Contro il colonialismo digitale

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Roberto Casati
Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 130, € 15
Scheda di: 
Fascicolo: novembre 2013
L’mmagine è efficace: i fautori del digitale a tutti i costi che tentano di “colonizzare” progressivamente tutti gli ambiti dell’attività umana. Secondo Roberto Casati, filosofo e direttore di ricerca del CNRS all’Institut Nicod di Parigi, il “colonialismo digitale” si incarna nell’idea che se una qualsiasi pratica, attività o processo può passare al digitale, allora deve farlo. Contro il colonialismo digitale è un saggio che vuole mostrare come questa impostazione sia ideologica e, di conseguenza, fuorviante se applicata senza una attenta analisi caso per caso. Un’ideologia che diventa addirittura pericolosa quando inizia a coinvolgere il campo dello studio e della lettura attenta, attività cardine di quel delicato processo che è l’apprendimento.

Casati mostra come in molti ambiti si sia già effettuato il passaggio al digitale (si pensi alla fotografia o anche alle sperimentazioni di “voto elettronico”), sebbene il successo di queste operazioni non sia scontato. Ora anche la scuola e, in particolare, le attività di lettura e studio si stanno attrezzando per effettuare questa transizione. Casati a questo proposito contesta soprattutto «l’idea che l’iPad e succedanei siano “il libro del futuro” e che se ne auspichi l’introduzione in tutte le scuole» (p. 44). Non è forse un caso, peraltro, che le decisioni ministeriali relative alla progressiva sostituzione dei libri cartacei con gli e-book abbiano subito nel frattempo alcune rilevanti modifiche.
Solo a prima vista il libro di Casati può essere derubricato a opera di genere “apocalittico”, quelle – per intendersi – che lanciano allarmi sulle conseguenze negative di ogni innovazione tecnologica. C’è forse, nella prima parte del libro, qualche scivolamento nella nostalgia di una cultura del libro che non c’è più, ma la sostanza del volume è in realtà un’argomentazione molto convincente su come immaginare un futuro positivo per le tecnologie cognitive: quello di essere adattate al modo in cui funziona la nostra attenzione, invece che – come successo finora – imporsi alle nostre funzioni cognitive.

Vediamo nel dettaglio come si snoda il ragionamento. Molte sperimentazioni scolastiche in corso nel mondo, e anche in Italia, hanno l’obiettivo di far convergere sui tablet tutte le attività degli studenti in classe: lettura, scrittura, consultazione. Il tablet è in effetti – argomenta l’autore – lo strumento vincitore della competizione tecnologica per la lettura digitale. Esso, però, pur essendo uno strumento con cui si può anche studiare, non è pensato specificamente per questo scopo. Gli e-book reader a inchiostro elettronico – molto più adatti alla lettura – hanno perso mercato a favore dei tablet perché monofunzionali, per lo stesso motivo per cui la musica viene oggi ascoltata sugli smartphone o sui computer, sebbene questi strumenti riproducano i suoni in maniera molto più grezza rispetto a un impianto dedicato. In questo caso, come in quello del tablet, la multifunzionalità vince sulla qualità.
Ma che cosa sono i tablet, dice Casati, se non finestre aperte su un mondo di stimoli a portata di mano, peraltro in preponderanza di tipo commerciale? Vogliamo davvero che gli studenti leggano e studino con uno strumento in cui «sei a un click di distanza da letteralmente milioni di app e video potenzialmente più interessanti e comunque meno faticosi da visionare, e di messaggi della rete sociale sempre molto urgenti e appetitosi»? (p. 46). Un ambiente ipertestuale e costantemente aperto alla navigazione in Rete non rappresenta un contesto adatto alla lettura attenta e allo studio. Al contrario, il libro stampato si è sempre caratterizzato come un ottimo strumento per favorire la concentrazione. La differenza sta nella diversa capacità di proteggere e convogliare la nostra attenzione.
Casati fonda la sua argomentazione sulla critica di due concetti chiave del colonialismo digitale: quello di “multitasking” e quello di “nativi digitali”. Con una puntualizzazione che pare molto indovinata, l’A. critica il concetto di multitasking sostituendolo con quello di “task switching”. Avrebbe senso infatti, dice Casati, parlare di multitasking se davvero le nostre facoltà cognitive lo permettessero. In realtà, il cervello umano è fatto per dare attenzione a una cosa per volta. Ecco perché il multitasking si concretizza in realtà in un continuo spostamento (switch, in inglese) dell’attenzione da un’attività all’altra. Solo che a ogni passaggio da un focus all’altro il nostro cervello subisce una dispersione di energia, che si trasforma in affaticamento e conseguente perdita di profondità, sia nelle attività di analisi sia in quelle creative. Insomma, il multitasking non è un dato strutturale delle nuove tecnologie ma una «imposizione subita, causata da cattivo design e inerzia» (p. 59).
Da qui discende anche la critica al concetto di “nativi digitali”, secondo cui le nuove generazioni mostrano una naturale familiarità con i mezzi digitali e per questo anche un modo di fare didattica che venisse incontro a queste modalità comunicative sarebbe più efficace. È vero, argomenta l’A., che i ragazzi vivono oggi in un mondo digitalizzato fatto di stimoli frammentati e che hanno grande familiarità con questi strumenti, ma ciò non significa che la scuola debba adottare la stessa modalità comunicativa per svolgere il proprio ruolo. In questo modo diamo per scontato che il cervello dei nostri ragazzi funzioni meglio in questa modalità, anche se non esistono solidi supporti scientifici per questa idea, e quelli che ci sono vanno piuttosto nella direzione opposta. Che cosa deve fare allora la scuola secondo Casati? Continuare a fare quello che ha sempre fatto: offrire un contesto nel quale sia possibile andare in profondità, oggi a maggior ragione perché fuori è sempre più difficile farlo.

