Le città sono da sempre un prisma privilegiato da osservare e interrogare per capire il tempo in cui si vive e le sue dinamiche sociali, culturali, economiche e politiche. Ogni grande sociologo si è cimentato, in modo esplicito o implicito, nello studio del fenomeno urbano e delle sue diverse forme nel tempo e nello spazio. È il caso, ad esempio, di Richard Sennett. Nel corso della sua lunga carriera la città è sempre stata il contesto principale delle sue osservazioni, lo sfondo nel quale prendevano forma i vari fenomeni studiati (dai mutamenti della sfera pubblica all’emergere della flessibilità come imperativo nel lavoro, alle disuguaglianze nel riconoscimento sociale della dignità umana).
In Costruire e abitare, Sennett studia la città non più come sfondo ma come oggetto esplicito della sua riflessione, completando così la trilogia dell’homo faber iniziata dieci anni fa, in cui ha approfondito la capacità delle persone di costruire con intelligenza ne L’uomo artigiano del 2008 (cfr la recensione in Aggiornamenti Sociali, 6 [2009] 469-473) e di fare le cose con altri in Insieme. Rituali, piaceri, politiche della collaborazione del 2012 (cfr la recensione in Aggiornamenti Sociali, 8-9 [2013] 618-620).
In Costruire e abitare, il sociologo statunitense si sofferma sul rapporto tra chi progetta la città e chi la abita. L’assunto dell’A. è che nell’azione del progettista urbano vi sia sempre un intrinseco sbilanciamento di potere, dato che il modo in cui gli spazi sono progettati e costruiti vincola gli abitanti nel viverli e ne condiziona le relazioni. Questo potere pone alcuni cruciali problemi etici. Fino a dove gli urbanisti possono spingersi nell’imporre agli abitanti la loro idea di città? E a chi devono rendere conto delle proprie scelte? Agli amministratori pubblici, perché le città siano più ordinate e più controllabili? Ai visitatori, affinché siano più attraenti da vedere? Agli immobiliaristi, per rendere gli edifici più vendibili e remunerativi? E quando anche si assumessero criteri più disinteressati, come ad esempio il produrre spazi più belli, oppure più sicuri o più ecologici, siamo certi che l’idea di bellezza, di sicurezza o di ecologia degli urbanisti coincida con quella degli abitanti? E, ancora, se le preferenze degli abitanti fossero molto diverse tra loro, gli urbanisti dovrebbero progettare quartieri e città per popolazioni omogenee per evitare conflitti di preferenza, o spazi ibridi affinché le diversità possano convivere nello stesso luogo?
La questione di fondo che sottende a tutte queste domande è trovare relazioni eticamente giuste tra progettisti e abitanti. Questo tema è particolarmente attuale nel nostro Paese, che da almeno venti anni è alle prese con l’urgenza di ristrutturare e talvolta anche ricostruire interi quartieri urbani. La veloce urbanizzazione successiva al boom economico della seconda metà del Novecento ci ha lasciato in eredità spazi urbani spesso degradati e inadeguati dal punto di vista sociale, e talvolta anche da quello strutturale. La scarsa qualità di molte periferie delle nostre città le ha rese ghetti urbani, dove si sono addensate povertà degli abitanti, carenza di servizi e di luoghi di socialità, percezione di insicurezza. In queste realtà è facilmente emerso il risentimento verso i nuovi arrivati (migranti e minoranze etniche), come nel caso delle proteste contro i rom in alcune borgate romane. Come intervenire allora per migliorare la qualità di questi contesti urbani senza arrivare a espellere i più poveri (gentrification) e senza far calare dall’alto le soluzioni più adatte?
Seguendo il suo stile poliedrico e cosmopolita, Sennett indaga tale questione accompagnando il lettore in un lungo e articolato viaggio nel tempo e nello spazio, dall’opera dei principali progettisti urbani del XIX secolo, come Haussmann a Parigi, Olmsted a New York o Cerdà a Barcellona, agli attuali progetti urbanistici di Shanghai o degli Emirati Arabi, passando per la descrizione degli spazi pubblici nella Siena medievale o del ghetto ebraico nella Venezia rinascimentale, con continui ed eruditi riferimenti a filosofi, ingegneri, artisti di tutte le epoche, oltre che ai principali sociologi e urbanisti degli ultimi due secoli. In questo viaggio, Sennett mantiene l’attenzione divulgativa delle sue ultime opere: non parla solo alla comunità dei sociologi o degli urbanisti bensì, come un vecchio saggio della riflessione sociale contemporanea, si rivolge anche ai non addetti ai lavori, spiegando e sintetizzando il pensiero degli autori che cita e richiamando la propria esperienza di progettista e consulente per i programmi urbanistici delle Nazioni Unite, di residente in grandi città (Chicago, Boston, New York e Londra), di turista a Medellín o Berlino e di collaudatore di software collaborativi.
