, professore emerito di
Storia moderna all’Università di Bologna, si colloca dunque la questione del potere, che riallaccia il filo di
un discorso avviato da ormai quarant’anni con i primi studi di storia ecclesiastica e proseguito sino a oggi in
una serie di saggi (parte dei quali raccolti in questo volume) che hanno in qualche modo cadenzato le tappe
principali della sua importante produzione scientifica dedicata alla genesi della modernità nell’Occidente
cristiano.
Nella visione dell’A., il sacro è componente ineliminabile del potere, nel cui esercizio si mettono in gioco
i problemi della vita e della morte, del dominio degli uomini sugli altri uomini. Se potere religioso e potere
politico (ed economico) rischiano sempre di fondersi osmoticamente fino a fare prevalere il primo
(teocrazie) o il secondo (totalitarismi e nazioni-chiesa), in Occidente si è innestata, proprio grazie al
cristianesimo, una dinamica di distinzione (giustizia divina/giustizia umana, reato/peccato), che ha
contribuito progressivamente a de-sacralizzare il potere (dal giuramento al patto politico di convivenza
civile) innescando un processo di secolarizzazione tuttora in corso. Il pensiero dello storico bolognese si
trova in piena sintonia con quanto espresso da Benedetto XVI quando era cardinale, nel saggio Chiesa,
ecumenismo e politica (Paoline, Cinisello Balsamo 1987). Joseph Ratzinger, nel rimarcare gli effetti della
separazione dell’autorità sacrale da quella statale – a suo dire «l’inizio e il fondamento persistente dell’idea
occidentale di libertà» (cit. ivi, p. 116) –, sottolineava infatti anche la differenza di fondo prodotta da tale
dualismo nella concezione stessa del potere rispetto a quanto accade nell’islam teocratico e, sull’altro fronte,
nello Stato ideologico, cioè totalitario; entrambe realtà in cui la mancata distinzione fra le due sfere ha reso e
rende tuttora difficile l’esercizio della libertà individuale.
Ma come e quando si è arrivati in Occidente a questa separazione o, per usare le parole dell’A., a questa
«recinzione» del sacro e, dunque, alla conquista della laicità, seppur oggi al centro dell’attacco convergente
del fondamentalismo e delle “religioni politiche”?
Si tratta di un lungo percorso, che origina nell’antichità con il patto siglato tra Dio e il popolo eletto nel
Vecchio Testamento e si sostanzia soprattutto a partire dalla riforma gregoriana del papato e dalla dialettica
tra Riforma e Controriforma, intrecciandosi all’iter di formazione dello Stato moderno e alla conseguente
confessionalizzazione (sancita dal principio del cuius regio, eius religio, secondo cui gli abitanti di una
regione dovevano adottare la religione professata da chi ne era sovrano). Prodi prova a tracciarlo utilizzando
come filo rosso alcuni suoi studi pubblicati tra il 1961 e il 2011 e qui integralmente riproposti.
Da questi studi emerge con forza un altro tratto saliente e peculiare dell’Occidente cristiano: la nascita e il
progressivo sviluppo del potere economico, un potere “terzo”, la cui specificità consiste nel mantenersi
autonomo rispetto al sacro e al politico e indipendente dall’esercizio di un dominio territoriale. E pertanto
più pervasivo e globale, come la recente finanziarizzazione del mondo sta a dimostrare. Un potere che si
manifesta in un rapporto dialettico con le altre due sfere lungo un processo storico estremamente dinamico,
dal quale «nasce la dialettica complessa tra il bene comune come fine della politica, l’interesse come fine
dell’attività economica e il sacro» (p. 9) e a cui l’A. ha espressamente dedicato il volume Settimo non rubare
(cfr «L’intreccio evolutivo di mercato e democrazia», in Aggiornamenti Sociali, 1 [2010] 65-70).
I rapporti tra finanza e politica costituiscono il terreno d’indagine da cui è partita la riflessione
storiografica di Prodi, che non a caso allinea all’inizio di Cristianesimo e potere proprio due lavori, usciti
rispettivamente nel 1961 e nel 1971, dedicati il primo alle finanze pontificie negli anni del Concilio di
Trento (Operazioni finanziarie presso la corte romana di un uomo d’affari milanese nel 1562-63) e il
secondo all’evoluzione delle istituzioni ecclesiastiche in un ambito circoscritto ma significativo quale la
Serenissima repubblica veneta (Strutture e organizzazione della Chiesa di Venezia tra il XV e il XVII secolo.
Ipotesi di ricerca). L’A. entra quindi nel vivo della riflessione sui rapporti fra sacro e politico avviata nel
contesto delle ricerche promosse dall’Istituto di scienze religiose di Trento: quella dedicata alle Strutture
ecclesiastiche in Italia e in Germania prima della riforma (1984) e Cristianesimo e potere (1986).