Sottrarsi al flusso della comunicazione è fondamentale per lasciare spazio ad alcune funzioni nobili dell’intelligenza umana come l’ideazione, la concettualizzazione, la comprensione profonda, l’immedesimazione in un contesto complesso. La scuola quindi non deve forzatamente tentare di educare le giovani generazioni alla frammentazione delle attuali interfacce digitali, ma piuttosto offrire un contesto in cui anche la novità tecnologica possa avere il suo spazio, ma come oggetto di riflessione protetto dal flusso disorientante degli stimoli. «Lo zapping a scuola – dice Casati – deve essere vietato per definizione» (p. 130).
La sfida è dunque quella di trovare modalità per sfruttare le tecnologie laddove sono utili, senza che esse attentino agli spazi della lettura e dell’approfondimento. Casati insiste sul fatto che ogni interfaccia va studiata a partire dallo scopo che ci si prefigge, e concepita tenendo conto della necessità della protezione dell’attenzione, come risorsa fondamentale ma scarsa. Gli esempi del buon uso della tecnologia che egli propone guardano soprattutto al di fuori dell’aula: blog che possano fungere da molla dell’interesse degli studenti prima delle lezioni o esercizi di creazione e mantenimento di Wikipedia come risultato dello studio e della riflessione fatta in classe. Quando si tratta invece di lettura attiva, la natura lineare e monofunzionale del libro resta l’interfaccia migliore che abbiamo a disposizione.

Molte prove sperimentali che nel frattempo sono emerse confermano i dubbi di Casati sulla necessità di protezione dall’eccesso di frammentazione. Se vogliamo trovare un limite a questo ragionamento, esso risiede nell’equazione implicita tra modalità di comunicazione digitale e contesti distrattivi per la lettura. Non è detto che anche all’interno del mondo digitale non possano essere concepiti strumenti adatti al tipo di attività necessarie alla lettura attenta. Sebbene la difesa del libro cartaceo oggi sembri giusta, infatti, andrà senz’altro rivista quando saranno disponibili nuovi supporti per la lettura digitale. Casati infatti non approfondisce il tema degli strumenti dedicati specificamente alla lettura (ad esempio gli e-book reader, basati sulla tecnologia dell’inchiostro elettronico), se non per dire che hanno “perso” il confronto con i tablet. Non è chiaro, quindi, se per l’A. quella sia una strada da abbandonare o se, trovando il giusto approccio, anche la lettura digitale possa esserci utile in qualche modo (senza contare gli usi particolari che i libri elettronici talora permettono, come ad esempio la lettura ad alta voce per chi soffre di dislessia). L’idea della “protezione dell’attenzione” è invece il messaggio più importante del libro. Essa viene giustamente descritta come dipendente sia da spazi fisici e temporali adatti, sia dal design delle interfacce e delle situazioni di apprendimento. Giusta anche l’idea che questo spazio non possa che essere fornito dalla scuola se si vuole che le persone ne sperimentino la necessità, vi vengano in un certo senso abituate e sappiano poi proteggersi da sole fuori dal contesto scolastico. Si parla molto oggi di “competenze digitali” facendo riferimento a diverse abilità operative e critiche di utilizzo della Rete. Estendendo il concetto, emerge dalla lettura di questo libro che gestire quella forma di protezione della propria attenzione di cui parla l’A. sia una delle competenze digitali – ma non solo – più importanti.

Casati ha lanciato il sasso in uno stagno che, soprattutto in Italia, era ancora molto calmo e infatti il suo libro ha suscitato un grande dibattito, soprattutto nei blog che trattano di scuola e letteratura (basta cercare il titolo sui principali motori di ricerca per averne una ampia selezione). Per chiunque sia impegnato ad affrontare il tema dei nuovi media e del loro utilizzo come strumenti di apprendimento si tratta di una lettura stimolante, che per lo stile e la struttura dell’argomentazione risulta anche molto piacevole. L’invito di Casati a non subire la novità tecnologica ma a selezionare e negoziare con essa gli strumenti migliori per fare ciò che veramente ci è utile, sembra un messaggio che può realmente contribuire a uno sviluppo positivo della comunicazione digitale.
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