In questo percorso, Sennett ripercorre le diverse stagioni vissute dalla professione dell’urbanista, mostrando bene come nell’età precapitalistica, quando in Occidente le città erano meno sviluppate e decisive sul piano sociopolitico, vi fosse un maggior dialogo tra l’idea di città emergente dalla vita quotidiana dei suoi abitanti (la cité) e quella dei suoi progettisti (la ville). Con le rivoluzioni politiche e industriali del XIX secolo ha iniziato a prodursi una tensione tra esigenze di sviluppo economico ed espansione urbana da una parte e aumento delle libertà civili e politiche dei cittadini dall’altra. Si è consumato in modo progressivo un divorzio tra input dei governi della città, spinti a dare ordine, armonia e controllabilità allo spazio urbano, e abitanti che usano gli spazi cittadini secondo esigenze proprie, non del tutto prevedibili dai progettisti.
Si sono così creati due grandi filoni del pensiero urbanistico. Il primo è di impronta illuministica e razionalista, poi fatto proprio anche dal socialismo istituzionale, che privilegia il punto di vista esterno del progettista, il quale – grazie al suo distacco dalle esigenze particolaristiche degli abitanti – sa individuare il bene superiore della città e dunque imporre la ville sulla cité. Esemplificativi di questa linea sono il sociologo statunitense Lewis Mumford o il grande architetto francese Le Corbusier. Il secondo filone fa proprio il punto di vista degli abitanti, ai quali è riconosciuta la capacità di creare spontaneamente le forme e gli spazi più adatti alla loro cité. Promotori di questa visione sono i sociologi della Scuola di Chicago, abituati a studiare da vicino le forme di socialità e di residenzialità che si sviluppano nei diversi quartieri delle città, o Jane Jacobs, la grande urbanista e attivista politica statunitense che spese l’intera vita a sostenere la causa degli abitanti contro i grandi progetti di trasformazione urbana di New York prima e di Toronto dopo.
A rendere estremamente attuale la riflessione di Sennett è la sua applicazione alle attuali esperienze di utilizzo di tecnologie nella progettazione della smart city. Secondo l’A. esistono due modi di applicare la tecnologia nell’attività urbanistica. Un modo “prescrittivo”, che mira solamente a ipersemplificare la vita dei cittadini e a prevenire ogni imprevisto o frizione possibile, a costo di rendere però omologata e controllata dall’esterno la vita sociale, come accade per esempio nel progetto della città completamente smart di Songdo in Corea del Sud o nei complessi costruiti da Google per i propri dipendenti in giro per il mondo (i Googleplex). Ma esiste anche una smart city “cooperativa”, pensata invece per facilitare il confronto tra i cittadini, mantenendo tutto il potenziale di creatività e di generatività legato all’incontro con il non noto e con il diverso da sé.
Pur vedendo tutti i rischi connessi con lo sviluppo di città sempre più progettate “a tavolino” o da qualche algoritmo, la visione di Sennett rimane aperta alla possibilità di umanizzazione della vita urbana, per almeno due motivi. Anzitutto, come mostra in numerosi esempi, le città sono luoghi vivi indipendentemente dalle intenzioni dei progettisti: nonostante i vincoli posti dalla forma di strade, piazze, case e barriere fisiche, gli abitanti adattano alle loro esigenze gli spazi secondo modalità non del tutto prevedibili. In secondo luogo, l’A. è fiducioso nella possibilità che si affermi un modo di costruire le città che sappia rispettare gli abitanti e il loro sapere. Lo snodo è dato dall’atteggiamento tenuto da parte del progettista, che non deve abdicare al proprio compito di proporre visioni di insieme non particolaristiche o negare la relazione di potere insita nella progettazione urbana. Anzi, proprio perché si riconosce questa asimmetria di potere, dice Sennett, bisogna che il progettista adotti un atteggiamento di modestia, imparando a «vivere uno tra molti, coinvolto in un mondo che non rispecchia soltanto se stesso» (p. 326). Di conseguenza non si tratta tanto di plasmare la città secondo il proprio disegno quanto di “ripararla” artigianalmente e rendere possibile il dialogo progettuale con gli abitanti, anche arrivando a “togliere il disturbo” dove la propria presenza inibirebbe l’espressione della loro voce.
In questa focalizzazione sul progettista possiamo individuare forse il limite principale del discorso di Sennett. Affidare le speranze di un maggior coinvolgimento degli abitanti nella progettazione alla sola modestia del progettista significa infatti rimanere in un’ottica paternalistica, che non mette in campo degli strumenti per riequilibrare il rapporto di potere con la cittadinanza. Nel nostro Paese, inoltre, troppo spesso le amministrazioni pubbliche usano affidare importanti progetti di costruzione o di riqualificazione urbana a grandi nomi dell’architettura, come se questi potessero, pur con tutta la loro buona volontà, risolvere da soli i dilemmi della progettazione. Il dialogo tra chi progetta e chi abita è un lavoro troppo complesso per essere lasciato alla sola modestia dell’architetto o dell’ingegnere e richiede pratiche e regole che permettano a tutti gli attori interessati di far ascoltare la propria voce e, quindi, di mettere in atto una reale collaborazione nel costruire la città.