Quest’ultimo testo è il frutto di un periodo di studi condotto da Prodi in Messico e in Brasile alla ricerca
delle basi da cui prese le mosse la “teologia della liberazione”, risposta radicale al dibattito fra quanti
puntavano sulla Chiesa quale strumento per la liberazione dei popoli da ogni forma di povertà e
colonialismo e quanti invece confermavano la centralità del patto tra la religione e la struttura di potere
consolidatasi in Occidente. Lo studioso va qui alla ricerca delle lontane radici di questo patto, puntando
l’attenzione sul nodo della legittimazione del potere da parte del cristianesimo e sulle sue ricadute tanto sul
piano della riflessione etico-sociale (la dottrina sociale della Chiesa) quanto su quello della storia politica
italiana (l’esperienza della Democrazia cristiana).
Non meno interessante l’indagine effettuata da Prodi nel 1988 sugli aspetti sacramentali del potere
politico (Dall’analogia alla storia. Il sacramento del potere) e qui presentata alle pp. 115-147. L’articolo
prende le mosse dalla già citata riflessione dell’allora cardinale Joseph Ratzinger circa la separazione tra
autorità statale e autorità sacrale peculiare del cristianesimo e va quindi ad analizzare l’evoluzione del
giuramento come base del patto politico, ponendo al centro il problema della sua secolarizzazione attraverso
la metamorfosi del giuramento – nato come fenomeno “laico” e divenuto col tempo cristiano –, sino alla sua
attuale, de facto, estromissione dall’atto fondativo della realtà collettiva e, dunque, delle regole del vivere
sociale.
Negli ultimi due studi della raccolta, l’A. offre ulteriori spunti di riflessione sul potere applicati a grandi
temi dei nostri anni: la costruzione dell’area europea come spazio giuridico comune e una rilettura della
Shoah e del “problema ebraico” in generale.
Nel primo saggio – Il patto politico come fondamento del costituzionalismo europeo, del 2007 (pp. 179-
200) –, paragonando la situazione europea nel nuovo mondo globalizzato a quella dell’Italia dopo la Pace di
Lodi (1454) – quando gli staterelli della Penisola finirono progressivamente schiacciati dalla “concorrenza”
dei nascenti Stati-nazione –, Prodi punta il dito contro l’incapacità del Vecchio Continente di «dominare i
nuovi poteri emergenti a livello planetario e che portano al dominio del mercato, dell’economia sulla
politica» (p. 197) e ritiene che la sola via di salvezza per poter reggere le nuove sfide della competizione
globale sia, per l’Europa, quella di ricostruire «un patto, un giuramento, un matrimonio politico» (ivi) capace
di garantire la continuità anche alle generazioni future, andando ben oltre la semplice “carta dei diritti” di cui
si parla da qualche anno a Bruxelles.
Per quanto riguarda invece le derive liberticide e criminali degli Stati totalitari e dei rinascenti
fondamentalismi (siano essi di matrice religiosa o ideologica), nelle quali si inserisce l’orrore dell’Olocausto
(Monoteismi e religioni politiche, del 2011, pp. 201-215), Prodi ritiene inadeguate le riflessioni sin qui
avanzate e prive, a suo dire, di un forte ancoraggio storico. «Ciò che sembra ancora mancare – scrive – è una
riflessione di lungo periodo per capire se queste perversioni hanno rappresentato in qualche modo una
patologia esterna, una malattia temporanea dell’Occidente per combattere la quale basta un nuovo
illuminismo, la modernizzazione e il progresso, o se invece si tratta di problemi che erano già interni al
nostro modo di essere uomini occidentali in rapporto alle grandi religioni monoteiste, le religioni di Abramo
(ebraismo, cristianesimo, islam) che ne avevano caratterizzato la storia millenaria» (p. 202). In sostanza, per
lo storico emiliano, di fronte al pericolo rappresentato dalla resistenza da parte degli ebrei all’omologazione
nello Stato-nazione (ritenuto l’unica possibile identità collettiva), il nazifascismo ha risposto con la guerra e
lo sterminio. Di qui la sfida, valida a maggior ragione oggi e nonostante la costruzione di uno Stato ebraico
(nel quale vivono solo un terzo degli ebrei del mondo), a dar vita a una nuova teologia politica tra le
religioni del Libro. «Dobbiamo re-inventare – conclude Prodi – un’appartenenza multipla, riscoprire sulla
base dell’esperienza ebraico-cristiana una storia della salvezza che si misuri con le religioni in cui l’uomo è
visto soltanto come una “particella” o molecola di un cosmo-impero. Non soltanto per l’eredità della Shoah
il problema d’Israele è ormai un nostro problema, un problema di tutti noi» (p. 215).
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